Mente Politica http://www.mentepolitica.it it-IT Sat, 16 Mar 2024 00:01:00 +0100 Sat, 16 Mar 2024 00:01:00 +0100 60 Mente Politica http://www.mentepolitica.it/img/logo.jpg http://www.mentepolitica.it 329 80 <![CDATA[Bandiera bianca e bandiera rossa]]> Quando un Papa si esprime le sue parole hanno un peso specifico incomparabile. Per i cattolici aderire al suo pensiero è un atto di adesione spontanea. Anche se diventa obbedienza dovuta quando parla ex cathedra su materie di fede, in quanto interprete della parola di Dio. Mentre un giudizio politico dato dal Papa è pur sempre criticabile senza venire meno al rispetto dovuto al suo ufficio e questo mitiga un eventuale disallineamento rispetto alla sua visione delle cose.

Per i laici o per chi professa altre religioni conta la Sua statura morale, il suo essere il più autorevole e ascoltato riferimento ideale a livello planetario. Dialogando con il giornalista della Radio Televisione Svizzera – RSI, Lorenzo Buccella, Papa Francesco si è soffermato sulle guerre che tormentano l’umanità: non le ha mai dimenticate, ha sempre pregato per tutti coloro che ne sono stati coinvolti, dolorosamente, ha lanciato incessanti appelli per la pace, inascoltato. L’indifferenza, il relativismo etico, la mistificazione dei fatti sono una costante del nostro tempo che si accompagnano all’uso della violenza in tutte le sue orribili rappresentazioni fisiche e simboliche. E’ un dato di fatto con cui dobbiamo misurarci. Tuttavia in questa occasione alcune espressioni usate dal Santo Padre hanno provocato code polemiche e risentimenti, persino incredulità.

Francesco ci ha abituato ad un linguaggio comprensibile da tutti e vicino ai problemi di chi soffre, dei deboli, degli emarginati, dei perseguitati a ragione della loro diversità: per questo parlare di “resa” del popolo ucraino, di “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare” pur di arrivare alla pace a tutti i costi ha suscitato sconcerto e disorientamento.

Da due anni la Russia ha invaso l’Ucraina con i suoi carrarmati e il suo esercito, ha lanciato bombe e missili uccidendo civili inermi, ha raso al suolo paesi e villaggi, privato le famiglie della loro casa, riducendo in povertà una nazione, procurando fame e miseria, morte e dolore, violenza contro le donne, i bambini e gi anziani – ciò che riporta la storia ai tempi dell’eccidio dell’Holodomor – chi ha visitato quei luoghi di devastazione e massacro barbaro e criminale ha raccolto testimonianze fotografiche e verbali che non lasciano scampo ad alcun dubbio. La parte più onesta dell’informazione ha restituito il vero, oltre i filoputinismi prezzolati, i negazionismi di maniera, le invenzioni di messinscene create ad arte per convincere il mondo che si trattava di una finzione, di un “cast cinematografico”.

I documenti raccolti parlano chiaro, l’aggressione è stata monodirezionale, feroce e ingiustificabile: che Putin l’abbia fatto perché “l’Ucraina non è mai esistita, è solo parte ribelle della Russia” come egli stesso ha insegnato nelle scuole, perché lo “scudo ucraino” è il territorio più ricco al mondo di giacimenti di minerali preziosi, come il litio”, perché “quella gente doveva essere denazificata” o perché “voleva togliere il potere di Zelensky a Kyiv e mettere al suo posto della gente per bene” …. come aveva detto Berlusconi ai suoi parlamentari …. non esiste giustificazione alcuna all’eccidio, all’olocausto di un popolo, al martirio della sua gente. L’ombra di Navalny si stende sulle prossime elezioni farsa: chi si oppone al regime ha il destino segnato. Per questo ci si aspettava tutti, cristiani, cattolici, ortodossi, laici, credenti e miscredenti, eterosessuali ed omosessuali, uomini e donne di ogni parte del mondo che insieme a questo invito alla negoziazione avviata dall’Ucraina che passa però sotto le umilianti forche caudine della resa, ci fosse un netto, chiaro, risoluto, autorevole richiamo al Cremlino da parte del Vaticano a ritirare tutti gli uomini dell’esercito russo invasore dal territorio ucraino.

La guerra si fa in due ha detto Papa Francesco e ne prendiamo atto come di una evidenza incontrovertibile: ma anche la pace si fa in due. Mi pare di capire che Putin non abbia alcuna intenzione di recedere, tanto che usa spesso la minaccia del nucleare. Ricordiamo cosa era accaduto agli ebrei ai tempi del nazismo e dei lager. Mi vengono in mente le parole del generale (e poi Presidente) Dwight David Eisenhower): “Registrate tutto adesso- prendete i filmati, ascoltate i testimoni - perché da qualche parte lungo il cammino della Storia qualche bastardo si alzerà e dirà che questo non è mai accaduto”. Se dunque si deve issare e sventolare la bandiera bianca questo va fatto da ambo le parti e quella rossa riprenda il suo posto a Mosca. La pace non è resa e neanche sottomissione.

Se l’avesse capito Caino, Abele non sarebbe stato soppresso.

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Sat, 16 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Un paese spaccato in due]]> Per quanto sia sempre opportuno invitare a non trasformare ogni elezione amministrativa in un giudizio apocalittico, non c’è dubbio che da esse si possano e si debbano trarre insegnamenti. Ci permettiamo di dire che il primo e più importante è che siamo un paese più o meno spaccato in due: ma non fra destra-centro e i suoi avversari che non si sa più come chiamare, ma fra una metà che partecipa al voto ed una che lo diserta. Anche in Abruzzo ha votato il 52,2% degli aventi diritto, nonostante una campagna che aveva spinto alla mobilitazione e che era stata drammatizzata non solo a livello locale, ma anche a livello nazionale. Non è banale: di solito quando gli elettori si sentono investiti di un ruolo di rappresentanza per il futuro del sistema nel suo complesso si sentono più motivati a partecipare, anche come orgoglio per la considerazione di cui godono fuori dei loro confini.

Questo non è accaduto e non è bene far finta di nulla. Crolla sempre più la leggenda che gli astenuti siano truppe massicce di una delle parti in causa, moltitudini che si possono ri-mobilitare vincendo la loro presunta delusione per quei partiti. È piuttosto da considerare che, a parte i vari limiti oggettivi alla partecipazione elettorale (residenza fuori regione per lavoro, difficoltà di movimento, anziani, ecc.), la spiegazione più probabile è che per una cospicua quota dei nostri concittadini i politici sono tutti eguali e poco importa chi vince: comunque quel poco o tanto che funziona continuerà a farlo con chiunque vada al potere e quel che non funziona continuerà comunque a non funzionare.

L’esempio classico a questo proposito è il sistema sanitario. In genere la sinistra contesta alla destra al governo i tempi eterni di attesa per esami e interventi, medicina di base che non funziona, ecc., peccato che quelle disfunzioni esistano più o meno in tutte le regioni: per la semplice ragione che in gran parte dipendono da notevole carenza di medici e infermieri, scarsità di strutture idonee, difficoltà a gestirle, e via elencando. Problemi strutturali che non dipendono se non in minima parte dal colore delle amministrazioni, quanto piuttosto da un accumulo storico di malfunzionamenti.

Se dunque si ha riguardo al problema del restringersi della platea dei partecipanti alla contesa elettorale, ne discende che questa è formata grosso modo da due componenti: i fedeli ad una collocazione più o meno ideologica, e gli interessati ad una gestione dell’amministrazione senza troppe avventure ideologiche. Ora la maggior parte dei gruppi dirigenti dei partiti è convinta che il tema sia serrare le fila della prima componente e galvanizzarle al massimo. Di qui la radicalizzazione movimentista che tanto affascina le mosche cocchiere di molti talk show.

I numeri dell’Abruzzo sembrano smentire queste impostazioni. A destra la Lega, che rappresenta quella componente barricadiera, è passata dal 27,5% raccolto alle regionali del 2019 ad un magro 7,5%, vendendosi ridurre il già risicato risultato delle politiche del 2022 (8,3%). A sinistra i Cinque Stelle sono crollati ad un miserando 7,1% dal 19,7 delle precedenti regionali e dal 18,4 delle politiche. In un cantuccio è rimasta anche l’Alleanza Verdi-Sinistre con un modesto 3,5%. Al contrario Forza Italia, che rappresenta l’anima moderata del destra-centro, ha raccolto un notevole 13,4% nonostante il suo muoversi senza Berlusconi, ciò che era stato spesso considerato come il preludio alla sua marginalizzazione. È andata benino anche per Azione di Calenda con un 4% che non è poco per un piccolo partito che ha più immagine nazionale, che radicamenti locali.

Il PD ha avuto un buon risultato raggiungendo il 20,2% e dunque superando il risultato delle politiche del 2022 (16,6%). Qui, a nostro modesto avviso, paga la natura composita del partito che ad una leadership nazionale per lo più movimentista affianca un tradizionale radicamento nei territori con classi dirigenti legate alla politica più professionale (che, pur con molti limiti, risulta ancora una garanzia per una componente significativa dell’elettorato).

La conclusione che si dovrebbe trarre da questa analisi è che la situazione non è affatto rappresentabile con le esaltazioni sul cambio del vento che abbiamo visto abbondare a sinistra dopo la vittoria sarda: quando si vince con uno scarto di 1600 voti e grazie ad errori marchiani degli avversari nella scelta dei candidati non c’è stato nessun vento nuovo, al massimo un refolo che ha portato un colpo di fortuna. Il paese resta spaccato in due fra coinvolti nella vita politica ed indifferenti ad essa, sicché la competizione deve svolgersi nel primo campo. Ciò significa che si lavora per spostare i voti al centro del campo, cioè quelli di coloro che chiedono non radicalismi per compiacere alle rispettive curve, ma azioni di governo per gestire una fase difficile della nostra vita nazionale.

Per vedere se i partiti arriveranno alle conclusioni che a noi paiono inevitabili, dovremmo però attendere ulteriori risultati: sia nelle elezioni regionali prossime (Basilicata, Umbria, Piemonte) sia soprattutto nelle elezioni europee dove ogni partito si presenta per sé stesso. Se in questi contesti i due partiti populisti più consistenti, la Lega salviniana e i Cinque Stelle di Conte, vedranno continuare il pesante ridimensionamento, se FI e Azione avranno buoni piazzamenti, si aprirà la possibilità per Meloni di far virare FdI verso un conservatorismo moderno e per il PD di mettersi alle spalle la stagione del movimentismo prigioniero dei miti del vecchio e nuovo radicalismo.

E allora inizierebbe davvero una nuova stagione politica.

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Wed, 13 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Verso le europee tra molte insidie e poche certezze]]> Il 2024 sarà probabilmente un anno decisivo nel processo di configurazione di un nuovo ordine mondiale. Il primo appuntamento – tra due settimane – sancirà per la quinta volta la leadership incontrastata di Vladimir Putin: l’ultimo ostacolo interno che poteva essere rappresentato dall’oppositore Alexei Navalny è stato rimosso secondo i metodi spicci di Putin. La vedova Navalnaya, parlando al Parlamento europeo ha chiaramente ribadito il profilo di autarchia assoluta del Cremlino e la caratterizzazione definita “criminale e mafiosa” dello Zar. Siamo di fronte – dopo le tragedie delle dittature del XX secolo – ad un regime altrettanto autoritario e privo di remore morali: la devastazione dell’Ucraina iniziata due anni fa sembra arrivata ad un punto di non ritorno. Nel discorso annuale sullo stato della nazione – durato oltre due ore – Putin ha adombrato ancora una volta il ricorso all’uso di armi nucleari qualora l’Occidente e la Nato – come ipotizzato da Macron – inviassero truppe ed armi pesanti nel territorio Ucraino. Un discorso duro e sferzante che va letto anche come programma legato alla campagna elettorale e accreditamento personale: una competizione peraltro senza rivali, ricordiamo la fine di Evgenij Prigožin, quella spietata di Navalny che è l’ultimo anello di una lunga catena di eliminazione fisica degli oppositori. Si aggiunge ora l’arresto di Serghei Sokolov, direttore di Novaya Gazeta, accusato di «discredito» delle forze armate. Sokolov era stato nominato ufficialmente direttore di Novaya Gazeta nel settembre del 2023, dopo le dimissioni del Premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, che era stato definito "agente straniero" dalle autorità russe.  Di questa situazione che non lascia spazio a qualsivoglia congettura di cambiamento si è resa conto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che a Strasburgo, rivolgendosi ai Paesi dell’U.E. ha detto che una guerra non è imminente ma non è neppure impossibile, invitando l’Europa ad armarsi per tempo. La minaccia di un coinvolgimento dell’Europa nella fase di allargamento del conflitto ucraino va considerata, viste le mire espansionistiche e le provocazioni del Cremlino a cui si aggiunge una situazione mondiale sempre più complicata, tenendo conto della situazione in Medio Oriente che vede aggiungersi e schierarsi nuovi soggetti, mentre la Cina, ma la stessa Corea, l’India, la Nigeria non resterebbero estranee al disegno di riposizionamento degli Stati nel quadro di un nuovo ordine mondiale. Sono molto forti, preoccupanti e dense di incognite le notizie che arrivano dagli USA in vista delle presidenziali di novembre. Due leader anziani, a cui i rispettivi partiti non hanno saputo trovare per tempo un successore giovane e preparato, si contendono una primazia da cui non saranno esclusi i nuovi equilibri internazionali oltre agli indirizzi politici interni decisamente divergenti. Preoccupa non poco il disimpegno adombrato da Trump nel cfr. dell’Europa e della NATO, mentre appare critica l’ipotesi che un malfermo Biden possa reggere gli eventi in caso di successo dei democratici. Il mito della “supervisione” americana sugli affari del mondo, in stile Kissinger, sembra imboccare non la via del tramonto ma certamente un ridimensionamento, in parte per scelta voluta, in parte per l’emergenza di nuove potenze in grado di competere o -comunque- di procurare non pochi fastidi. Tutte queste problematiche non sono state affrontate finora con la dovuta attenzione in questa lunga campagna elettorale che vede ai nastri di partenza i partiti italiani in vista dell’appuntamento del voto del 9 giugno. Il dibattito politico finora non ha espresso una attenta conoscenza e una progettualità chiara, restando impelagato nelle solite diatribe di primazie ed alleanze, di sondaggi percentuali, riposizionamenti tattici senza strategie convincenti. Si ripete il giochino delle candidature, prima vera preoccupazione di tutti e legato ad esso la personalizzazione che affigge come un male inguaribile i singoli partiti, un vulnus che si ripeterà: anche perché di solito in Europa non mandiamo i migliori, attingendo nomi e accreditamenti dalla società civile, al contrario di altri Paesi che hanno compreso come il futuro dell’Europa e la sua credibilità internazionale ma la stessa sicurezza territoriale, lo sviluppo economico e la competitività necessitano di rappresentanti competenti e di alto profilo tecnico e morale. Già ora ma ancor più in riflesso e conseguenza dell’interazione con i fattori qui sopra sommariamente descritti, l’Europa potrebbe trovarsi impreparata al confronto e alla competizione internazionale. Se la guerra è alle porte – come molti temono – per l’infiltrazione del Cremlino nelle questioni vitali del nostro continente come la sicurezza, l’informazione, la digitalizzazione, l’intelligenza artificiale, le tecnologie, la sostenibilità ambientale, l’immigrazione e tutti gli aspetti legati alla dimensione economica e sociale della vita dei suoi abitanti, occorre attrezzarsi per tempo ma ancor prima avere consapevolezza della posta in gioco.

Oltre gli aspetti citati e- come si dice- a monte di essi ci stanno questioni basilari e dirimenti come la libertà, l’indipendenza, la democrazia, la tutela della pace: tutti valori primari che i padri costituenti nonché architetti del disegno europeo avevano bene in mente ma che ora sembrano passare in secondo piano rispetto ai soliti giochi di potere e ai personalismi che nulla rappresentano se non la propria inutile ed effimera autoreferenzialità.

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Sat, 09 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Ballando sull’orlo del vulcano?]]> Non è certo una osservazione originale ricordare che in Italia si fa della polemica spicciola e miope mentre il mondo affronta una tensione quale da tempo non si vedeva: lo vanno ripetendo tutti gli osservatori più qualificati. Non sembra però che questo faccia desistere i nostri politici, ma anche una parte degli opinionisti che muovono i sentimenti delle minoranze ideologizzate dal rincorrere i soliti ritornelli che ripropongono più o meno le liturgie dei passati scontri fra destra e sinistra.

La gravità della crisi in corso ha molti aspetti e non si limita solo al divampare di due guerre pur terribili come quelle che si svolgono in Ucraina e in Palestina. Di guerre che una volta venivano definite “regionali” ne abbiamo viste molte (e altre sono in corso pur nel disinteresse del mondo), ma in quei due casi c’è qualcosa di molto diverso. Non solo la Russia di Putin ha violato la regola del rispetto dei confini internazionali avviando l’invasione di uno stato confinante e lavorando alacremente per infliggergli una enorme mole di distruzioni con uccisioni di civili inermi (di passaggio: ma per questo abbiamo visto molto poche manifestazioni …). Si vede con estrema chiarezza che il nuovo zar moscovita cerca una vittoria imperiale e costantemente minaccia l’uso dell’arma atomica, il che lascia chiaramente intendere che il suo obiettivo non è la “liberazione” di qualche enclave filorussa, ma l’annientamento dell’Ucraina come premessa al ristabilimento almeno parziale del vecchio impero sovietico.

