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L’etno-nazionalismo sotto osservazione dell’ONU

Miriam Rossi - 14.07.2018
Tendayi Achiume

Il recente report della Relatrice speciale dell’ONU su razzismo, xenofobia e intolleranza ad essi connessi, E. Tendayi Achiume, continua a far discutere. Presentato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite riunito a Ginevra dal 18 giugno al 6 luglio nella sua 38° sessione, la giurista esperta in migrazioni internazionali dell’Università della California ha ribadito che a milioni di persone è negato il diritto alla cittadinanza in nome di nozioni di purezza nazionale, etnica o razziale. Un affondo contro l’etno-nazionalismo già presentato all’Assemblea Generale a New York lo scorso 21 febbraio e che aveva suscitato polemiche già in quella sede. Nella relazione è descritta la condizione di milioni di apolidi in tutto il mondo, spesso membri di gruppi di minoranza, che è vittima di una discriminazione di lunga data che li considera “stranieri”, anche se residenti in un Paese da generazioni o addirittura da secoli. Al contempo si perpetuano leggi patriarcali che determinano una discriminazione di genere rendendo impossibile per le donne trasferire la propria cittadinanza ai figli o al coniuge di origine straniera: un’altra strategia per preservare la “purezza” nazionale, etnica e razziale, e che in alcuni casi determina la perdita di nazionalità per le stesse donne che scelgono di sposare uno straniero e non possono neanche riacquistare la cittadinanza di origine nel caso in cui il matrimonio finisca. Su queste eventualità era già intervenuta l’ONU nel 1957 con una Convenzione specifica sulle pari garanzie alle donne del diritto di acquisire, cambiare o conservare la propria nazionalità, ratificata però da solo 70 su 193 stati membri dell’Organizzazione internazionale.

Il pregiudizio radicato nell’etno-nazionalismo è alla base della discriminazione razziale su cui a sua volta si fonda parte della legislazione sulla cittadinanza e sull’immigrazione. Se in passato le potenze coloniali europee hanno usato l’ideologia per escludere le popolazioni locali all’interno delle colonie dall’ottenere la cittadinanza, nel XIX e XX secolo gli ebrei e i rom sono stati presi di mira per gli stessi motivi. Oggi sono invece i migranti a essere il bersaglio dell’odio politico e dell’intolleranza, spesso col pretesto (o meglio, col mito) della purezza etnica e della conservazione religiosa, culturale o linguistica. “Gli Stati che hanno a lungo celebrato l’immigrazione come elemento centrale della propria identità nazionale hanno preso provvedimenti per denigrare e minare l’immigrazione, con un effetto sproporzionato su alcuni gruppi razziali, religiosi e nazionali” ha dichiarato la professoressa Achiume. È il caso degli Stati Uniti, ad esempio, Paese che poggia le proprie radici sull’immigrazione ma che in determinati periodi storici, quale quello odierno, ha scelto di porre dei forti limiti all’accesso su discutibili basi razziali.

Incalza inoltre la Rapporteur: “L’etno-nazionalismo islamofobo o antisemita mina i diritti dei musulmani e degli ebrei indipendentemente dallo status di cittadinanza e il caso dei musulmani Rohingya ne offre un esempio agghiacciante”. Si tratta di una minoranza per lo più musulmana che vive da secoli in Myanmar, a prevalenza buddhista, e che dal 1982 è di fatto apolide in base a una legge sulla nazionalità che discrimina in base all’etnia. Ondate di violenza e discriminazione feroce operate dall’esercito birmano hanno spinto migliaia di Rohingya al di là del confine, nel vicino Bangladesh: a oggi sono circa 900mila, presi in carico dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati e che sopravvivono grazie alle risorse messe a disposizione dal Paese di accoglienza e dalle organizzazioni umanitarie, che tuttavia sono in grado a malapena di far fronte all’assistenza del quotidiano. Anzi, con l’avvio della stagione dei monsoni sono circa 30mile i profughi in pericolo. Mentre nei campi profughi si tentano di salvare gli alloggi di fortuna e le infrastrutture messe a disposizione, sul piano diplomatico il dialogo con il governo di Myanmar mette in luce i suoi limiti: l’accordo firmato il 6 giugno scorso tra Alto Commissariato ONU per i Rifugiati e Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) da un lato e Stato birmano dall’altro, per il rientro dei Rohingya fuggiti dal Paese, non prende in considerazione la concessione della cittadinanza agli stessi. Solo quest’atto consentirebbe ai Rohingya di non essere cittadini di serie B, o addirittura invisibili, e di ottenere quei diritti sinora negati. Il piano del mantenimento di una certa purezza etnico-nazionale è dunque probabilmente ancora perseguito dal governo di Myanmar, dopo aver operato in tal senso nel più brutale dei modi: stupri di massa nell’agosto scorso che proprio all’avvio di quest’estate hanno determinato la nascita di centinaia di bambini frutto delle violenze commesse dai soldati birmani. L’obiettivo resta chiaro: la rimozione dei Rohingya come gruppo etnico.