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Macron tra Versailles e l’Europa

Michele Marchi - 14.07.2018
Fractures françaises 2018

Nel momento in cui numerosi sondaggi cominciano pericolosamente ad avvicinare il livello di gradimento di Emmanuel Macron a quelli decadenti di Nicolas Sarkozy e di François Hollande a quindici mesi dalla loro elezione, il presidente in carica parla alle camere riunite in congresso a Versailles.

Innanzitutto il calo di popolarità e di gradimento preoccupa per due ragioni principali. Da un lato perché le due “estreme”, cioè il Rassemblement National (di Marine Le Pen) e la France Insoumise (di Mélenchon) non sembrano recedere nelle intenzioni di voto in vista delle europee della prossima primavera. Dall’altro perché se l’elettorato di centro-destra (Les Républicains) che lo aveva votato al ballottaggio presidenziale tutto sommato continua a sostenerlo, quello socialista che lo aveva scelto al primo turno (preferendolo ad Hamon) e in maniera massiccia al ballottaggio (in funzione anti-Le Pen) sembra oggi scontento e tende ad abbracciare lo slogan del “président des riches”.

Un’altra precisazione va poi fatta in relazione alla scelta di parlare a Versailles. Dopo la riforma del 2008 la procedura è prevista dalla Costituzione revisionata (in precedenza il presidente della Repubblica poteva inviare messaggi alle Camere che dovevano essere letti non in sua presenza). Sarkozy e Hollande avevano utilizzato questa nuova prerogativa per una volta ciascuno. Macron aveva già anticipato, nella sua prima apparizione da neo-eletto, che si sarebbe presentato davanti a deputati e senatori in plenaria ogni anno, per una sorta di bilancio delle riforme attuate e per delineare i progetti futuri. Nell’ottica di Macron il momento dovrebbe essere una sorta di discorso sullo stato dell’Unione sul modello di quello statunitense. La pratica si inserisce alla perfezione nella lettura presidenziale e verticale che Macron ha impresso al suo mandato. In questo scenario di evoluzione il sistema della Quinta Repubblica si candida a pieno titolo a modello virtuoso di democrazia esecutiva, da opporre agli esempi degenerati della Russia di Putin o dell’Ungheria di Orban.

Una volta chiarita la dimensione metodologica della scelta di Macron, occorre poi soffermarsi sui contenuti del discorso pronunciato a Versailles. L’inquilino dell’Eliseo non ha fatto passi indietro a proposito della sua volontà di introdurre importanti dosi di liberalismo nel sistema economico-sociale transalpino. Vi ha soltanto aggiunto una dimensione sociale, fino ad oggi in parte trascurata. Il riferimento esplicito alla necessità di proporre un nuovo stato sociale (Etat-Providence) per il XXI secolo e quello molto evocativo della volontà di di contrastare le «ineguaglianze di destino» riecheggiano una sorta di new liberalism di matrice anglosassone. Nell’ottica di Macron tutto ciò dovrebbe poi andare di pari passo con il consolidamento dell’ordine repubblicano, la lotta contro la disarticolazione della tradizione culturale francese e la ricerca di una rinnovata grandeur.

È evidente come continui il suo tentativo di destrutturazione dell’asse tradizionale destra/sinistra, avviato nella primavera del 2017 e ribadito a Versailles nel momento in cui ha parlato di uno scontro europeo tra “progressisti e nazionalisti”. 

Quello operato con l’intervento di Versailles è senza dubbio un buon tentativo di rilancio del quinquennato come risposta ad alcuni segnali inquietanti provenienti dall’opinione pubblica. Sarebbe però da ingenui non ricordare con attenzione tali segnali.

Innanzitutto Macron appare sempre più isolato a livello interno, sul piano europeo e su quello globale. A livello interno il suo tentativo di riproporre e aggiornare la parte migliore del giscardismo e del socialismo contrattualistico (Rocard) e liberale (Strauss-Kahn) è sempre più minoritario. I malumori all’interno di una parte del gruppo parlamentare LRM ne sono la testimonianza più evidente. In secondo luogo a livello europeo il recente Consiglio di Bruxelles, dominato dagli screzi franco-italiani e dalla scelta tedesca (in larga parte per ragioni di politica interna) di non assecondare l’alleato d’oltre Reno nel suo rilancio, hanno fotografato in maniera fedele questa solitudine. E infine la svolta protezionista degli Usa e in generale la condotta scelta da Donald Trump a livello globale erodono qualsiasi spazio di agibilità politica internazionale per un Ue a guida francese.

La seconda grande incognita la si può facilmente trarre dalla lettura del sesto rapporto Fractures françaises 2018, realizzato da Ipsos per Sciences Po e Fondation Jean-Jaurès. Si può parlare di un nuovo ritorno della Francia del pessimismo e del declinismo? No, questo significherebbe stravolgere i risultati. E’ però evidente la perdita di slancio che l’elezione di Macron aveva impresso al sistema nella primavera/estate del 2017. I bersagli polemici verso i quali rivolgersi restano i partiti politici (e in generale i corpi intermedi) e l’Unione europea (solo il 36% dei francesi si dice soddisfatto di come funzioni). La fiducia nei confronti del presidente è crollata dal 44% al 34%. Oltre il 60% dei francesi considera troppo alto il numero di immigrati nel Paese e troppo esigui i loro sforzi di integrazione. E infine quattro francesi su dieci giudicano l’Islam incompatibile con i valori repubblicani.

Rischio isolamento e possibile ricomparsa del declinismo sono spettri che si profilano all’orizzonte, anticipati da un altro decisivo fattore: quello del tempo. Quanto tempo ha ancora Macron per poter riformare il Paese e riproporre il suo progetto di rifondazione dell’Ue? L’impressione è che il conto alla rovescia sia iniziato. A Versailles egli ha detto che sarà fondamentale “essere più forti per poter essere più giusti”. Cioè riformare e modernizzare per contare di più a livello globale. Ma ha anche aggiunto che lo scontro in atto è tra “progressisti” e “nazionalisti”. Al di là della scelta dei termini, il nodo è questo. E di conseguenza le elezioni europee del maggio 2019 saranno decisive. In definitiva saranno i prossimi nove mesi a dirci se il macronismo è davvero la ricetta per salvare la Francia e l’Europa da un declino da tempo avviato. O se il prossimo decennio sarà quello della chiusura e del protezionismo, prodromi per la quasi certa dissoluzione del processo di integrazione e la conseguente certificazione dell’irrilevanza del Vecchio Continente su scala globale. Al momento è Macron il solo (e forse ultimo) frangiflutti disponibile.