Anche la guerra fra Israele e Hamas è diversa dalle numerose guerre arabo-palestinesi che si sono avute in passato. Non solo è evidente ormai che Hamas ha pianificato le stragi del 7 ottobre per spingere il governo di Israele, in buona parte succube dell’estremismo dei sionisti religiosi, ad una reazione estrema, cioè a puntare all’annientamento del gruppo politico-terroristico. Ciò significa non solo dover ricorrere ad un uso spropositato della forza di reazione, ma scendere sul terreno del contro-terrorismo con una guerra totale incapace di distinguere fra civili e combattenti (cosa peraltro già di suo difficile quando non ci sono in campo forze regolari, ma gruppi apparentemente informali che vivono e agiscono mescolati alla normale popolazione).

Questa impostazione ha creato una situazione in cui nessuno dei due contendenti riesce a trovare una soluzione, perché tutto è visto dagli uni come cedimento e dunque vittoria degli altri, cioè come una premessa al proprio annientamento. Per questo le parti “esterne” allo scontro non riescono a condizionare ed a riportare alla ragione i vertici dei due campi.

Ciò significa che siamo di fronte ad un contesto che va verso il precipizio, perché né si riuscirà a convincere Putin a desistere dai suoi sogni imperiali, né si riuscirà a costringere sia Hamas che Israele a venire ad una sistemazione del conflitto. La diplomazia è impotente: chi pensa che da lì possa venire una soluzione ha una cieca fiducia nei miracoli.

Nel contesto dunque di tensioni che sono destinate a protrarsi, significa che le cose andranno a deteriorarsi ulteriormente, anche perché ci sono molti attori che godono di questa prospettiva: l’Iran è chiaramente uno di questi (e lo spingono anche le sue difficoltà interne divenute evidenti con il flop delle recenti elezioni farsa), ma pure la Cina è interessata a questa instabilità che probabilmente pensa le darebbe spazio per i suoi sogni di espansionismo asiatico, ma che comunque deve affrontare una flessione nella sua crescita economica con qualche difficoltà che ciò comporta.

L’Europa avrebbe tutto l’interesse a, anzi il dovere di, prendere atto di un contesto così difficile, mentre si va verso un confronto elettorale alle presidenziali americane che non ci lascia certo tranquilli. L’Italia non è una componente marginale di questo quadro e sarebbe bene trovasse modo di mostrare che ne è consapevole. Cosa difficile se siamo divisi fra i favorevoli all’Ucraina e quelli che tutto sommato sono disposti a dar credito a Putin, se ci dividiamo fra chi sostiene Israele e chi i palestinesi e di conseguenza Hamas, se ci sono forti tendenze a fuggire in un pacifismo utopistico che oggettivamente rafforza solo la radicalizzazione delle guerre, se non riusciamo a produrre una visione abbastanza comune circa le modalità di rimettere ordine nel nostro sistema pubblico e nella nostra economia.

Piantare qualche bandierina in questa o in quella regione, magari prevalendo per un migliaio di voti, in questo o in quel comune non fa della nostra classe politica un protagonista nella elaborazione e ricerca di strategie per rispondere al rischio di implosione delle relazioni internazionali. I nostri partner così come i nostri avversari sanno bene in che acque stiamo navigando. Certo, come è normale, tengono i migliori rapporti possibili col vertice del governo in carica, che poi fa di tutto per farsi accettare nel club: lo ha fatto Conte a suo tempo, adesso lo fa Meloni, il primo in modo più dilettantesco perché ai suoi tempi il contesto era meno chiaro, la seconda mostrando più senso delle opportunità, ma senza ancora aver dato prova del colpo d’ala necessario.

Tuttavia il punto essenziale è arrivare all’elaborazione di una linea di azione che almeno in termini generali sia condivisa a livello dell’opinione pubblica nazionale e sia in grado di marginalizzare gli avventurieri politici e mediatici che impazzano in questi tempi così caotici. Ci pare che siamo ancora lontani anche solo dall’avvio deciso del processo. Si dice che si chiarirà tutto con il risultato delle elezioni europee, ma ci permettiamo di dubitarne: le lotte intestine tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione non le vediamo certo né in attenuazione, né in crisi.

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Wed, 06 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il voto in Abruzzo]]> Il 10 marzo si voterà per eleggere il presidente della giunta regionale abruzzese e per il rinnovo del Consiglio. Stavolta ci saranno due candidati, uno di maggioranza (l'uscente Marco Marsilio, di Fratelli d'Italia) e uno di opposizione (il civico Luciano D'Amico, cattedratico sostenuto da centrosinistra ampio e M5s). Come la Sardegna, anche l'Abruzzo è una regione nella quale nessuno schieramento vince per due volte di seguito: un precedente che potrebbe incoraggiare il centrosinistra, sebbene la partita sia del tutto aperta. La recente storia elettorale della regione lo conferma. Alle regionali del 2019 la destra ottenne il 49,2% contro il 49% di centrosinistra e M5s (allora divisi); alle europee dello stesso anno, caratterizzate dall'exploit della Lega, le destre salirono al 52,4% contro il 46,3% dell'attuale schieramento di supporto a D'Amico; il divario di sei punti si richiuse però alle politiche 2022, quando centrosinistra, terzo polo e M5s conseguirono il 48,6% dei voti di lista, contro il 47,7% della destra a trazione meloniana. La struttura della competizione, nel campo progressista, sembra ben definita. Il M5s oscilla fra il 19,7% delle regionali '19, il 22,4% delle europee '19 e il 18,4% delle politiche '22 (chissà se, come in Sardegna, anche in Abruzzo i pentastellati perderanno parecchi voti di lista, come d'uso alle amministrative); il Pd, comprese le liste del presidente, oscilla fra il 25,6% delle scorse regionali, il 17% delle europee e il 17,3% delle politiche (nel complesso l'area di pd ed ex pd del terzo polo si è attestata al 25,8%, cioè al livello delle regionali '19); la sinistra è sempre stata fra il 3 e il 4,5% dei voti. A destra, invece, si è passati da un dominio leghista (regionali '19: Lega 27,5%, FI 9%, FdI 6,5%; europee '19: Lega 35,3%, FI 9,4%, FdI 7%) al successo della Meloni (politiche '22: FdI 27,7%, FI 11,1%, Lega 8,3%). In sintesi, mentre il progresso di Fratelli d'Italia (in modo più marcato) e di Forza Italia è stato costante e continuo, il Carroccio ha conosciuto un anno di successi per poi precipitare a un quarto dei voti delle europee. Conta, in questa partita che si gioca teoricamente alla pari (ma nella quale si mescoleranno fattori locali e nazionali) l'astensione, che alle scorse regionali fu pari al 46,9%, per salire al 47,4% alle europee e scendere al 36% alle politiche. Va ricordato, infine, che il divario "netto" fra i voti di lista e quelli ai candidati presidenti fu, nel 2019, di 25.126 unità. Ciò significa che quel tesoretto sarà appannaggio in gran parte di chi, fra i due candidati presidenti, risulterà più inclusivo e attrattivo per l'elettorato. Infine - ed è sicuramente un bene - chi vincerà avrà sicuramente almeno il 50% più uno dei voti validi (i candidati sono due); sarebbe opportuno, infatti, a nostro giudizio, che, come avviene per i sindaci, anche i presidenti di regione fossero eletti al ballottaggio, qualora non raggiungessero il 50% più uno dei consensi al primo turno (questo vale anche per l'eventuale elezione-designazione popolare del presidente del Consiglio, che per ora è solo un progetto).

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Sat, 02 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Influencer: illusioni, chiacchiere e distintivi]]> “Io penso che la cultura contemporanea dovrebbe recuperare la cultura greca nella accezione del limite. Dovremmo essere davvero più limitati. Dovremmo davvero non guardare verso la meta nelle forme del progresso che poi non è progresso come semplice sviluppo. Non dovremmo esagerare nelle nostre manifestazioni dovremmo mantenere la misura”. Uso queste parole di Umberto Galimberti che mi ha fatto dono di un’intervista indimenticabile, per introdurre il tema legato alla figura dell’influencer, come mi è stato chiesto. Perché ciò che esprime Galimberti – il suo postulare la riscoperta del limite e il valore della misura- è quanto di più sideralmente lontano da ciò a cui l’influencer si ispira.  Stiamo passando il lento transito dal relativismo etico al negazionismo e – insieme a questo passaggio- affianchiamo la dematerializzazione della vita, il distacco dalla condizione di natura, la sostenibilità generazionale e di contesto: tutto questo può essere riassunto nella sovrapposizione del virtuale rispetto al reale.

L’esistenza diventa l’alcova delle mistificazioni, un contenitore immaginifico di illusioni dove la ricerca della felicità crea spazi impensati per questa pedagogia sociale predicata dagli influencer, una professione che nasce dal nulla e il nulla produce: solo affabulazioni, promesse, istruzioni per l’uso, miraggi, modelli personologici costruiti artificialmente, dietro cui si celano interessi commerciali enormi perché la sponsorizzazione di tutto ciò che serve per cambiare parte da una insoddisfazione di fondo dalla quale vogliamo affrancarci, costi quel che costi. Chi sono questi apostoli del nuovo? Io non credo pregiudizialmente che siano equivoche figure di demagoghi, probabilmente la maggior parte di loro si crede investita di una straordinaria capacità di convincere, di consigliare, di proporre stili di vita e modelli estetici, ed è proprio questa incredibile faciloneria, la convinzione autoreferenziale di essere depositari di verità da inculcare facendo leva sulla potenza della parola che li rende capaci di penetrare nei comportamenti sociali e di orientarli.

Il target dei consumatori di queste alchimie nuove per una vita felice, per mirare alla perfezione, per superare i turbamenti interiori è costituito da giovani adolescenti: chi ha vissuto a lungo ha imparato a distinguere il vero dal falso, ciò che è realizzabile da ciò che resta una vana illusione.

Anche se la sfida del paradosso, il popolo dei ribelli, dai no vax ai terrapiattisti, comprende anche persone che nonostante le evidenze si rifiutano di imparare dalla vita e dalle esperienze vissute.

In prevalenza i giovani costituiscono un target commerciale appetibile: resto spesso allibito da quanti seguano e cerchino di condividere i modelli esistenziali promossi dagli influencer, si parla di migliaia, milioni di follower che adorano i loro maestri di vita ed aspirano alla felicità come traguardo raggiungibile.  Scuola e famiglia spesso sono scalzate – con i loro modelli educativi tradizionali – dal compito di elargire insegnamenti basati sui valori tramandati.

A cominciare dall’uso del pensiero critico che dovrebbe essere la più importante finalità di una sana formazione, un discrimine tra ciò che è ragionevole e sensato e ciò che diventa terribilmente pericoloso e fuorviante.

Stupisce la crescita di questo nuovo mestiere, si parla di ordine professionale, di patentini di expertise, di legittimazioni formali. Qui si rivela tutta da debolezza e il vuoto di valori della società degli adulti, delle istituzioni, della stessa politica. Perché l’influencer può portare consensi e poi voti, perché convince solo attraverso la propria immagine e le parole che creano una sorta di magia ammaliante.

Giocano sul connubio con le tecnologie e si diffondono attraverso i social, senza i limiti, senza la misura di ciò che è vero e utile. Questo mix di parole che mirano a convincere, senza alcun controllo etico che tuteli le coscienze, può diventare un motivo di disorientamento dove si perde la propria identità, fino ad estraniarsi dalla realtà. A molti resta tra le mani il distintivo ricordo di una pia illusione.

Da sempre l’esplorazione e l’attesa del futuro hanno costituito una fascinazione alla quale è stato difficile sottrarsi. Ma i grandi interpreti dello scandaglio interiore hanno saputo svuotare le aspettative esistenziali dalle vane illusioni. L’attesa è una chimera che non sempre fornisce risposte.

Oggi tutto può consumarsi in un attimo, la pienezza esistenziale consiste nel circondarsi di beni e fattezze esteriori. La vita? Un paese dei balocchi dove – come mi ha detto Luigi Zoja – tutti sono malati della sindrome di Lucignolo. Gli influencer lo sanno ed alimentano la mistificazione del cambiamento, salvo che si traduca in cocenti delusioni per i follower e in lauti compensi per sé. Per questo mi piace concludere rispolverando dalle reminiscenze letterarie alcune grandi lezioni su cui dovremmo tutti spesso riflettere. 

Il venditore di almanacchi descritto da Giacomo Leopardi nelle sue Operette morali si arrendeva alla consapevolezza che la rappresentazione del futuro si risolvesse in una vana speranza, peraltro ostentata. In ‘Aspettando Godot’ e in Giorni felici” di Samuel Beckett emerge l’estenuante attesa di qualcosa o qualcuno che resta indefinito, oltre un nichilismo di fondo nei confronti dell’esistenza umana, il non-senso della parola e l’assenza della comunicazione, poiché rimane sottotraccia e sbiadito il senso allegorico, semantico e simbolico di un dialogo basato su argomentazioni prive di un significato esplicito: lo stesso Beckett si interroga – richiesto di una spiegazione – sull’esistenza di Godot e sull’essenza di una felicità inespressa in una infinita allegoria degli impliciti.

Nel Deserto dei Tartari – mi piace chiudere con Dino Buzzati - la metafora dell’attesa assume le sembianze struggenti di un dovere da compiere, una missione da portare a termine per dare un senso alla vita.

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Sat, 02 Mar 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[La crisi della politica politicante]]> Analizzare il risultato elettorale della Sardegna si presta, come al solito, ad una grande varietà di letture possibili. Certo alla politica politicante interessa, a seconda delle posizioni, celebrare la vittoria, non importa con quali margini, o minimizzare la sconfitta allontanando da sé le responsabilità per il risultato. Noi non facciamo parte di quella confraternita e dunque cerchiamo di leggere i dati con un certo distacco.

La prima cosa da notare è che una metà circa degli elettori non si è recata alle urne, neppure trattandosi del voto per il governo di una regione a statuto speciale (dunque con molto da distribuire a da gestire), e neppure se si è fatto di tutto per trasformare quelle elezioni in un grande confronto para ideologico. Alla politica politicante questo interessa poco (tanto l’astensionismo non viene contato), ma per chi ha a cuore il destino della partecipazione democratica è un dato preoccupante.

Detto questo, la seconda cosa da notare è che i partiti devono stare molto attenti nello scegliere i candidati. Giorgia Meloni ha clamorosamente sbagliato nel puntare sul sindaco di Cagliari Paolo Truzzu che è andato male nella stessa città che amministrava (ed era cosa nota, bastava leggere le classifiche sui sindaci del Sole-24 Ore). Va bene che il candidato che cercava di imporre Salvini era altrettanto debole, ma rimane il fatto che la premier ha una volta di più mostrato come sia sbagliato puntare sui propri “fedeli” anziché allargarsi a considerare persone di qualità. Siccome è un errore che tende a fare spesso, converrebbe che ci ragionasse. È vero che si tratta di una tendenza presente in tutti i partiti, ma quando sei arrivata al governo del Paese col vento favorevole e godi di un buon piazzamento internazionale non te lo puoi proprio permettere.

Il risultato sardo aprirà questioni nella coalizione di destra-centro, perché a livello regionale non c’è quel distacco notevole di FdI da FI e Lega che si registra nei sondaggi nazionali e dunque la leadership di Meloni e del suo cerchio magico deve trovare qualche sostegno maggiore dell’appellarsi alla supremazia di quei numeri peraltro al momento virtuali. Si voterà in molte altre regioni, sia quest’anno (con l’aggiunta di oltre tremila comuni), sia l’anno prossimo: non si governa bene a Roma se si perde in continuazione in periferia, specie in un sistema regionalista come sta diventando quello italiano. E naturalmente vittorie ottenute sul filo di lana, non solo si presteranno a ricorsi in varie sedi (già preannunciati), ma saranno ritenute illegittime dai perdenti (lo fanno anche quando ci sono risultati più netti), ma poco significative dall’opinione pubblica in generale per imporre un governo legittimato oltre la pura legalità dei risultati.

La terza cosa da notare è la situazione tutt’altro che tranquilla nel cosiddetto “campo largo”. La vittoria di misura della Cinque Stelle Alessandra Todde non è detto che sia l’inizio di un consolidamento di quel campo a livello nazionale. Innanzitutto perché è frutto di un accordo di vertice conseguito con una resa della segretaria del PD alla imposizione di una sua candidata da parte di Conte. Si dirà che non si poteva fare altrimenti, ma è quanto meno dubbio. A voler fare i conti solo coi numeri grezzi, quella scelta ha fatto perdere al PD un 8,7% di voti andati a Soru che non si sarebbe sganciato dal suo vecchio partito se ci fossero state le primarie di coalizione, mentre l’apporto di M5S alla coalizione è stato circa del 7,8%. Naturalmente i conti fatti in questa maniera funzionano fino ad un certo punto, perché non è detto che i voti ex grillini sarebbero rimasti tutti ad una coalizione a guida PD se non fosse stato accettato un loro candidato, così come nei voti per Soru ci sono state componenti che non avrebbero votato PD anche se lui fosse rimasto in quel campo. Però qualche pulce nell’orecchio questi dati dovrebbero pure metterla agli strateghi che progettano sulla carta il cosiddetto campo largo a prescindere dai contesti locali.

Non si sa poi se Conte si accontenterà di aver conquistato la guida della Sardegna o se aumenterà i suoi appetiti sull’onda di quello che potrebbe far passare come un suo successo strategico. Il leader pentastellato ha un grosso vantaggio su Elly Schlein: lui è padrone del partito e non si fa problemi a farlo stare eventualmente in posizione esterna alla coalizione attuale, mentre la segretaria del PD deve fare i conti con un partito che contiene una non piccola componente di contrari all’appiattimento su M5S.

Il fatto più rilevante è però, a nostro giudizio, un altro: l’andamento delle elezioni sarde dimostra l’affermarsi di un trend che troviamo preoccupante. Da un lato si cerca disperatamente di rafforzare l’immagine della convenienza per il nostro sistema politico ad avere un bipolarismo in continua, aspra contrapposizione. La radicalizzazione dei messaggi, inevitabile se si punta su quadri che provengono dalle corride in politichese che si sono affermate con la teatralizzazione dei talk show, impone sempre più di privilegiare i pasdaran di partito, sia come candidati che come elettori. A livello di sistema però le coalizioni non sono affatto espressione di una forza coesa che si contrappone ad un’altra organizzata in maniera simile. Al contrario, per vederlo basta analizzare la lista dei risultati dei partiti che in Sardegna hanno sostenuto i due candidati contrapposti: ogni coalizione era composta più o meno di una decina di liste, alcune delle quali raccoglievano al meglio un 3% di consensi e molte anche molto meno. Questo significa frammentazione delle fedeltà, con conseguenti ricatti interni e rischio continuo di tradimenti e di passaggi di campo. Si tenga conto che nelle elezioni sarde entrambi i due partiti maggiori, cioè FdI e PD, sono poco sotto al 14%, non proprio una percentuale da “partito guida”.

Non ci vuol molto ad immaginare come un contesto che al tempo stesso è diviso in due campi che più o meno si equivalgono e frammentato in un alto numero di componenti, molte di esse semplici aggregazioni tipo fazione o tipo lobby corporativa, non possa dare all’Italia quella stabilità necessaria in tempi complicati quali quelli in cui viviamo. È la classica situazione che favorisce il tutti contro tutti senza che si vedano in campo leader capaci di promuovere quel convergere delle forze in un lavoro comune come sarebbe necessario per posizionarsi come paese in maniera adeguata in un quadro interno e internazionale sempre più inquieto.

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Wed, 28 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[L'autonomia scolastica come moltiplicatore di burocrazia]]> Girava un tempo tra gli insegnanti una battuta: tra il dipendere dal Provveditorato o dal Ministero quasi tutti sceglievano la seconda ipotesi per il semplice fatto che il Ministero si trovava fisicamente più lontano: meno fiato sul collo e maggiore autonomia didattica consentivano ai docenti di esprimere il meglio di sé, in classe, con i propri alunni. Retoricamente in quegli anni si parlava di “missione educativa”: sarà stata un’affermazione enfatica ma quella generazione di maestri e professori (ne avevo due in casa, mio padre e mia madre) contribuì all’alfabetizzazione del Paese e da quella scuola uscirono teste pensanti, apprendimenti solidi e competenze spendibili nella vita professionale. C’era da allora - c’è da sempre- un rapporto confliggente tra burocrazia e insegnamento, tra circolari e lavoro con i propri alunni. Di circolari ne arrivavano a iosa, c’era l’ordine e poi il contrordine: con buon senso Direttori Didattici e Presidi filtravano il necessario dal superfluo e ridondante. Ricordo che nel 1976 pubblicai su Scuola Italiana Moderna un articolo intitolato “Programmare è semplificare”: ricevetti una telefonata di complimenti dal Direttore della Rivista, che mi disse che avevo visto giusto e mi propose di entrare in redazione. Non lo feci e preferii cimentarmi nella strada che poi ho percorso e che mi ha consentito di immergermi nella “scuola militante” e poi nella giustizia minorile per quasi mezzo secolo. Ne sono passati 47 da quell’articolo e lo riscriverei testualmente perché nel frattempo si è accumulata una pletora di parole nuove, indicazioni, documenti, norme, codici e codicilli che hanno reso se mai più urgente, strada facendo e oggi, il compito, anzi il dovere della semplificazione nelle procedure programmatorie e organizzative del sistema scuola. Troppo si è frapposto tra insegnamento e apprendimento, nel frattempo sono cresciuti i corollari, le coordinate cartesiane, i diagrammi di flusso, i check up e i check in. Se prima dirigenti scolastici e docenti dovevano scervellarsi nell’interpretare le “grida” ministeriali e alla fin fine prevaleva una sorta di ‘buon senso applicativo’ per far funzionare gli apparati scolastici, ora a quella burocrazia che arriva dal centro – fatta di decreti, circolari, direttive, interpretazioni normative e indirizzi didattici, progetti nazionali che generano gruppi di lavoro ad ogni livello e fiumi di parole in larga parte inservibili- si è aggiunta la burocrazia generata dall’autonomia scolastica, le scuole assomigliano a strutture para-militari guidate da dirigenti che la politica ha voluto definire presidi sceriffi e capitani delle navi. E’ cambiato il clima (ora si dice climax) ed essendo rimasto nel giro raccolgo confessioni di ex colleghi, neo-dirigenti, insegnanti soverchiati da una montante deriva di complicazioni burocratiche che – è utile sottolinearlo- la digitalizzazione pervasiva rende a volte persino insostenibile. Essendo stato un discreto insegnante, un mediocre direttore ed un pessimo ispettore mi sento titolato ad ascoltare i vari cahiers de doleances: si potrebbero fare infiniti esempi per dimostrare che si è imboccata una strada che ha reso tutto più complesso, faticoso e difficile. Purtroppo i risultati non corrispondono alle aspettative poiché PISA e INVALSI, OCSE colgono derive di depauperamento formativo negli esiti formativi degli alunni. Le tecnologie aiutano – non c’è dubbio- a condizione che non si sostituiscano all’impegno da profondere nello studio, ai sacrifici necessari, agli apprendimenti basilari. Ci sono studenti che hanno difficoltà a scrivere, leggere, far di conto. Calcolatrici, smartphone, tablet hanno sostituito la manualità, i testi scritti a penna, l’ortografia è solitamente trascurata, la sintassi saltata a piè pari, congiuntivi e condizionali si confondono tra loro, gli algoritmi e il game based learning hanno scalzato le operazioni algebriche e i problemi di matematica. Tabelline, poesie, temi, dettati sono sepolti da nuovi codici semantici ed espressivi, storia e geografia quasi cancellati persino nei licei. Sostituiti dall’uso dei video, dalla valutazione attraverso quiz e test, espunta la narrazione, la capacità di riassumere, esporre, poiché i concetti sono stati soppiantati dal problem solving e dalle risposte a scelta multipla. Non stanno meglio i docenti a cominciare dalla forzatura di implementare la differenziazione di compiti e di ruoli, uno diventa apprendista semplice e l’altro tutor a seconda dei progetti studiati a tavolino e quasi mai realizzati, la tendenza è quella di creare metateorie pedagogiche sempre più arzigogolate che solitamente si traducono in una simbologia criptica fatta di cerchi, frecce, incroci, insiemi che si intersecano nei project work. Può un insegnante diventare “funzione obiettivo” per poi convertirsi in “funzione strumentale”? E la didattica deve per forza mutuare linguaggi, teorie, acronimi, sigle, formule da esperienze di altri Paesi? Chi legge il piano formativo previsto dal PNRR vi trova una preponderanza totalizzante dell’inglese e una didattica basata quasi esclusivamente sulla digitalizzazione: difficile integrare l’innovazione nella consolidata tradizione pedagogica, prevale una logica sostitutiva. Poi ci sono le esasperazioni burocratiche di cui l’autonomia scolastica diventa motore di infinite moltiplicazioni: riunioni pletoriche ed intensivamente calendarizzate, circolari in numero superiore a quelle ministeriali, spesso in contraddizione tra loro. Un sistema scolastico nazionale, con la sua storia e le sue tradizioni, i suoi connotati e i suoi fondamentali pedagogici deve continuare ad esistere: il Censis ha rilevato un impoverimento culturale del Paese, l’ISTAT ha lanciato l’allarme sulle culle vuote, aspettavamo Elon Musk che venisse a raccomandarci di fare più figli. Ma le problematiche, anche emotive ed emozionali sono più complicate: c’è palpabile una emergente fatica di vivere, nelle nuove generazioni persino una tangibile paura di amare. Il tema dell’educazione sentimentale è uscito impellente da un grave fatto di cronaca: ne scrivo da dieci anni ma non lo riduco a materia scolastica bensì lo considero - al pari dell’educazione civica – un approccio educativo trasversale, che deve permeare i rapporti, le relazioni umane, attraversare le singole discipline fino a farne parte, gli stili di vita, l’etica dell’insegnare e quella dell’imparare rispettando l’autorità e l’autorevolezza della scuola. Ci vogliono ethos e pathos e non dobbiamo assumere la deriva digitale, dell’I.A., del metaverso e dei cloud come un imperativo categorico. La formazione di menti critiche resta il traguardo assoluto di ogni formazione in quanto presupposto di valori come la libertà e la democrazia. Per questo esprimo una precisa preoccupazione: le direttive che impongono la digitalizzazione come unica via obbligatoria in cui incanalare insegnamento e apprendimento, oltre a generare una nuova, tanto criptica quanto vulnerabile ed effimera burocrazia, finiranno prima o poi per sottrarre alla scuola la libertà d’insegnamento come valore irrinunciabile. Per questo l’art. 33 della Costituzione non potrà mai essere offuscato da una strutturazione del nostro sistema scolastico secondo criteri di allineamento se non di omologazione. Il tema è di assoluto rilievo e riguarda non solo il futuro di una professione, il suo know how, ma il domani (forse già l’oggi) dei nostri figli e il modello di società che dobbiamo avere in mente, ben chiaro.

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Sat, 24 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Qualcosa cambia nella politica italiana?]]> Sebbene valga il vecchio detto che una rondine non fa primavera, quando ne arrivano due qualche piccola speranza viene. La prima rondine è stato l’accordo Schlein-Meloni sulla mozione parlamentare per il cessate il fuoco a Gaza. Per quanto sia stato contorto, ha segnato il superamento del “non ci si parla” come vorrebbe un certo radicalismo dell’una e dell’altra parte. La seconda sarà la manifestazione unitaria in memoria di Navalny fatto morire, non si sa ancora come, nella detenzione siberiana. Interverranno partiti e sindacati, anche quelli che ci sono, ma senza esporsi (Lega e M5S mandano le terze file), comunque nessuno ha potuto tirarsi indietro.

Non ci sentiremmo di dire che è tramontata l’era del radicalismo a prescindere, perché per quello occorreranno tempi non brevi: c’è da vincere la resistenza di un bel po’ di personaggi che nell’età del radicalismo hanno fatto il nido (con vantaggi non piccoli) e non sarà facile. Però, se ci riflettiamo, qualche ragione per avere un poco di speranza possiamo trovarla.

Quella parodia del giacobinismo che abbiamo conosciuto dalla vittoria di Berlusconi in avanti, a cui ha corrisposto una fiammata neo reazionaria che ci saremmo volentieri risparmiati, è stata possibile perché si era pensato che il mondo tutto sommato fosse fermo e stabile, per cui potevamo tranquillamente dedicarci ai conflitti generati dal crollo della vecchia repubblica dei partiti. Che poi questi conflitti siano scivolati molto spesso nello spettacolino politico è un fatto, per quanto abbia complicato il sistema.

Oggi il quadro è profondamente mutato. L’imperialismo russo scompagina le carte. Fino a due anni fa si poteva pensare che non si andasse al di là della ricerca da parte di Mosca di ritrovare un poco dell’antica potenza, ma senza mettere in discussione gli equilibri internazionali acquisiti. Con l’invasione dell’Ucraina si è compreso che Putin e il suo gruppo stanno posizionandosi su una linea di rimessa in discussione radicale degli esiti della seconda guerra fredda, quella che aveva portato al crollo dell’URSS. Non si tratta di sopravvalutare dichiarazioni propagandistiche, per quanto siano sempre dei segnali da tenere presenti, ma di considerare l’ostinazione con cui il nuovo zar è deciso a sfidare le regole che garantivano un qualche ordine al sistema internazionale (in primis la non tangibilità dei confini stabiliti, perché Mosca vuol tornare a che si consideri l’Ucraina un pezzo di Russia – che è una tesi del vecchio zarismo pre sovietico).

A questo già inquietante quadro si è aggiunto il riaccendersi della questione mediorientale. Appare sempre più chiaro che l’attacco di Hamas del 7 ottobre ai kibbutz israeliani di confine è stato un atto pianificato, con modalità orribili, per scatenare una reazione che incendiasse un’area vasta e magari avesse riflessi nelle opinioni pubbliche occidentali. Il calcolo si è rivelato esatto, nel prevedere tanto che una leadership israeliana fortemente compromessa con il fanatismo religioso non si sarebbe ritirata dal dare una risposta estrema, quanto che antichi pregiudizi in occidente contro il colonialismo israeliano avrebbero risvegliato un movimento pro palestinese che scivolava nel sostegno ad Hamas.

Poiché tutti si rendono conto che dietro questo conflitto si muovono interessi di ridisegno degli equilibri nell’area, a partire dal mai sopito neo imperialismo dell’Iran nutrito anch’esso di fanatismo religioso, le preoccupazioni per quel che può accadere cominciano anche nel nostro Paese a superare i confini delle contrapposizioni da talk show. La prospettiva di un disimpegno americano non è così peregrina, perché, anche qui al di là dell’incubo Trump, negli USA ci si chiede se valga ancora la pena di sostenere il peso del mantenimento dell’equilibrio internazionale. L’Europa se lo sta chiedendo, e il fatto che sempre più si parli di un problema di difesa comune da parte della UE, sino a far ipotizzare a Ursula von der Leyen la creazione di un commissario dedicato al problema, è un sintomo molto significativo di quanto progredisca il cambiamento di clima.

Chi ha un minimo di responsabilità nel considerare il futuro dell’Italia in un contesto del genere capisce che gli spazi per fare retorica di parte si stanno riducendo. Rimangono, ovvio dirlo, perché c’è la solita cascata di elezioni (europee e amministrative) e di conseguenza è più che mai viva la competizione per occupare tutte le possibili posizioni di potere, tuttavia ci si rende conto che ormai non si tratterà più di tranquilli feudi per raccogliere prebende e consensi, ma di posizioni che finiranno nell’occhio del ciclone. Per dire la cosa più banale, l’avvio di un serio programma europeo di difesa implica tensioni, raccolta di fondi (debito comune, ma non solo), impulso al settore dell’industria degli armamenti il che implica una bella torta da dividere e riflessi sul quadro generale delle nostre economie.

In un orizzonte come quello che stiamo intravvedendo non sarà certo il caso di continuare ad alimentare la scadente diatriba fra neogiacobinismo e neoreazionarismo, con tutte le varianti che questi desumono dalla storia del nostro Paese (scontri pseudo-ideologici, conflitti fra Nord e Sud, disequilibri sociali, e via elencando). C’è bisogno di una nuova politica, tanto a destra quanto a sinistra: non è proprio il caso di perdere l’occasione per chiudere la stagione delle lotte di fazione e per passare ad un serrato, ma costruttivo confronto sulle modalità per ricostruire l’equilibrio di un sistema politico italiano in grado di far fronte alle sfide turbinose di un mondo in transizione.

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Wed, 21 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici]]> Il DPR 13/06/2023 n.° 81 – ‘Codice di comportamento dei dipendenti pubblici’ – pubblicato sulla G.U. 150 del 29/6/2023 è rimasto lungamente dormiente nei cassetti delle scrivanie degli interessati fino a diventare – ‘improvvisamente’, direbbe Dostoevskij –una delle letture più praticate nella P.A. Ad esempio per le scuole, a cui è stato solo recentemente trasmesso a cura dei Dirigenti di Istituto, potrebbe significare la necessità di un richiamo ai doveri deontologici di docenti e personale ATA, data la delicatezza dei dati trattati: non sempre la legiferazione ordinaria recente tiene in debito conto e attribuisce il dovuto risalto alla tutela dei dati personali, che deve rispettare le linee di indirizzo, i ruoli, le responsabilità stabilite da Regolamento Europeo n.° 679/2016. Firmato dal Ministro Zangrillo, dalla Presidente Meloni e dal Capo dello Stato Mattarella, il testo normativo elenca con puntuale e lodevole descrizione alcune norme essenziali di comportamento per un ‘corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media da parte dei dipendenti pubblici, anche al fine di tutelare l'immagine della pubblica amministrazione’. Un atto regolamentare necessario ed utile, considerato il diffuso ed esponenzialmente crescente utilizzo delle nuove tecnologie che – di fatto – costituiscono un potenziale canale di esternalizzazione di atti, documenti e procedure che inglobano “l’ubi consistam” dell’attività lavorativa dei dipendenti fino a integrare la fattispecie della tutela del segreto d’ufficio. Per questo motivo il DPR 81/2023 specifica in modo dettagliato come le dotazioni tecnologiche d’ufficio non possano essere utilizzate per motivi personali (salvo casi eccezionali che non costituiscano pregiudizio per i compiti istituzionali). L’uso di hardware e software, di password e username e del protocollo delle procedure prassiche deve garantire la necessaria riservatezza, un requisito che è consustanziale ai doveri d’ufficio di ogni dipendente.

Risulta perciò legittimo e doveroso un monitoraggio della correttezza dei comportamenti professionali – specie in relazione alla gestione dei mezzi tecnologici – in modo tale che il loro utilizzo non possa nuocere al prestigio, al decoro o all'immagine dell'amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale. La P.A. troppo spesso assimilata nell’immaginario collettivo ad una sorta di caravanserraglio caratterizzato da approssimazione, confusione, lentezza, burocrazia ostativa, lungaggine delle pratiche e incompetenza degli addetti ai lavori deve recuperare un’immagine di efficienza- efficacia che renda soddisfazione alle necessità dell’utenza e ad un livello qualitativamente elevato nell’espletamento del pubblico servizio.

Un comportamento esemplare si sostanzia di alcune doti imprescindibili: integrità, imparzialità, buona fede e correttezza, parità di trattamento, equità, inclusione e ragionevolezza.

Qualcuno potrebbe forse eccepire su queste indicazioni che qualificano il dipendente e l’ufficio di cui fa parte? Certamente no, tuttavia alcuni passaggi del DPR adombrano una sorta di vincoli restrittivi imposti al lavoratore. Ad es. l’art. 11/ter raccomanda che ….“nell'utilizzo dei propri account di social media, il dipendente utilizza ogni cautela affinché' le proprie opinioni o i propri giudizi su eventi, cose o persone, non siano in alcun modo attribuibili direttamente alla pubblica amministrazione di appartenenza… In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all'immagine dell'amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.

Qui siamo in una sfera che riguarda l’utilizzo di account personali. l’espressione di sentimenti o di riserve su trattamenti ricevuti dall’ amministrazione o ad essa riconducibili anche su un piano generale e non personale. Scrivere un articolo o una lettera ad un quotidiano è una libertà costituzionalmente garantita. Persino rivolgersi ad un Sindacato per essere tutelati in una procedura ritenuta ingiusta potrebbe essere considerato un esempio di esternalizzazione censurabile. Anche manifestazioni di dissenso pubblico rispetto a disparità di trattamento di cui si subisce l’ingiustizia sono lecite espressioni di autotutela. Non tutto può passare attraverso la gerarchia interna, specie se si chiedono lumi e applicazione di previsioni normative ma non si ottiene risposta. A chi deve rivolgersi chi ritiene di subire un danno? Proprio in questo periodo è montata la protesta dei docenti lavoratori fragili esclusi dallo smart working dalla legge di bilancio e per i quali non è stata applicata la tutela riparativa prevista dalla Direttiva Zangrillo del 29/12/2023. Non si può sempre stare zitti e far passare sotto silenzio ciò che – come in questo caso – appare una discriminazione persino di fronte alla Costituzione e all’uguaglianza di trattamento che cittadini e lavoratori devono pretendere, specie in tema di salute.

Stupisce il silenzio degli interpellati: inaccettabile.

IL DPR 81 e la Direttiva 29/12/2023 della P.A. sono firmati dal Ministro Zangrillo: lodevoli entrambi i provvedimenti ma a chi deve rivolgersi colui che dovendo ubbidire al primo, non riceve risposta alcuna dall’Amministrazione per la seconda? Possibile che tutto debba essere sempre fonte di contenzioso? Perché tutto tace di fronte a diritti che dovrebbero essere rispettati poiché previsti dalla Direttiva e dal senso di responsabilità? Tutto scivola non adempiuto in un silenzio assordante. Allora  uno cosa fa: deve tacere e subire? Il rispetto è dovuto ma può essere anche reclamato.

Dunque a chi subisce un torto palese non è permesso di esprimere il proprio malessere? Un’Amministrazione che non dà risposte costringe i dipendenti ad azioni legali, a meno che non si vogliano cazziare come non ortodosse anche queste.

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Sat, 17 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Una politica in apnea pre-elettorale]]> Chi commenta la politica si trova in un certo imbarazzo. A meno di buttarsi sui vari spettacolini che essa continua ad offrire (polemichette su San Remo, duelli verbali Meloni-Schlein, astruserie sul fascino della monarchia nonostante la noia dei funerali di Vittorio Emanuele a Torino), non c’è molto su cui val la pena di soffermarsi.

Anche la protesta del mondo dell’agricoltura, che pure pone un problema serio, si consuma fra lo show e la concessione di qualche bonus a caccia del voto. Eppure la questione di difendere il nostro sistema agricolo a fronte di una globalizzazione del commercio dei beni dell’agro-alimentare è una cosa seria. Da un lato c’è il tema della difficile praticabilità del porre barriere alla circolazione delle merci. Per dire la cosa più banale: come si farà a controllare che i prodotti importati rispettino gli standard di sicurezza che giustamente noi imponiamo? Facile a dirsi, ma difficile a farsi, perché sarà difficile dopo un primo momento semplicemente “presumere” che altrove quegli standard siano sconosciuti: troveranno modo di sostenere che ci sono, anche se nessuno li farà rispettare e per noi sarà impossibile verificare sul luogo.

In più non possiamo dimenticarci che anche i produttori italiani sono esportatori di prodotti agro-alimentari, per lo più di qualità, e che sono soggetti a boicottaggi di vario genere (per esempio scarsa o nessuna tutela dei nostri marchi storici). Le ritorsioni in questi campi sono all’ordine del giorno.

Veniamo così all’altro lato della questione. Il comparto è ancora strutturato con una preponderanza di aziende medio-piccole, le quali difficilmente possono essere in grado di tutelarsi dalla concorrenza del sottocosto che viene da fuori, soprattutto perché devono fare i conti con una filiera di distribuzione/vendita dei prodotti che a sua volta ha interesse al prezzo e al proprio guadagno e non a mantenere ad un livello almeno decente i ricavi del lavoro agricolo. Puntare a sostenere questa situazione della nostra agricoltura semplicemente con sussidi e bonus di varia natura come si è fatto in passato appare problematico. Sarebbe necessario ampliare il volume dei sussidi, ma non si sa con che fondi, vista una situazione economica che è problematica anche per altri settori, i quali cominceranno a pretendere gli stessi livelli di aiuti.

Guardando freddamente le cose, dovrebbe essere una bella occasione per avviare un piano agricolo ragionato e largamente condiviso, realistico senza cadere nelle stupidaggini del “si potrebbe fare di più” in materia di sussidi vari. Ma di questo non si trova traccia, perché si deve fare campagna elettorale e per cercare voti bisogna distribuire subito regalini, mentre i piani coraggiosi che richiedono tempo per diventare realtà non trovano consenso (anche perché purtroppo siamo abituati, non senza buone ragioni, a considerare questo genere di piani come parole al vento).

Il contesto ha imposto una campagna elettorale defatigante e lunghissima non solo per le competizioni fra due blocchi contrapposti, il destra-centro e una sinistra dove cosa sia il centro non si sa, ma ancor più per le lotte intestine in ognuno dei blocchi. Nel primo la competizione fra Meloni e Salvini è sempre più accentuata, anche se per ragioni varie da entrambe le parti si finge si tratti solo di propaganda, magari un po’ sfacciata, ma nulla più. Nella opposizione all’attuale governo, che non si sa quanto sia appropriato aggregarla sotto il nome “sinistra”, la concorrenza è chiaramente fra Schlein e Conte, con il curioso fenomeno per cui una parte almeno dell’establishment della comunicazione ha cominciato a parteggiare per la prima, probabilmente nel timore che un suo indebolimento possa destabilizzare ulteriormente quel campo spingendolo ancor più verso un radicalismo parolaio senza prospettive.

Sta di fatto che la politica appare in apnea quanto a capacità di programmazione. Proporre quelli che una volta si definivano “piani” diventa praticamente impossibile, non solo perché si ritiene che affrontare i nodi dei problemi in campo faccia solo perdere voti, dato che non è possibile farlo senza toccare una selva di privilegi grandi e piccoli per i più diversi settori, ma anche perché mancano ormai le sedi in cui questo genere di proposte possono trovare spazio. Sulle cose serie in questo paese ormai non si discute perché non fanno audience, ma se non si riesce a far discutere sulle proposte che prendono di petto un tema diviene impossibile costruire attorno ad esse il necessario consenso in modo da costringere la politica a prenderle in carico. Chiamatela “comma 22”, “gatto che si morde la coda” o come preferite, ma questa situazione sta deprimendo ulteriormente la nostra scena politica.

Chi pensa che tutto si risolverà con l’esito delle elezioni europee di giugno si illude. Innanzitutto perché, se i sondaggi non sbagliano clamorosamente, il quadro della distribuzione del potere nella UE rimarrà problematico e ci vorranno mesi perché si trovi una qualche stabilizzazione, la quale avrà solo allora i suoi riflessi sulla situazione italiana (per essere espliciti: si vedrà allora se Meloni riesce ad essere presente con qualche peso nel futuro gruppo dirigente di Bruxelles; oppure, se e dove finiranno in quella partita PD e M5S). In secondo luogo perché in contemporanea con le urne europee e in qualche caso dopo di esse avremo confronti sul piano delle elezioni comunali e regionali ed anche in quel caso ci saranno evoluzioni nei rapporti interni ed esterni ai partiti e alle coalizioni.

Insomma c’è il forte rischio che questa apnea della politica continui a lungo, il che non promette bene per i nostri equilibri di sistema. E dire che più di un osservatore, a cominciare dal governatore della Banca d’Italia, invita a non perdere le occasioni che vengono da una situazione economica che presenta, accanto a varie difficoltà, anche non poche opportunità di sviluppo.

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Wed, 14 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Europee, tutti contro tutti]]> In questi mesi si vanno intensificando duelli che, almeno all'apparenza, hanno del paradossale. La Lega, invece di contribuire alla coesione della maggioranza, non perde occasione per intralciare il percorso della Meloni; dall'altro lato dell'emiciclo, il M5s dimentica che per sconfiggere chi governa bisogna limare le differenze e costruire una coalizione alternativa, mentre preferisce mettere in difficoltà il Pd e la Schlein. Si dirà che è fisiologico, in vista di elezioni nelle quali ognuno correrà per proprio conto (le europee) e si voterà col proporzionale (che fisserà fino alle politiche del 2027 i rapporti di forza) che ci sia una guerra aperta fra partiti i quali, teoricamente, dovrebbero cercare punti d'incontro per marciare assieme. Come la logica premiante del sistema elettorale per la Camera e per il Senato (ma anche per le regioni: si veda il caso Sardegna, dove il leghista-sardista ha dovuto lasciare più nolente che volente il posto di candidato presidente della regione al sindaco meloniano di Cagliari) ha spinto Salvini a un matrimonio poco d'amore e molto di convenienza con Fratelli d'Italia (la destra si ritrova sempre unita, quando c'è da conquistare e spartire il potere, cosa che la sinistra non è capace di concepire, immersa nelle sue fisiologiche lotte intestine), così la logica del proporzionale spinge Conte a concentrare tutte le sue forze sul tentativo di sottrarre consensi al Pd, costi quel che costi (tanto, per un partito che è passato dal governo gialloverde a quello giallorosa e al sostegno poi ritirato a Draghi, giravolte e ambiguità sono sempre possibili). Lo si vede anche in politica estera, dove i pentastellati la pensano sostanzialmente in modo non dissimile dai leghisti: cosa da non sottovalutare e che rende ancor più plastico il ruolo di "alleanza ultra-populista" che sfida le due maggiori leadership, quella (forte) rappresentata dalla premier e dal primo partito italiano (FdI) e quella (debole, incerta, confusa) costituita dalla segretaria del secondo partito italiano (il Pd). In questa partita proporzionale, i "secondi" (M5s, Lega) si chiamano fuori dalle alleanze possibili o in corso e adottano entrambi un comportamento da opposizione radicale. Lo si vede anche nella ricerca degli argomenti (il pacifismo non tanto filoucraino del M5s e della Lega) e dell'elettorato da catturare (l'estrema sinistra per i pentastellati, l'ultradestra che tanto è corteggiata dai leghisti). La sfida che ci attenderemmo in un paese normale sarebbe fra maggioranza e opposizione, ma qui la logica è diversa. In palio è il potere: a destra, un parziale riequilibrio dei rapporti di forza che per la Lega sia meno sfavorevole dell'attuale; a sinistra (sempre che il M5s sia di sinistra) la necessità di sorpassare il Pd e di imporgli la supremazia pentastellata, in vista di un tanto sognato (da qualcuno) quanto improbabile ritorno di Conte a Palazzo Chigi (del resto, lo si vede già ora, col partito della Schlein che ha più voti dei Cinquestelle: in Sardegna l'alleanza si fa perchè la candidata è del M5s, in Abruzzo si sceglie un civico, ma nelle altre regioni e nei comuni non si fa nulla, se il candidato non è imposto dai pentastellati, che di fatto pretendono il predominio sull'opposizione e la sottomissione di un già abbastanza compiacente Pd). In tutto questo l'idea di Europa, visto che a giugno si voterà per l'Europarlamento, è un semplice contorno. Va detto, però, che sul Mes il no della Lega e quello delle destre si è sommato (indice che, quando c'è da prendere, come col Pnrr, si è tutti patrioti dell'Ue, ma quando c'è da rispettare le decisioni prese dai partner, ci si dà alla fuga) e che a volere un futuro per l'Unione ci sono rimasti solo Calenda e Bonino insieme alla timida Schlein.

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Sat, 10 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[La grande tecnologia e la crisi dello sfruttamento sessuale minorile online]]> Con questo odg la Commissione Giustizia del Senato USA ha convocato e audito i potenti dell’hi tech, coloro che detengono il primato dei social media americani: in quella sede è andata in scena una sorta di messa in stato d’accusa della comunicazione e dell’informazione via web, per le conseguenze drammatiche provocate in danno di minori e adolescenti caduti nelle “rete” : erano infatti presenti molti genitori di ragazzini vittime di adescamenti sessuali, giochi pericolosi, istigazione al suicidio.

Sul banco degli invitati-imputati i CEO dei cinque principali network USA (ma con influenza e penetrazioni planetarie), da Mark Zuckerberg (Meta), Linda Yaccarino (X), Shou Chew (Tik Tok) Evan Spiegel (Snap) e Jason Citron (Discord). Da quanto diffuso dai media americani non si è trattato di una messinscena, vista la durezza delle accuse peraltro debordate anche sul coté della politica: di fatto la campagna elettorale per le presidenziali è virtualmente aperta pur nell’attesa di presentare i due contendenti ma l’argomento era troppo ghiotto per trasformare la conferenza in una burletta di simulazioni e domande concordate. Da alcuni anni a questa parte la diffusione delle tecnologie, la dilagante digitalizzazione, gli scenari aperti dal metaverso e dagli iniziali esperimenti di intelligenza artificiale hanno imposto un’area tematica che sta rivoluzionando il mondo delle comunicazioni e prelude a scenari persino sconvolgenti negli stili di vita degli “umani” che ne saranno inevitabilmente coinvolti. Fermare questa deriva equivarrebbe a tentare di arrestare uno tsunami con l’uso delle mani ma certamente la facilità con cui hardware e software si sono diffusi, algoritmi e stilemi linguistici hanno sostituito gli alfabeti tradizionali, il fatto che questo universo in gran parte inesplorato e sconosciuto ai più ma gestito con disinvoltura e poco senso etico e della misura da poche mani sapienti per finalità commerciali e con profitti stellari, sia frequentato in prevalenza da giovani o giovanissimi senza una guida orientativa e senza confini tematici, ha costituito una vera e propria rivoluzione culturale che la scuola non è riuscita a controllare, per sdoganare e limitarne gli effetti distorsivi.

Da anni ci si interroga sull’uso e la diffusione dei social che diventano “dissocial”, poiché lungi dal favorire un supporto all’impegno educativo delle famiglie e più specificatamente didattico e pedagogico dei sistemi formativi, ha favorito da un lato una diffusione massiva incontrollata, dall’altro non ha posto tutele e ripari alla fruizione solipsistica e fuorviante delle tecnologie.

Navigare senza rete non ha quasi mai favorito approdi rassicuranti, Itaca è scomparsa dagli orizzonti degli esploratori. Ai genitori presenti all’audizione – in genere muniti di cartelloni di protesta e foto di figli rovinati dall’uso incontrollato dei social media fino a diventarne vittime sacrificali, Zuckerberg si è rivolto direttamente per chiedere scusa, eludendo le domande più tecniche poste dai senatori. Negli USA il fenomeno delle devianze prodotte dalla tecnologia incontrollata nell’uso fino a normalizzare una serie infinita di abusi e comportamenti distorsivi è presente da molto tempo: ma la globalizzazione ha rapidamente esportato tutti gli aspetti più deleteri e deteriori di questa dilagante deriva. Dobbiamo porci anche qui, in Italia e in Europa, più di un interrogativo sul da farsi ricordando il ‘non fatto’: sono innumerevoli gli episodi che già da diversi anni si sono verificati con crescente intensità e perniciosa creatività: l’emulazione, l’indifferenza degli adulti ammantata da un’assenza di regole e norme di comportamento che rasenta l’incoscienza hanno consentito una sovraesposizione al pericolo nella frequentazione dei social, fino a farli diventare una sorta di cloaca maxima dove affogare senza tornare a galla. Per questo il senso di questa iniziativa del Senato americano dovrebbe avere il valore di un incipit per la politica a livello planetario. Troppo episodi archiviati come errori, infortuni o fatalità vanno invece ricondotti alle politiche diseducative che i grandi network hanno favorito, anteponendo la contesa tra loro di una primazia di diffusione e ‘potentato’ senza interrogarsi sugli esiti disastrosi possibili. Poiché ovunque è ormai così: ricordo come grazie all’ospitalità di Barbara Stefanelli molti anni fa potevo segnalare su ‘La 27a ora’ i casi di cyberbullismo, di violenze agite attraverso le tecnologie, le fide assurde alla morte, seguendo video diffusi in rete, le prove di impiccagione, l’attraversare i binari del treno all’ultimo secondo.

E insieme a questo la diffusione della pornografia, della prostituzione minorile agganciata in rete e tutte le raffinate distorsioni che ne sono via via derivate, a cominciare dal revenge porn, la trasgressione più odiosa, la “vendetta” realizzata attraverso la diffusione di immagini intime carpite a insaputa delle vittime. Perciò quanto accaduto al Senato USA dovrebbe valere – come fatto eclatante che scuote le coscienze – ovunque. Il reporter del New York Times, David McCabe, ha raccontato di non aver mai visto nulla di simile in un’audizione. I CEO dei network più potenti messi alla sbarra, anche sotto il profilo della liceità di accordi commerciali con Paesi competitor degli USA e rappresentanti dell’altra faccia del pianeta, quella delle dittature e delle mire espansionistiche. Tema che ci riguarda da vicino poiché attraverso questi interessi commerciali delle grandi aziende può essere favorita l’infiltrazione di ideologie che combattono le democrazie del mondo, a partire dalla disgregazione delle singole democrazie (come spesso mi ricorda il Prof. Vittorio Emanuele Parsi).  Né va dimenticato come i social siano spesso i megafoni dell’omologazione culturale: la negazione della loro essenza poiché falsificano e distorcono la comunicazione fino a diventare la causa più diffusa delle solitudini siderali e spesso disperate del nostro tempo.

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Sat, 10 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Una riforma ben poco istituzionale]]> Sulla legge costituzionale che istituisce il cosiddetto premierato siamo ancora impelagati in parte negli appetiti dei partiti di maggioranza in parte nella voglia di barricate delle opposizioni. Parlarne come una riforma istituzionale per ora pare improprio: di senso delle istituzioni ce n’è davvero poco.

È già piuttosto negativo dover constatare che su un argomento tanto delicato è stata presentata una legge mal scritta e mal pensata tanto da non trovare sostegno nemmeno fra i costituzionalisti che pure erano sensibili agli argomenti del centro destra, i quali se hanno difeso il principio si sono ben guardati dal giudicare positivamente le modalità di scrittura del progetto di legge. Così il ministro Casellati ha dovuto tornare sui suoi passi e mettere mano ad un aggiustamento del testo. Di nuovo però è finita nella appiccicosa ragnatela che hanno costruito i partiti, soprattutto la Lega, sicché siamo lontani da un testo che possa ambire ad una dignità costituzionale.

Il nodo è facile da individuare. L’obiettivo, di per sé accettabile, era rafforzare la presenza di un potere di direzione del sistema da parte del presidente del Consiglio e per farlo si è puntato sull’investitura popolare diretta. Si può concordare o meno con questa impostazione, ma essa è presente sia negli Stati Uniti che in Francia, sebbene con peculiarità che non esistono nel nostro sistema: innanzitutto la coincidenza fra il capo dello stato e, direttamente (USA) o indirettamente (Francia), il vertice del governo.

In Italia c’è inevitabilmente un problema di diarchia fra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Per la verità lungo i primi trent’anni di vita della repubblica la diarchia è stata relativa, perché tutto veniva gestito, pur non senza attriti e contrasti, da un solido sistema dei partiti all’interno del quale si bilanciavano in qualche modo i due poteri. Con la crisi del quadro dei partiti inevitabilmente è cresciuto il ruolo del Quirinale, perché la difficoltà delle forze politiche a governare il sistema ha richiesto l’ampliarsi di funzioni arbitrali e talora di supplenza dal lato della presidenza della Repubblica. Ora c’è la presunzione che si sia in presenza di una qualche stabilizzazione dell’elettorato per cui sembra possibile avere l’investitura diretta di un primo ministro che di conseguenza sia in grado di governare sottraendosi ai ricatti e ricattini non solo della sua maggioranza, ma anche del corporativismo che ne muove le fila (ma, se è per questo, anche di alcune di quelle delle opposizioni). E ciò per tacere del crescente populismo come clima generale.

Ora la questione che si presenta con chiarezza sempre maggiore è che i partiti che dovrebbero necessariamente formare la coalizione di governo, nella fattispecie per ora quelli di destra-centro, vogliono mantenere la possibilità di disfarsi del premier eletto senza pagare il prezzo di dover tornare alle urne. Il nodo sta tutto qui, poi ci sono questioni di contorno, anche importanti, ma non essenziali. In questo modo però il ruolo del Capo dello Stato viene ridotto a poco più di quello di un cerimoniere: non è tanto il problema di dover riconoscere l’incarico al vincitore delle elezioni per il premierato (di fatto è già così, se c’è davvero un vincitore), quanto il non poter far nulla se la maggioranza di governo del premier decide di sbarazzarsene: potrà solo nominare all’interno di essa un nuovo premier, per di più dotato dell’arma atomica dello scioglimento della legislatura.

In teoria, ma molto in teoria, l’inquilino del Quirinale potrebbe scegliere liberamente nelle fila della maggioranza chi designare come nuovo premier, ma è abbastanza evidente che, salvo casi eccezionali, sarà obbligato a nominare il capo dei “congiurati”. Del resto, con l’attuale sistema di elezione del presidente della Repubblica che è nelle mani della maggioranza parlamentare se solo questa è un minimo coesa, l’inquilino del Colle difficilmente sarà, almeno nella prima fase del suo mandato, di orientamento diverso da quello sulla cui base sarà eletto il premier. Di qui la necessità, se si volesse equilibrare il sistema, di prevedere un diverso meccanismo di elezione del Presidente della Repubblica, ma di questo nessuno vuole parlare.

Comprensibilmente le opposizioni non si riconoscono nella nuova “porcata” (per riprendere una definizione di Calderoli su un suo precedente intervento in materia di riforma del sistema elettorale), ma non riescono a fare squadra per costringere la maggioranza a trattare. Le tentazioni a sottolineare le differenze da parte di ciascuna sua componente indeboliscono la forza di una proposta alternativa unica e secca che in realtà non sarebbe difficile da trovare (più o meno tutte si ispirano al sistema del cancellierato tedesco). Inoltre sarebbe nel loro interesse connettere l’introduzione di un premierato rafforzato e in qualche modo indicato dal popolo con l’individuazione di un nuovo modo di elezione del presidente della Repubblica, tale da dargli una base di legittimazione almeno eguale a quella del premier.

Così da una parte e dall’altra si lotta solo per ottenere lo scalpo dell’avversario e per arrivare al duello referendario finale, ciascuna convinta di avere la vittoria a portata di mano. Il fatto che il prezzo da pagare sarebbe fare un ulteriore passo per sfasciare il tessuto connettivo della nostra comunità nazionale non sembra preoccupare. Cosa volete che sia il senso delle istituzioni per quelli abituati più che altro ad organizzare corride di partito?

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Wed, 07 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Merito e mobilità sociale. Perché la scuola non deve dimenticare l’articolo 34 della Costituzione]]> Di promozione del merito il nostro Paese ha un bisogno primario, in tutti gli ambiti, ma la sfida si affronta a partire dalla scuola. Eppure, troppo spesso il merito suona come una parolaccia elitista, o tutt’al più come una parola di destra, mentre dovrebbe essere un vocabolo chiave della vita civile, dell’ordinamento democratico. Per questo, ho apprezzato molto l’intervento di Francesco Provinciali. Abbiamo vissuto finora in un clima culturale che ha confuso merito e meritocrazia (leggi “dittatura del merito”). Promuovere il merito non significa lasciare indietro coloro che si trovano in condizione di minorità (minor preparazione, minor abilità), ma dare opportunità di crescere e buone motivazioni per impegnarsi a chi ha voglia di farlo. La rinuncia della scuola a premiare porta a esiti disfunzionali, sia dal punto di vista della valorizzazione delle capacità, sia dal punto di vista dell’equa distribuzione delle opportunità. Come scrive Provinciali, il merito “non è solo dote intellettuale, ma riguarda anche l’impegno, l’applicazione, il sacrificio per conseguire competenze”. È un prodotto alchemico, il merito, di cui è difficile separare le componenti. Quando le madri e i padri costituenti pensarono all’articolo 34 della Costituzione avevano in mente obiettivi di mobilità sociale, una norma che facesse giustizia ai “capaci e ai meritevoli”, a svantaggio dei figli del privilegio. Vero è che gli appartenenti a classi sociali agiate si trovano a disposizione per nascita risorse maggiori per eccellere, ma come si possono rendere contendibili le posizioni più ambite se non fornendo a coloro che vogliono impegnarsi la possibilità di venire valorizzati, gli strumenti per competere con i più dotati per nascita? La scuola del merito ha il compito di fornire questi strumenti. La fuga dei cervelli si spiega anche così: ragazze e ragazzi che non vedono riconosciuto il proprio merito in patria scoprono ottime ragioni per andare altrove. A rimetterci è il Paese. Dovremmo chiederci: se la società non distribuisce occasioni sulla base del merito individuale a partire dalla scuola, come verranno distribuite tali occasioni? Non restano altri criteri che le diverse forme di privilegio. La famiglia, le conoscenze personali, i “giri” informali che troppo contano nei percorsi di carriera individuali.

Ecco perché osteggiare il merito ci porta a esiti di estremo conservatorismo, attraverso i quali si finisce non solo per sottrarre opportunità a chi ne avrebbe il diritto, ma anche per ingessare la società, limitarne le potenzialità di sviluppo. Dovremmo per questo disinteressarci di coloro che per le ragioni più varie si trovano in difficoltà nel percorso scolastico? Certo che no. L’articolo 3 della Costituzione incarica la Repubblica di rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona. Ma questo non vuol dire che davanti alle difficoltà a scuola la soluzione sia abbassare gli standard di preparazione. Davanti alle difficoltà dobbiamo moltiplicare gli sforzi e gli investimenti. Non c’è nessun aut aut tra scuola che premia il merito e scuola capace di includere e farsi carico delle fragilità. C’è invece un’alternativa necessaria tra la rinuncia a valorizzare i meritevoli e la scelta di distribuire opportunità di mobilità sociale. Da rappresentante del mondo dell’impresa immagino i riflessi immediati nei contesti aziendali. Una scuola che riconosce il talento fa emergere personalità più motivate, consapevoli del proprio talento e capaci di riconoscere il talento altrui. Nuova classe dirigente, migliore di quella precedente, spesso mal selezionata, con criteri che troppo spesso hanno finito per ricalcare diseguaglianze conclamate. Ma non è solo questione di imprese. Calamandrei portava molto oltre il pensiero, dicendo che la scuola alla lunga è più importante del Parlamento, della magistratura, della Corte costituzionale, perché è a scuola che si pongono le basi per la formazione della classe dirigente. Non è questione di efficienza della produzione, ma di giustizia sociale e in fondo di democrazia.

Perché allora il merito sì e la meritocrazia no? Lo spiega bene il sociologo Luca Ricolfi, nella sua recente pubblicazione, “La rivoluzione del merito”. Con la parola meritocrazia si è inteso un sistema basato su strumenti di misurazione del merito, presuntamente oggettivi, spesso incapaci di cogliere l’essenza della preparazione scolastica e universitaria. Il dispositivo meritocratico tende a trasformarsi in un meccanismo di giustificazione delle diseguaglianze sociali, più utile a mantenere gli assetti esistenti che non a contraddirli, a sottoporli alla tensione competitiva del merito. Se seleziono e distinguo fin dai primi anni di età i “migliori”, sulla base di test oggettivi e solo ai selezionati riservo opportunità di istruzione di qualità, è facile cadere nella trappola meritocratica, che avvantaggia chi ha tutti gli strumenti per eccellere fin da subito. I figli delle famiglie più dotate di risorse economiche e culturali finiranno per aggiudicarsi le occasioni migliori, mentre agli altri passerà presto ogni desiderio di impegnarsi. Una nuova forma di familismo amorale, nulla di più lontano dagli scopi dell’istruzione pubblica. Tutt’altra cosa è la valorizzazione del merito, che non può distaccarsi da un investimento importante nella costruzione di pari opportunità per tutte e tutti.

 

 

 

 

* Presidente della “Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti” (UCID), è stato parlamentare e sottosegretario al Ministero dell’Istruzione e Ministro dell’Ambiente nei governi Renzi e Gentiloni

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Wed, 07 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[La presa della pastiglia]]> Recentemente ospite di TGCOM24 il noto farmacologo, fondatore e già Direttore dell’Istituto Mario Negri, Prof. Silvio Garattini ha fatto il punto sul settore sanitario e medicale, evidenziando la necessità di una vera e propria “rivoluzione culturale” nelle abitudini degli italiani, troppo spesso inclini ad applicare il nesso malattia-farmaco negli stili di vita più radicati e diffusi. Poche persone in Italia possono vantare un know how di così lunga esperienza e di competenza esperta come il Prof. Garattini e il suo osservatorio è decisamente supportato da dati e analisi tecniche sempre aggiornate e approfondite che rendono conto in modo oggettivo e documentato rispetto ai comportamenti sociali prevalenti. ."La medicina ha fatto grandi progressi ma è anche diventata un grande mercato. Molte malattie sono assolutamente evitabili, ci sono 3 milioni e 700 mila diabetici adulti e questa è una malattia evitabile, così come il 40% dei tumori lo è" ha affermato Garattini, mettendo il dito sulla piaga della carenza di prevenzione mediante accertamenti strumentali ed evidenziando – di converso – come l’abuso farmacologico in itinere o a posteriori rispetto al corso di una malattia non sempre costituisce la soluzione più efficace in quanto c’è uno scostamento tra loro implementazione ed esiti risolutivi. La prevenzione è l’approccio più sensato ed efficace ed esso ingloba la scelta di stili di vita sani, centrati ad esempio sull’alimentazione e l’attività fisica.

Normalmente il paziente tende ad aumentare il consumo dei farmaci, immaginando un nesso quantità-soluzione: non sempre – o quasi mai – è così. "Ogni anno muoiono 180mila persone in Italia. C’è bisogno di una grande rivoluzione culturale che metta al centro la prevenzione e che richiede una volontà anche di tipo politico, in questo modo il servizio sanitario nazionale non spenderebbe più 3 miliardi e mezzo di farmaci all’anno ma molti di meno che potrebbero servire a migliorare altre cose molto urgenti come le lunghe attese per le prestazioni e i servizi".

Esiste anche, secondo il farmacologo-oncologo, un eccesso di prescrizioni di farmaci: "Molti anziani usano anche 15 farmaci contemporaneamente ma nessuno ha mai stabilito se 15 siano davvero meglio di 10. Quello che sappiamo è che ci sono molte interazioni tra i farmaci e alla fine possono esserci tanti effetti collaterali. Ancora più grave è la condizione delle donne che sono 'condannate' a usare farmaci che vengono testati su maschi adulti. I primi studi clinici vengono svolti solo sugli uomini nelle prime due fasi. Solo nella terza vengono inserite le donne ma non è sufficiente a stabilire se un farmaco sia più attivo su un uomo o una donna. Dovrebbero esserci due distinti protocolli perché sia i sintomi sia la frequenza che gli esiti della stessa malattia sono diversi tra uomo e donna ma questo ha costi maggiori. Condanniamo metà del mondo a non avere i farmaci adeguati e le donne, come sappiamo sono più soggette a effetti collaterali". Sono affermazioni testuali che dovrebbero far riflettere i medici prescrittori dei farmaci e i loro pazienti, voraci consumatori di medicine all’insorgere di un primo sintomo. L’eccessiva medicalizzazione può determinare risultati opposti alle aspettative. Sono convinto che se l’ISTAT sul piano demografico, il CENSIS su quello delle derive sociali e l’Agenzia italiana del farmaco o lo stesso Istituto Superiore di Sanità su quello strettamente medicale avviassero una indagine che prevedesse il costante monitoraggio sull’uso e sull’abuso dei farmaci avremmo risultati sorprendenti ma non positivi.

In tasca, nella 24 ore, in borsetta, nello zaino, in cartella quasi ognuno di noi porta con sé una quantità variabile e tendenzialmente implementabile di medicine, da quelle ad “effetto placebo”, ai generici farmaci antidolorifici, a pastiglie, gocce, pasticche ecc. come una sorta di scudo utile e rassicurante all’insorgere di un malessere. Altri non escono di casa se non hanno deglutito una manciata di pillole. Ci sono poi le vere e proprie degenerazioni: si pensi alla diffusione massiva e all’incremento verticale dell’uso degli psicofarmaci: ansiolitici, calmanti, antidepressivi, integratori che si ingurgitano a casa, per strada, al lavoro contando su un effetto sintomatico e stabilizzatore dell’umore e di controllo delle emozioni. Purtroppo la frontiera più nefasta e dannosa, che sta diventando una deriva inarrestabile specie tra i giovani è l’uso di pasticche ad effetto allucinogeno, con varianti sul tema: come sostitutivi delle droghe tradizionali, come micce che accendono lo sballo fino alle date rape drugs, chimica al 100% , la cd. “droga dello stupro”, veri inibitori della volontà. Inghiottire una di queste sostanze dagli effetti incontrollabili e distruttivi della mente e delle facoltà del controllo di sé è questione di un attimo e purtroppo il mercimonio che se ne fa con prezzi concorrenziali lo rende accessibile anche ai giovani in tenera età. Ma qui il discorso si fa più ampio ed ingloba i comportamenti malavitosi e delinquenziali come fenomeni prodromici o collaterali alla diffusione e al commercio delle droghe e alle devianze vere e proprie. Soffermandoci a considerare il consumo esponenzialmente crescente dei farmaci possiamo attribuirne le cause ai mutati ritmi sempre più intensi e stressanti della vita quotidiana: il nesso causa-effetto-cura che ne deriva non dovrebbe esser lasciato alla discrezionalità del consumatore ma essere sempre guidato ed autorizzato (anche in tema di posologia) dal servizio sanitario, in particolare dal medico di base con cui abbiamo un contatto più frequente di quello ospedaliero o specialistico. Insomma questa deriva del “tanto più, tanto meglio” che applichiamo alla cura di noi stessi produce danni e non sempre cura il male. Il consumo di psicofarmaci aumenta dal 2017 ad oggi con un trend superiore al 2% annuo. Secondo il Rapporto OSMED di AIFA il consumo si assesta sul 44.6% di dosi giornaliere ogni mille abitanti rispetto al 39 del 2014. Né ci può consolare che questo incremento interessi quasi tutta Europa: in 18 Paesi si è passati dalle 30,5 dosi giornaliere/1000 del 2000 alle 75,3/1000 del 2020. Il fenomeno è globale, direi pervasivo nei Paesi ad alto tasso di industrializzazione, che esprimono tutti i mali della globalizzazione, le caratteristiche della società dei consumi (annesse le loro crisi economico finanziarie), e tutto il coté negativo delle frizioni legate alla sostenibilità ambientale e climatica, ai ritmi di vita logoranti e iperconnessi.

Insomma, viviamo una stagione in cui siamo vincolati al consumo esponenziale di medicamenti chimici che assimiliamo per autoregolamentarci e nello stesso tempo siamo sovraesposti ai condizionamenti e agli algoritmi della tecnologica che esprime un’azione spesso logorante e costrittiva nella massiva digitalizzazione che sta radicalmente cambiando il nostro modo di vivere.

Credo che i due fenomeni – uno interno e l’altro esterno – vadano studiati insieme per affrontare cambiamenti che spesso non siamo in grado di governare da soli.

Per semplificare e concludere il cervello all’ammasso lo possiamo portare con le droghe sintetiche o imbottendoci di mix micidiali di pastiglie oppure con l’affidamento totale alle dinamiche mostruose e devastanti dei social che portano all’imbarbarimento collettivo: in mezzo ci sta l’uomo e non dobbiamo permettere che rimanga stritolato in questa delirante alienazione della propria identità.

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Sat, 03 Feb 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Politica estera e polemiche di routine]]> Ci interroghiamo su quanto conti la politica estera nel raccogliere il consenso di un paese (anche di quello elettorale a cui tanto si guarda in questi mesi). La domanda sorge spontanea nel momento in cui la premier Meloni ha insistito molto su quest’ambito, mentre l’opposizione non la prende adeguatamente in considerazione.

Se dovessimo giudicare dal nostro retroterra storico, concluderemmo che l’opinione pubblica italiana non è mai stata particolarmente attratta dai temi della politica internazionale. Sebbene da qualche decennio i giornali abbiano ampliato gli spazi di analisi per quel che accade nel mondo (prima l’attenzione a questi aspetti era assai più limitata), nel complesso non si può dire che il modo di approcciare le tematiche di politica estera vada oltre qualche ripetizione di slogan e pregiudizi che ciascuna delle parti in campo ha elaborato nella lunga vicenda della sua propaganda politica.

L’eccezione è data dalle figure che guadagnano uno spazio di governo dopo momenti di crisi o anche solo di sbandamento. De Gasperi dimostrò una notevole capacità di cogliere l’importanza delle relazioni internazionali (ma l’aveva sempre fatto anche quando era suddito dell’impero asburgico), ma anche Fanfani e Craxi si impegnarono su quei terreni. Lo stesso fece, pur in modo più che pasticciato, Berlusconi. Draghi è una eccezione, perché non era un politico alla ricerca di consenso. Qui ovviamente non prendiamo in considerazione i doveri di routine dei presidenti del Consiglio e ancor meno dei ministri degli Esteri, i quali per dovere d’ufficio non possono tenersi lontani da quelle problematiche. Ci riferiamo alla scelta di voler marcare una presenza giocando un ruolo in momenti molto significativi per la gestione della politica estera del nostro paese.

Giorgia Meloni ha puntato su questa carta in modo deciso. Lo si è visto sia nelle scelte relative alla questione della guerra russo-ucraina, sia nella sua attività a livello di Consiglio Europeo. Adesso lo vediamo decisamente nella sua gestione del cosiddetto “piano Mattei”, cioè nella proposizione di un terreno di confronto e di accordo con la realtà africana, che per metà è una polveriera e per metà una miniera di opportunità di investimento sul futuro.

Decidere da subito quanto questa intrapresa sarà di successo sarebbe sbagliato: processi di questo tipo hanno bisogno di tempo e devono misurarsi con contesti e con circostanze che non sappiamo quanto saranno per così dire collaborative. Tanto per dire: non sappiamo se i paesi europei più coinvolti come presenza in Africa, a cominciare dalla Francia, accetteranno di riconoscere all’Italia il ruolo che le spetterebbe per l’attivismo attuale; ancor meno sappiamo come reagiranno all’iniziativa italiana la Russia, la Cina, ma anche la Turchia e alcuni paesi arabi che stanno investendo molto in Africa.

Qui però vogliamo considerare se la politica internazionale possa servire a Meloni per consolidare e magari allargare il perimetro del suo consenso anche elettorale. La faccenda è ambigua. Da un lato sicuramente in coloro che appoggiano la attuale premier il poterla considerare uno “statista” è un elemento di conferma della loro scelta di campo. Dal lato opposto la gran parte dell’opinione pubblica continua ad essere disinteressata a quanto accade nello scacchiere internazionale. Eccetto, si capisce, per le scelte in senso lato ideologiche: ma si tratta di pre-giudizi che non servono a spostare consensi perché ciascuno resta sulle sue posizioni di partenza.

Detto questo stupisce che le opposizioni non comprendano che la loro sostanziale assenza dal campo delle relazioni internazionali le indebolisce molto: non per il consenso allargato, dove per mantenerlo basta agitare un po’ di frasi fatte e di slogan predigeriti, ma per il consenso di una parte significativa dei ceti dirigenti del paese. Questi sono ormai internazionalizzati di fatto perché vivono in un sistema di relazioni e di scambi che vanno molto al di là della dimensione nazionale e di conseguenza comprendono che senza una presenza forte in politica estera la nostra collocazione nel mondo si indebolisce.

È comprensibile che la posizione delle opposizioni, o almeno quella dei loro esponenti che sanno cosa sia la politica internazionale (pochini in verità), sia difficile: se mostrano di apprezzare gli sforzi del governo pur criticandoli, rafforzano l’avversario; se si mettono a fare quelli a cui non va mai bene niente finiscono nel ridicolo. Tuttavia non è sensato pensare di ignorare queste problematiche puntando solo sulle ormai logore ritualità movimentiste: sit-in contro la RAI (Conte, che è furbo, ha capito subito che per la gente la lottizzazione non è una prerogativa della destra), piagnistei sulla presunta manomissione della democrazia costituzionale, sostegno a un po’ di cause propagandistiche tipo una espansione di cosiddetti diritti civili o l’invocazione di riforme radicali nel mercato del lavoro.

Non che in ognuna di queste e di altre questioni-bandiera non ci siano elementi di verità, ma non si possono ridurre a slogan slegando tutto dal rapporto con la turbolenta realtà internazionale in cui ci troviamo coinvolti. Se non c’è una gran cultura diffusa in materia di valutazione delle relazioni internazionali, esiste pur sempre la sensazione generale che lì ci sono questioni dirimenti che sarà necessario affrontare di petto.

Lasciare che ciò porti ad auspicare il leader cosiddetto forte a cui demandare questa partita non è una buona soluzione. Ma perché ciò non accada sarebbe necessario avere la presenza di una classe politica collettivamente in grado di prendere in mano i problemi e di discuterne con competenza.

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Wed, 31 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Diritto allo studio e valorizzazione del merito coesistono in un sistema scolastico inclusivo]]> La crescita delle moderne democrazie, iniziata nel periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale si è accompagnata all’evoluzione dei sistemi scolastici nazionali: già allora c’era l’esigenza di conservare la remota eredità ricevuta dalla tradizione e da essa partire per aprirsi all’innovazione e alla necessità di restare agganciati alle dinamiche di una società in rapida e profonda trasformazione. L’alfabetizzazione di massa fu per tutti il primo postulato da assolvere: essa conteneva un’urgenza quantitativa, di estensione degli apprendimenti strumentali del leggere, dello scrivere e del far di conto e una prospettiva qualitativa, di affinamento dei saperi, di correlazione tra istruzione e mondo del lavoro, tra educazione e crescita della persona nella sua dimensione identitaria e relazionale. Questa deriva la possiamo cogliere come processo di modernizzazione trasversale ai sistemi scolastici dei Paesi usciti dal conflitto bellico, pur tenendo conto di condizioni di differenziato, potenziale sviluppo. La scuola era un’istituzione da definire in modo funzionale alla crescita economica tumultuosa, al traguardo di un recuperato ed esteso benessere: era lo zoccolo duro del progresso civile che riguardava ogni singolo soggetto e l’intero corpo sociale. Fu per tutti un incedere laborioso ma pervaso da fermenti e aneliti di libertà e di emancipazione, l’osservatorio ideale per guardare al futuro partendo dalla cultura, cioè il contesto di maggiori potenzialità affinché il graduale raggiungimento dei livelli più elevati di studio fosse la gratificazione di un impegno personale soddisfatto e un mattone portato alla costruzione del bene comune, nell’interesse della comunità. Implicitamente il tema del diritto allo studio sancito dall’art. 34 della Costituzione prendeva sostanza e consapevolezza, come passaggio obbligato per realizzare e ottimizzare le potenzialità di ciascuno, in modo che nessuno fosse escluso dalla conoscenza e dall’apprendimento come fattori di crescita e realizzazione, al punto da rendere obbligatorio l’iniziale curricolo di studi di otto anni in modo gratuito e aperto a tutti i ceti sociali. In quelle parole usate dai padri costituenti stava l’intuizione dell’istruzione come ascensore sociale: termine oggi usato di converso per significare nuove difficoltà ad utilizzare la scolarizzazione come motore per salire i piani sociali più alti. Inizialmente garantire il diritto allo studio si traduceva nell’offrire uguali opportunità di accesso per tutti, si comprese poi che questo non era sufficiente perché era necessario accompagnare ciascun alunno lungo il percorso scolastico per garantire uguali opportunità di riuscita. Abbandono scolastico, ripetenze, dispersione scolastica, ineguali condizioni sociali di provenienza vanificavano come non esaustiva l’uguaglianza delle condizioni di partenza per tutti: troppe difficoltà si frapponevano strada facendo. Negli anni settanta questo tema fu davvero cruciale con la consapevolezza che era il curricolo scolastico (nei programmi, nei metodi, degli interventi di sussidiarietà) che doveva modularsi alle esigenze e alle diverse potenzialità di ciascun alunno, non viceversa. Concetti come l’individualizzazione dell’insegnamento, la flessibilità didattica dei contesti di accoglienza, l’inserimento e poi l’integrazione degli alunni con disabilità (affinchè non fossero esclusi dalla scolarizzazione) ampliatosi poi nel grande alveo dei bisogni educativi speciali derivanti dai disturbi specifici di apprendimento, hanno via via reso la scuola un ambito istituzionale ed umano di accoglienza e non di esclusione. La legge 517/1977 – ne cito una sola – fu un monumento al diritto allo studio, tuttora ineguagliata quanto a potenza di significati, visione olistica, innovazione didattica. Ed è pur vero che questa deriva, nel suo ampliarsi e confondersi con la semplificazione culturale, aveva introdotto una certa demagogica tendenza a facilitare, abbassando piani ed altezze della cultura. Il dibattito sulla valutazione, la criminalizzazione dei voti, l’omologazione dei giudizi su clichè stereotipati e indulgenti, la distorsione del concetto di diritto che portava ben presto al ‘tutto è dovuto’, (ricordo che i ricorsi al TAR sulle bocciature venivano largamente vinti perché il giudice amministrativo si orientava a considerare non completi o esaustivi i tentativi esperiti della scuola a percorrere processi di marcata individualizzazione nei metodi di insegnamento) introdussero una mentalità prevalente rispetto al dovere di applicarsi nello studio con abnegazione e impegno.

Molto del prestigio sociale che scuola e docenti hanno perduto strada facendo e che ha portato a parossismi inaccettabili (tanto da far dire a più di uno che sarebbe meglio che i genitori si impicciassero meno nelle competenze professionali degli insegnanti) è dovuto ad un clima rivendicativo nuovo che ha frainteso il concetto di diritto allo studio e lo ha trasformato in pretesa delle promozioni automatiche, all’uso dei social come strumento di controllo del lavoro scolastico, fino al linciaggio di insegnanti e dirigenti scolastici e si tratta del venir meno del rispetto dovuto alle persone e alle istituzioni, più o meno come sta accadendo negli ospedali per le professioni sanitarie. L’idea dell’uno vale l’altro e l’omologazione della valutazione dei risultati hanno negli ultimi anni portato ad un appiattimento culturale e ad un impoverimento formativo che non sono neanche lontani parenti del diritto allo studio sancito dalla Costituzione e legittimato dalla normativa applicativa. È accaduto a poco a poco che le eccellenze, le qualità, le doti e i talenti diventassero peccati di lesa maestà verso la cd. “scuola democratica” mentre il livellamento e l’omologazione verso il basso finissero per tarpare le ali dell’intelligenza, della creatività, dello zelo dei capaci e meritevoli. Questo spiega, ma solo in parte, perché reattivamente si sia cominciato a parlare di ‘merito’: lo ha fatto per se stessa la politica ma in modo distorto, senza criteri oggettivi, e la tendenza si è estesa ai pubblici servizi di cui la scuola è parte esponenziale. Il fenomeno del brain drain – la fuga dei cervelli all’estero ha riguardato sia i livelli di qualità formativa che gli sbocchi occupazionali: dove il merito viene conculcato in un limbo sociale in cui è difficile rintracciarlo. ‘Merito’ non è solo dote intellettuale ma reca con sé una valenza etica perché lo studio richiede impegno, applicazione e sacrificio per conseguire competenze nell’organizzare il pensiero, la capacità di esprimersi e farsi capire, il fare e il saper fare. “I capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. In questo passaggio dell’art 34 della Costituzione sta la sintesi del diritto allo studio in una scuola aperta a tutti e il compito che lo Stato deve assumere per valorizzare le eccellenze: forse per troppo tempo ci si è concentrati sulla prima parte dell’enunciato dimenticando che la valorizzazione dei talenti ne è il completamento.

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Sat, 27 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il mito della politica radicalizzata]]> Sarà per la battaglia elettorale ormai avviata a tutta forza, sarà per l’avvento al potere di nuove generazioni politiche allevate più al movimentismo che alla ricerca di soluzioni da proporre e governare, sta di fatto che ogni giorno che passa cresce la radicalizzazione della comunicazione di partito.

Scriviamo della comunicazione e non necessariamente della politica in sé, perché abbiamo l’impressione che siamo di fronte più ad un universo retorico che non ad un contesto in cui si faccia azione di governo, vuoi come maggioranza, vuoi come opposizione. Il messaggio che si cerca di far passare per tenere compatte le proprie schiere è che siamo ormai in una lotta finale fra il bene e il male e dunque non c’è spazio se non per un confronto che non ammette punti di sintesi e di incontro.

Per la verità, accanto a questo teatro politico c’è ancora nei meandri dei contatti più o meno riservati qualche spazio in cui si cerca di uscire dalle sceneggiate da talk show (per inciso: vi siete accorti che anche quelle sedi diventano sempre più palcoscenici per duelli senza alcun interesse a dare agli spettatori strumenti per valutazioni equilibrate?). Non stupisce dunque che la grande attesa dei media non sia per conoscere quali proposte avanzano i diversi partiti e quali azioni concrete sono in grado di mettere in campo, bensì sia quella di vedere il grande duello televisivo fra Schlein e Meloni, dove ciascuna reciterà una parte che ha già sostenuto in numerose occasioni. Perciò non c’è un particolare interesse per scoprire se proporranno qualche misura effettivamente in grado di affrontare qualche collo di bottiglia che indebolisce il nostro sistema, ma una forte aspettativa per vedere quanto e come ciascuna sarà in grado di mettere in difficoltà la narrazione dell’altra.

In questo contesto non ha dato segnali di novità il seminario dei deputati PD che si è tenuto in un hotel di Gubbio. L’iniziativa è stata così mal organizzata da divenire oggetto di frizzi e lazzi praticamente su tutta la stampa, inclusa quella simpatizzante: scarsissimo rilievo hanno avuto gli interventi degli esperti, nulla si è visto e saputo del contributo dei parlamentari. Giusto alla fine è arrivata la segretaria, che dopo aver fatto sapere che il giorno prima era andata al cinema (ma roba d’essai, mica occasione di svago) ha sciorinato, leggendo il canovaccio sul suo tablet, una serie di banalità condite da qualche spiazzante alzata d’ingegno.

Essendo noi in età anziana e abituati per mestiere a leggere i discorsi dei Moro, Togliatti, Fanfani, ma anche Malagodi e simili (e lasciamo da parte le grandi stature come De Gasperi, o Dossetti, o Einaudi), qualche sgomento ce l’abbiamo di fronte ad interventi che come quello dell’on. Schlein in un momento in cui il mondo si trova a fronteggiare sconvolgimenti notevoli, in cui l’Europa non riesce ad esercitare un ruolo di peso, non riesce ad affrontare in maniera significativa l’analisi di questa fase storica per recitare un po’ di formulette e fare battute da avanspettacolo sugli scivoloni dei suoi avversari.

I quali peraltro, sia detto con chiarezza, non è che siano capaci di offrire l’immagine di una classe dirigente all’altezza dei tempi. Non è con il facile qualunquismo sulle città a 30 all’ora, né con la battaglia per spartirsi le poltrone disponibili (non solo quelle politiche, vanno bene tutte), né con le litanie sulla legittimità di sostituire l’occupazione del potere esercitata da quelli di prima con una totalmente appannaggio della nuova maggioranza, che convinceranno un’opinione pubblica spaesata a considerare il coacervo della destra-centro come adatto a gestire in modo nuovo le asperità a cui stiamo andando incontro.

L’alzare il livello degli scontri verbali, il brandire quelle che si ritengono essere le mitologie storiche che legittimerebbero le schiere contrapposte, non riesce a far rivivere il ruolo portante dei partiti nella vita politica. Non a caso in questo contesto cresce il peso e il ruolo del governo, così come è testimoniato dalla tenuta dei consensi nei confronti di Giorgia Meloni (consensi che superano anche quelli per il suo partito). È lei che per il ruolo che ricopre può parlare di grandi questioni, può agire nei contesti importanti della scena internazionale, può tessere rapporti e relazioni che esulino dalla gestione della politica politicante. Ovviamente non è che da questa si tenga lontana, né che se ne disinteressi: anzi dovendo per tradizione e storia passata occuparsene e non avendo tutto il tempo necessario per farlo, deve affidarsi ai suoi pretoriani, gente quasi sempre poco adatta per compiti delicati.

Tuttavia proprio il clima di esasperata radicalizzazione che si sta imponendo al quadro politico impedisce alla premier di selezionare i collaboratori, di allargare la cerchia dei riferimenti, perché si è in un contesto in cui non è possibile rischiare di non contare sui vecchi compagni di avventura. Del resto non è che la situazione sia molto diversa per la Schlein, salvo il fatto che essendo frutto di un colpo di mano lei di “vecchi compagni” non ne ha, sicché si muove con quelli che, magari per ragioni diverse, hanno scelto poco tempo fa di correre la sua stessa avventura.

Fra le più qualificate e più consapevoli classi dirigenti del paese, tanto politiche, quanto sociali e culturali, serpeggia (per dirla con un termine riduttivo) una crescente preoccupazione per un clima e un contesto che non si riesce a considerare all’altezza delle sfide che ci troviamo davanti e di quelle che sono prevedibili già nel breve periodo. Più volte capita di sentir dire che passato il tornante delle elezioni europee la situazione andrà stabilizzata tanto a destra quanto a sinistra. Se e come si potrà concretizzare questo cambio di scenario sarà tutto da vedere.

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Wed, 24 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Per un governo del Primo Ministro: una riforma costituzionale mirata]]> Da oltre quaranta anni si discute in Italia sulla necessità di una riforma costituzionale che renda più stabile ed efficace l’azione dell’esecutivo. Si tratta di una discussione che non ha portato ad alcun risultato. Nel frattempo, però, alcune modifiche costituzionali che sono state approvate hanno decisamente peggiorato la situazione. Mi riferisco alla sciagurata riforma del titolo V che, nel 2001, ha aumentato i poteri delle regioni, ha diminuito i controlli sul loro operato, ha introdotto la possibilità di ulteriori passaggi di competenze (il cosiddetto regionalismo differenziato) senza prevedere una clausola di supremazia nazionale. In sostanza, una modifica costituzionale che ha fortemente indebolito il sistema paese in una fase in cui, per meglio fronteggiare la globalizzazione, era necessario rafforzarlo. Non meno scriteriata è stata un’altra modifica costituzionale, approvata nel 2021, che ha imposto un taglio lineare dei parlamentari delle due camere. Una misura che non ha migliorato il rendimento delle istituzioni, ma è, invece, animata da una intenzione punitiva e vendicativa nei confronti della classe politica.

Rispetto a tale poco confortante panorama l’annuncio che il governo Meloni avrebbe promosso una riforma costituzionale volta ad accrescere i poteri del presidente del consiglio è parsa, a primo acchito, una buona notizia. Tuttavia, un esame del progetto di riforma ha presto dissipato questa speranza. Il progetto non aumenta i poteri del presidente del consiglio, non crea stabilità e, infine, altera l’equilibrio tra le istituzioni. L’elezione diretta, infatti, dà al presidente del consiglio una legittimazione più forte ma non ne accresce i poteri (attivazione della procedura scioglimento delle camere, revoca dei ministri) consentendogli di governare e dirigere la sua maggioranza parlamentare. Peraltro, riguardo alla legge elettorale, la previsione di un premio di maggioranza del 55%, da assegnare ai candidati e alle liste collegate al presidente del consiglio, data la forte frammentazione del sistema politico, rischia di risultare eccessiva e quindi sanzionabile dalla Corte costituzionale. Inoltre, la cosiddetta norma antiribaltone, che consente la sostituzione del presidente del consiglio eletto direttamente con un altro parlamentare della stessa coalizione, crea un forte incentivo al logoramento e alla destabilizzazione del presidente del consiglio eletto.  Infine, la elezione diretta del presidente del consiglio ridurrebbe l’autorevolezza e le prerogative di una figura di garanzia come il Presidente della Repubblica, che gode di una legittimazione diversa.

Pure, se il progetto governativo appare debole e incoerente, l’esigenza di aumentare la durata e l’efficienza dei governi resta un obiettivo condivisibile ed auspicabile. Per queste ragioni un gruppo costituzionalisti e di studiosi di sistemi politici (fra cui ricordiamo Angelo Panebianco, Giuseppe De Vergottini, Antonio Polito, Franco De Benedetti, Gaetano Quagliariello) ha messo a punto una proposta di governo del Primo ministro che conviene illustrare nei suoi snodi essenziali. Il progetto non prevede l’elezione diretta, bensì l’indicazione sulle schede elettorali del nome del candidato alla carica di Primo ministro. In questo modo, anche senza una elezione formale, gli elettori darebbero comunque una indicazione precisa sull’indirizzo politico che preferiscono. Sulla legge elettorale il progetto si limita ad indicare che essa dovrebbe essere di tipo maggioritario senza prevedere un premio di maggioranza, una scelta quest’ultima che, come l’esperienza insegna, ha dato in passato un potere di coalizione eccessivo a piccole formazioni politiche, alimentando la litigiosità all’interno della maggioranza. Soprattutto, poi, la proposta prevede un ragionato e ragionevole aumento dei poteri del Primo ministro, che si articola in tre punti essenziali. Il Primo ministro deve avere la fiducia delle due camere in seduta comune; può proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e può, in certi casi, attivare il potere di scioglimento delle camere. In tale quadro normativo, anche la modifica terminologica che denomina il capo del governo Primo ministro, e non più presidente del consiglio, non è un espediente semantico ma rimanda a un effettivo rafforzamento dei poteri di dissuasione e di indirizzo politico affidati al responsabile del governo.

Lo spirito con cui è stato messo a punto questo progetto è uno spirito bipartisan, anche perché le modifiche proposte sono riprese da progetti presentati in precedenti legislature da parlamentari appartenenti tanto al centro destra che al centro sinistra. Si tratta di una riforma mirata che non stravolge la Costituzione ma si concentra su di un unico punto nevralgico, quello della forma di governo. C’è da sperare che possa essere approvata, per sanare finalmente l’anomalia tutta italiana della instabilità governativa.

 

 

 

 

* Ordinario di storia delle dottrine politiche - Università di Napoli

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Wed, 24 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Docenti fragili e smart working, manca la volontà politica di applicare la direttiva Zangrillo]]> La storiella del mugnaio di Potsdam che- stanco delle angherie e dei soprusi di un potente barone – si domandava… “Ma ci sarà pure un giudice a Berlino”? la trovo calzante per spiegare lo stato d’animo dei docenti fragili del pubblico impiego che aspirano al rinnovo dello smart working. Anche loro si chiedono se ci sia un giudice a Roma -o altrove nel Paese -che in qualche modo ripristini la legalità e il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini in tema di tutela della salute. E qui per “giudice” si intende estensivamente una figura istituzionale che vada oltre il ruolo del magistrato, qualcuno che dipani risolutivamente il bandolo di una matassa ingarbugliata, che nessuno si prende la briga di districare. Come è noto la legge di bilancio ha concesso la proroga di questa previgente tutela ai lavoratori fragili del privato, negandola a quelli della pubblica amministrazione. Come è altrettanto noto la Direttiva del Ministro Paolo Zangrillo del 29/12/2023 ha impartito disposizioni affinché – a determinate condizioni – il lavoro agile venga concesso con un accordo individuale stipulato con il dirigente dell’ufficio di appartenenza. E – infine – come è tristemente e paradossalmente arcinoto – pare che ai docenti della scuola questo provvedimento “riparatore” non possa essere concesso in quanto oneroso, a motivo della nomina di un supplente al posto del fragile che lavora da remoto. Alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie molti insegnanti che fino al 31/12/2023 beneficiavano di questa tutela si sono trovati di fronte ad un dilemma, vista diffusione dei contagi comunitari da Covid: rientrare a scuola con il rischio di ammalarsi o restare a casa attingendo (fin che dura) al congedo per salute contrattuale? Risulta che molti abbiano fatto domanda di applicazione della Direttiva Zangrillo al proprio Dirigente Scolastico ma – in assenza di ulteriori disposizioni applicative della citata Direttiva Zangrillo – si sono visti rispondere “picche” con questa precisa motivazione, ‘attinta’ dalla direttiva medesima: “"Sarà cura dei vertici di ogni singola amministrazione di adeguare tempestivamente le proprie disposizioni interne per rendere concreta e immediatamente applicata questa direttiva". Allo stato attuale non risulta che alcun Ministero (in questo senso va intesa la dizione “vertice”) o la Presidenza del Consiglio abbiano impartito disposizioni risolutive. D’altra parte non si può chiedere ai Dirigenti scolastici (ma direi a tutti i Dirigenti degli uffici periferici della P.A.) di fare i Cirenei che portano la Croce al Calvario.

Tuttavia in molti fanno lo gnorri: anziché interpellare il Ministro che sta al vertice della propria Amministrazione chiedono pareri ad uffici intermedi, specie quelli “legali” i quali a loro volta non sanno che pesci pigliare. Siamo dunque in questa paradossale (e ridicola, se non fosse che riguarda gente che è stata certificata “malata fragile” dal medico competente e la cui patologia è inclusa nel D.M. Salute del 4/2/2022) situazione: non potendo considerare la Direttiva Zangrillo una burla, una enfatica via per uscire dal pantano legislativo in cui ci ha portato il Parlamento facendo figli e figliastri e approvando una legge di bilancio che applica due pesi e due misure per i lavoratori fragili del privato e del pubblico, nessuno assume una iniziativa riparativa e risolutiva che ripristini il principio dell’equità e della giustizia sociale. Ci sono state – è vero – prese di posizione delle Associazioni – in particolare la FLP e delle USB dei lavoratori, alcune lettere ai giornali da parte di gente malata e disperata ma tutto si sta perdendo nel limbo dell’indeterminato: a chi spetta decidere? Ha ancora valore la Direttiva di un Ministro che presiede agli uffici della Pubblica Amministrazione? Questa situazione ingiusta, protratta oltre misura, lasciata decantare senza un’idea, una proposta, un provvedimento ha il sapore amaro della beffa: si attende forse l’iniziativa – davvero – di qualche autorità giudiziaria che sollevi il principio della legittimità costituzionale della norma ovvero che attivi un procedimento in capo a chi omette di dar seguito alla Direttiva, magari di fronte ad un caso di grave compromissione dello stato di salute di un lavoratore fragile a cui viene negato il diritto soggettivo ad una tutela preventiva?

Mi domando spesso a cosa serva la politica oltre la retorica istituzionale delle promesse, dei pistolotti e delle ciarle che invadono i TG : se questa politica non sa risolvere i problemi della gente, il gap tra Paese legale e Paese reale si fa sempre più divaricato e insanabile.

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Sat, 20 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Una politica senza memoria]]> Mentre le crisi nel mondo diventano sempre più incombenti (dalla guerra fra Israele e Hamas con tutti i vari coinvolgimenti, alla situazione dell’Ucraina dove quel paese rischia di non avere più gli strumenti per contenere l’espansionismo russo), la politica italiana è ingessata su questioni veramente di poco conto: come spartirsi le candidature (a destra come a sinistra), se avere o no il grande duello Meloni-Schlein, come continuare nel giochino della contrapposizione fra chi si dichiara antifascista e chi evade la domanda giusto per non dare soddisfazione all’avversario.

Quest’ultima rappresentazione di maniera è fatta passare per una questione di mantenimento della memoria. Sarà, ma temiamo che questo paese la memoria corta ce l’abbia strutturalmente e non solo per eventi che peraltro hanno già avuto la loro condanna definitiva dalla storia. Ci colpisce molto di più che non si riesca ad affrontare la memoria delle radici di molti fallimenti con cui dobbiamo fare i conti.

Tanto per dire, non si capisce perché dobbiamo spendere energie in una inchiesta parlamentare sulla gestione dell’epidemia di Covid-19 (o meglio lo capiamo benissimo: solo per farne una zuffa politica senza capo né coda), mentre su una autentica tragedia che incombe sull’equilibrio del nostro paese, come è quella del futuro dell’acciaieria ex Ilva non ci sia nessuna voglia di fare chiarezza. Intendiamoci: non possiamo considerare tale il rimpallarsi di accuse reciproche fra più o meno tutte le forze politiche quando nessuno vuole scavare a fondo sulle ragioni che ci stanno portando al crack di un sistema sia importante per la nostra economia internazionale, sia importante soprattutto per il futuro di migliaia di lavoratori che hanno scarse possibilità di reimpiego.

Non mancano buone analisi della situazione (Giuliano Cazzola su “Adapt” on line, Marco Bentivogli sul “Foglio”), ma di un aperto dibattito su questo tema c’è insufficiente presenza sui media e quasi altrettanto nel mondo politico. La ragione è che l’analisi su come si è arrivati alla situazione attuale chiama in causa troppe responsabilità: l’imperizia di una classe politica tanto di destra come di sinistra nell’affrontare per tempo una situazione che presentava criticità, l’aver lasciato in mano agli umori populisti il dibattito sulla crisi dell’Ilva, la voglia di protagonismo di una magistratura che pensava di farsi dei meriti intervenendo con strumenti inadeguati, speculazioni di sindacati, politici locali e giornalisti vari.

Adesso il risultato è sotto gli occhi di tutti. Una soluzione rabberciata chiamando in campo un grande investitore internazionale che ha furbescamente accettato impegni di difficile attuazione in cambio di favori vari si è rivelata un boomerang, tanto che adesso lo stato italiano dovrebbe pagarlo più o meno profumatamente perché si tolga dai piedi e vada, guarda un po’, a fare in Francia, con sostegno di quel governo, ciò che avrebbe dovuto fare in Italia.

Mettere in fila le molte sciocchezze dette nei lunghi anni di crisi (ricordiamo che qualcuno aveva proposto di riconvertire la fabbrica in un vivaio di frutti di mare …), le intemerate di politici vari, i quali peraltro si sono costruiti così posizioni di potere nei loro partiti, le soluzioni fantasiose elaborate da gente che non aveva alcuna idea di cosa fosse un ciclo produttivo complesso come la produzione dell’acciaio, aiuterebbe a capire cosa si deve emarginare dal nostro modo di fare politica.

È comprensibile che questo in definitiva non piaccia a nessuno dei partiti e delle varie istituzioni che sono implicate in questa vicenda, perché porterebbe a constatare che il difetto che ha accomunato tutti è una grande mancanza di cultura politica, amministrativa, giuridica. Tutto è stato sacrificato all’imperativo di cavalcare i vari populismi, ma se lo si ammettesse si sarebbe costretti se non proprio a lasciare da parte la loro continua riproposizione, almeno a limitarla in maniera significativa.

Il problema naturalmente è che come ci si è comportati nella crisi dell’Ilva si è fatto in decine di altri casi: la gestione delle fragilità del nostro territorio, pagate a caro prezzo con alluvioni e terremoti; la situazione della sanità pubblica che non riesce più ad erogare un servizio veramente universale per cui i deboli finiscono privi di tutele; il sistema dell’amministrazione pubblica costantemente a rischio di infiltrazioni corruttive senza che il tema si affronti lasciando da parte le illusioni del giustizialismo senza regole che si è già dimostrato inefficace.

La politica italiana ha urgente bisogno di produrre una revisione del funzionamento delle numerose articolazioni dell’intervento pubblico, sia in termini di regolamentazione efficace, sia in termini di revisione dei modi di intervento sin qui usati. Se non si metterà mano a quest’opera si finirà per incentivare due fenomeni piuttosto pericolosi. Il primo è l’illusione che la soluzione sia nell’avocare la gestione dell’intervento pubblico al localismo (regionale e municipale), con qualche scarso vantaggio per chi è messo meglio, con un grande disastro per chi, per le ragioni più disparate, non ha capacità sufficienti per farsi carico della disintegrazione del sistema nazionale. Sta entrando in una fase ulteriore il dibattito sulle cosiddette autonomie differenziate e sarebbe bene tenerne conto.

Il secondo fenomeno riguarda la crescita impetuosa dell’astensionismo, che non è solo un banale fenomeno elettorale, ma che è il generalizzarsi del rifiuto di “occuparsi di politica” convinti che tanto sia tempo perso. Inutile sbandierare memorie anti dittatoriali, se poi non si capisce che l’espandersi della fuga dalla partecipazione alla vita politica da parte dei cittadini lascia aperta la strada all’affermarsi di un autoritarismo che può prendere forme diverse, ma che comunque dalla democrazia ci allontanerà.

Le memorie sulla concretezza delle nostre debolezze, sulle loro radici, debbono spingerci ad affrontare la crisi che stiamo vivendo, senza pensare che lo sventolio di qualche bandierina possa farci uscire dalle difficoltà di una fase di grandi trasformazioni.

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Wed, 17 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Le iscrizioni, primo passo per organizzare il prossimo anno scolastico]]> Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha diramato – con circolare 40055 del 12/12/2023 – le disposizioni relative alla complessa operazione delle iscrizioni degli alunni in vista del prossimo anno scolastico 2024/25 e lo ha fatto con largo anticipo,  in modo davvero egregio e con la necessaria completezza di indicazioni affinchè scuole e famiglie – che sono in buona sostanza i contraenti di una sorta di ‘negozio giuridico’ che chiama in causa diritti e doveri di entrambe le parti – siano messe in condizione di formalizzare un atto amministrativo caratterizzato da estrema precisione nel procedimento di regolarizzazione delle operazioni utili ad avere – nel periodo che va dal 18 gennaio al 10 febbraio 2024 – il quadro degli alunni iscritti alle scuole di ogni ordine e grado. Ciò è propedeutico alla formazione delle classi e alla definizione degli organici dei docenti nell’a.s. prossimo venturo. Dal documento uscito da Viale Trastevere si evince la cura dei dettagli con cui il Ministro Valditara e il Direttore Generale Fabrizio Manca, che lo ha firmato, hanno inteso emanare disposizioni chiare ed orientate alla massima trasparenza, tenendo conto del fatto che la richiesta di iscrivere il proprio figlio a scuola dovrà essere redatta dalle famiglie in modalità telematica, con alcune eccezioni che riguardano ad es. le scuole dell’infanzia e quelle della Valle d’Aosta e delle Province Autonome di Trento e di Bolzano, oltre ad una serie di classi intermedie dettagliatamente elencate, agli alunni in fase preadottiva, ai corsi di istruzione per adulti e ad altre fattispecie previste. I genitori o gli esercenti la responsabilità genitoriale per effettuare l’iscrizione on line: − individueranno la scuola d’interesse tramite il servizio “Scuola in Chiaro” presente sulla piattaforma Unica (https://unica.istruzione.gov.it) aperta quest’anno. Per consentire una scelta consapevole della scuola, i genitori e gli esercenti la responsabilità genitoriale potranno consultare, all’interno del servizio “Scuola in chiaro”, il Rapporto di Autovalutazione (RAV), il Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF) e la Rendicontazione sociale. − accedendo all’area riservata della Piattaforma Unica (https://unica.istruzione.gov.it/it/orientamento/iscrizioni) utilizzando le credenziali SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), CIE (Carta di identità elettronica), CNS (Carta Nazionale dei Servizi) o eIDAS (electronic IDentification Authentication and Signature). L’iscrizione dovrà avvenire in modalità condivisa da entrambi i genitori, fatti salvi eventuali provvedimenti ablativi del Tribunale per i minorenni. Inviata la domanda secondo le modalità indicate nel percorso di iscrizione si attiverà una procedura di raccolta e archiviazione dei dati da parte delle istituzioni scolastiche che dovranno assicurare alle famiglie la necessaria assistenza burocratica, amministrativa e tecnologica. Non tutti sono in possesso di strumenti digitali: nel periodo della DAD si era rilevato che al sud il 70% dei nuclei familiari non possedeva un pc o un tablet. Ormai i rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione, la dematerializzazione delle procedure e la digitalizzazione sempre più estesa (è parte integrante del percorso di transizione previsto dal PNRR) sono esponenzialmente ed intensamente affidati alle tecnologie e regolamentati dal loro uso. La complessità dei diritti e dei doveri in campo deve tener conto peraltro di fattori che integrano l’apparentemente “semplice” atto di iscrizione: fino a qualche anno fa i genitori si recavano presso la segreteria della scuola territorialmente competente o prescelta per indirizzo di studi nelle superiori e la pratica si completava in tempi brevi, fatta salva la composizione conclusiva delle classi. L’obbligo decennale di istruzione va garantito e vigilato, come richiamato dalla recente legge 13/11/2023 n.°159, anche se la circolare contempla la possibilità della cd. “istruzione parentale”. Si fanno sempre più cogenti i diritti e i doveri, come detto, molti sono i corollari che integrano l’atto di iscrizione: dalla scelta se avvalersi o meno della religione cattolica o delle attività alternative, agli alunni (sempre più numerosi) di diversa cittadinanza, ai disabili, a quelli con disturbi specifici di apprendimento ( DSA), agli obblighi vaccinali da assolvere: la scuola diventa sempre più inclusiva e ciò comporta responsabilità più mirate e specifiche, per questo la messa a disposizione del PTOF il giorno antecedente l’apertura delle iscrizioni agevola le famiglie nella conoscenza della scuola a cui indirizzare la domanda.

Come precisato dalla circolare dettagliata del Ministero (26 pagine dove si trova tutto, ma proprio tutto ciò che scuole e famiglie devono sapere) l’iscrizione telematica è generalizzata con le eccezioni poc’anzi evidenziate. Di particolare importanza – per diversi motivi- il fatto che le domande di iscrizione alle scuole dell’infanzia debbano essere redatte in modalità cartacea (utilizzando il modulo allegato alla Circ. Min.) e presentate direttamente alla segreteria dell’istituzione scolastica territorialmente competente. Ciò in quanto – aprendo un percorso scolastico che si svilupperà negli anni – chi riceve i piccoli alunni acquisisce dalle famiglie tutte le informazioni utili in via diretta, sia per la conoscenza dei nuclei familiari, sia per formalizzare il loro primo approccio con la scuola in modo facilitato, pur se completo. La circolare è molto chiara nel prevedere questa specifica fattispecie: nonostante la disposizione sia esplicitata in modo formale si verificano casi in cui essa non viene resa esecutiva dalla scuola stessa. Si ha notizia – ad esempio- di scuole che indirizzano le famiglie sul sito del Comune dove le domande di iscrizione vengono raccolte online e poi restituite agli istituti: può darsi che il Ministero stesso o la Direzione Scol.ca regionale abbiano autorizzato questa procedura che la circolare di cui stiamo trattando esclude in modo inequivocabile. Di fatto è’ un’occasione persa per instaurare una conoscenza diretta delle famiglie di alunni in età così delicata, rimandando in corso d’anno l’esame di casi e situazioni familiari particolari. Sarebbe interessante sapere se il Ministero concede questa deroga e per quale motivo, visto che nella Circolare l’indicazione è di raccogliere le iscrizioni a scuola e in forma cartacea. La formalizzazione del procedimento di iscrizione è un atto giuridico bilaterale che riguarda l’istituto scolastico e le famiglie: se i dati relativi ai bambini e ai nuclei familiari vengono ‘acquisiti’ da soggetti terzi viene meno la titolarità dei dirigenti scolastici al loro esclusivo trattamento: delegatus delegare non potest. La stessa circolare Ministeriale del 12/12/2023 richiama la delicatezza della materia del trattamento dei dati personali, per motivi di privacy e nel rispetto della normativa: “Con riferimento alla predisposizione del modulo di iscrizione, on line o cartaceo ove previsto, le istituzioni scolastiche devono osservare scrupolosamente le disposizioni del Codice in materia di protezione dei dati personali, con particolare riferimento agli articoli 2-sexies e 2- octies e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e, in particolare, gli articoli 9 e 10 relativi al trattamento di particolari categorie di dati personali effettuato nell’ambito delle predette operazioni”. Una deroga a disposizioni così chiare e perentorie, che richiamano la normativa U.E. del Regolamento 679/2016 in teoria non dovrebbe essere ricondotta ad una potestà discrezionale derivante dalla cd. ‘Autonomia scolastica’. Sarebbe importante per tutti- scuole e famiglie in primis – che il Ministero verificasse innanzitutto i motivi per cui l’iscrizione alle scuole dell’infanzia avviene in alcuni casi secondo modalità non contemplate dalla propria circolare. In modo da chiarire se sono ammesse deroghe ovvero per ribadire una modalità univoca da seguire su tutto il territorio nazionale, tenuto anche conto delle competenze del Garante per la protezione dei dati personali, con buona pace di tutti.

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Sat, 13 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[La partita che si giocherà in Europa]]> L’attenzione verso la politica si concentra su aspetti certo non marginali, ma non per questo decisivi: molta eccitazione per il previsto duello televisivo Schlein-Meloni (spettacolo più che altro), conflitto interno alla maggioranza sulle candidature alle regionali in Sardegna (ma qualcosa di non troppo diverso c’è anche a sinistra), polemichette varie su parlamentari pistoleri, manifestazioni neofasciste, inchieste per corruzione. Eppure la questione fondamentale per il nostro futuro si colloca in Europa e su questo, almeno pubblicamente, l’interesse sembra scarso.

La tornata di elezioni per il parlamento della UE che si terrà il 9 giugno è vissuta dalla nostra classe politica come una specie di grande sondaggio certificato: l’obiettivo è testare quanto consenso avrà ciascun partito e magari anche ciascun leader. Della quota di elettorato che non si pronuncia nei sondaggi, circa il 40%, ci si preoccupa poco, nonostante che visto quel che è successo nelle precedenti tornate elettorali ci sia da aspettarsi una quota anche maggiore di astensionismo. Temiamo che in fondo i politici non vogliano impegnarsi più di tanto a risvegliarlo, per la semplice ragione che nessuno sa in quali direzioni si orienterebbe (ovviamente in pubblico ogni partito sostiene che il ritorno in campo degli astenuti farebbe crescere il suo bottino elettorale, ma sono parole al vento).

L’obiettivo di portare a casa il miglior risultato possibile nel “sondaggio certificato” di giugno oscura qualsiasi seria riflessione sulla necessità per il nostro paese di disporre nel parlamento europeo di una rappresentanza qualificata che possa davvero incidere sulla politica. Fra il resto una seria gestione della campagna per le europee ci aiuterebbe non poco ad ottenere poi un commissario di peso nel futuro esecutivo di Bruxelles.

L’ipotesi di candidare come capolista addirittura in tutte le circoscrizioni i vertici dei maggiori partiti è una palese dimostrazione di scarso senso delle istituzioni. Tutti sanno che Meloni, Schlein e altri del genere se eletti non si dimetterebbero dalle loro attuali posizioni per andare a lavorare a Bruxelles/Strasburgo: quello che cercano è mostrare il plebiscito che sono in grado di raccogliere per poi lasciare il posto ad altri. Una pessima legittimazione per poi avere quella presenza nella politica europea che pure, come vedremo, sarà necessaria. Quanto alla scelta delle candidature, per quel che se ne sa per adesso, sono usate per “dare un posto” a personale politico che deve lasciare posizioni nei governi dei comuni e delle regioni o per riconfermare qualche eurodeputato: anche questo non un gran criterio per selezionare capacità di muoversi nel complicato mondo della UE.

Ma perché diciamo che il momento è particolarmente delicato per noi? Non si tratta solo di garantirsi buone possibilità di tutelare i nostri interessi più strettamente di bottega, cosa peraltro da non sottovalutare viste le non poche partite aperte che abbiamo con le autorità della UE (non da ultimo per la faccenda, niente affatto chiusa, del PNRR). Si dovrebbe valutare il prossimo momento di ridefinizione degli equilibri politici ai vertici della UE, cosa che potrebbe davvero, se solo ne avessimo le capacità, consentirci l’inserimento in una posizione realmente di peso nel gruppo di guida dell’Unione.

Come si sa, fino a ieri a dominare era l’asse franco-tedesco attorno a cui si aggregavano tanto gli spagnoli, quanto i cosiddetti paesi frugali del Nord Europa: un raggruppamento che non è stato soprattutto negli ultimi tempi (vedi la vicenda del patto di stabilità) particolarmente attento alle esigenze italiane né disponibile a farci spazio. Ora però tanto in Germania quanto in Francia i governi sono in condizioni di difficoltà.

Il governo Scholz fronteggia una insoddisfazione popolare che proprio in questi giorni è diventata clamorosamente visibile con la rivolta dei contadini, che protestano contro il taglio delle condizioni di favore praticate all’agricoltura (a causa del necessario reperimento di fondi per sostenere politiche pubbliche per le quali non erano più disponibili i fondi previsti a causa di una sentenza della Corte Costituzionale). Si tratta però solo della punta dell’iceberg, perché il grande allarme è la crescita esponenziale della estrema destra della AfD, che per esempio in Turingia sta sfiorando la possibilità di conquistare il governo di quel Land, ma che in gran parte del paese si colloca al 20% e oltre dei consensi.

In Francia il presidente Macron ha dovuto costringere alle dimissioni la sua primo ministro Etienne Borne (il termine “costretta” è stata usata da lei stessa nella sua lettera di dimissioni) travolta dal crescente calo di consensi a cui dall’Eliseo si spera di mettere un freno promuovendo alla guida del governo un “uomo nuovo” di giovane età. Anche qui la crescita della destra non si arresta ed è un segnale preoccupante.

Ora si può pensare che nel futuro equilibrio europeo, il governo tedesco debba cedere alla preminenza dell’opposizione della CDU, così come Macron vede in forse la possibilità di giocare una partita chiave col suo partito liberale “Renew Europe”. In queste condizioni le possibilità di avere un ruolo di rilievo per l’Italia crescono se Meloni riesce da un lato ad abbandonare i vecchi lidi del revanchismo di destra, senza paura che ne approfitti Salvini (che in Europa è un signor nessuno), e dall’altro a stabilire una convivenza civile con una parte cospicua dell’opposizione, perché un paese a livello UE è autorevole se mostra una compattezza larga e trasversale delle sue classi dirigenti.

Sono condizioni non semplici da conseguire se ci si trova intrappolati nella piccola politica politicante che continua a fare da sfondo alle nostre vicende nazionali. Eppure senza un salto di qualità su queste tematiche le nostre classi politiche potranno anche fare un bello spettacolo disputandosi i successi a suon di percentuali di voti, ma resteranno marginali nella nuova fase che andrà ad aprirsi in Europa.

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Wed, 10 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il dogma della scuola digitale 4.0]]> Dopo il Presidente della Consob Giuseppe Vegas (Il Messaggero del 27/8) ora anche il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese (Il Corriere della Sera del 15/12) si cimenta in una riflessione sulle condizioni attuali della scuola italiana. Entrambe le disamine vantano il pregio dell’autorevolezza dei recensori e la loro capacità di cogliere alcune macro evidenze: sono osservazioni fatte dall’alto di ruoli prestigiosi corroborati dal carisma degli editorialisti. Ed in comune esprimono più riserve che apprezzamenti sulle scelte strategiche che caratterizzano il nostro sistema scolastico. Dell’articolo di Vegas ho già scritto (“L’equivoco culturale che sta rovinando l’autonomia scolastica”), vorrei ora soffermarmi sullo scandaglio impietoso e veritiero del Prof. Cassese in merito ad una deriva storicamente consolidata nella politica scolastica italiana degli ultimi decenni: quella delle pletoriche conversioni in ruolo del personale docente precario, una deriva che Cassese rileva essere preponderante rispetto ad altre esigenze della scuola. Scrive Cassese: “Ci si può chiedere: quale interesse viene prima, quello dell’istruzione degli italiani o quello della sistemazione in ruolo degli insegnanti?....   ” Che cosa spinge lo Stato ad assumere: i precari che vogliono entrare in ruolo o il fabbisogno di un’istruzione migliore?”. I risultati prodotti da questa scelta non sono confortanti: a fronte di una spesa per l’istruzione pari al 4,2% del Pil (il dato medio rilevato dall’OCSE è del 5,1%), considerando la sola istruzione secondaria, in Italia abbiamo 11 studenti per docente nel percorso liceale e 9 per docente in quello tecnico-professionale, mentre la media OCSE è rispettivamente di 14 e 15 alunni. Di converso le retribuzioni dei docenti italiani sono le più basse d’Europa, dove sono cresciute dell’1% annuo dal 2015 mentre da noi sono diminuite dell’1,3%. In sostanza il Prof. Cassese si domanda se la priorità sia quella di una periodica infornata in ruolo dei precari considerando come i criteri di selezione non corrispondano ad aspettative di tipo qualitativo. Viene da osservare che in un sistema scolastico che va orientandosi verso la transizione digitale, ciò che comporta una prevalenza valutativa degli alunni esperita sempre più attraverso quiz e test a scelta multipla, risulta persino paradossalmente coerente una speculare selezione del personale docente effettuata in modo minimalista attraverso quiz e lezioni simulate. Non credo sfugga al Prof Cassese come la cd. “scuola di una volta” fosse più selettiva rispetto al criterio del merito e della valutazione delle competenze, pur postulando principi come il diritto allo studio e l’uguaglianza delle opportunità formative. Basta scorrere le decine e decine di pagine della piattaforma Scuola Futura del PNRR per una “scuola 4.0” per capire come la formazione dei docenti e la didattica ad essa correlata secondo gli standard DIG COMP EDU per gli insegnanti e DIG COMP 2.2 per gli alunni sia monopolizzata da metodologie centrate sul digitale, le tecnologie e l’I.A.  Come più volte rimarcato si tratta di una pedagogia ispirata a modelli mutuati dai paesi anglosassoni, nel linguaggio (l’italiano va scomparendo nelle interlocuzioni relazionali, nei comandi delle attività da impostare, negli assetti organizzativi) dove prevalgono le sigle, le formule e gli acronimi secondo una preponderante impostazione meccanicistica con ambizione risolutiva e palingenetica: applicare queste metodiche per ribaltare una concezione meramente trasmissiva e frontale degli insegnamenti/apprendimenti.  Non per niente si ipotizza un ribaltamento concettuale e fattuale: l’alunno (specie nella nostra tradizione pedagogica) è sempre stato al centro del processo educativo ma adesso l’insegnante diventa “guida” o “regista”, si ipotizza un rapporto circolare a livello di formazione/autoformazione, valutazione/autovalutazione e le classi di un tempo diventano ‘flipped class room’ cioè “classi rovesciate”. L’alfabetizzazione digitale impone e consegue l’uso massivo delle tecnologie, i tablet, gli smartphone e i PC sostituiscono libri, penne e quaderni, i video impongono un focus centrato non sulla ricerca ma sull’utilizzo delle informazioni, mentre i test sostituiscono l’esposizione narrativa (sia essa vocale o scritta) rispondendo alle prevalenti domande a scelta multipla predeterminata. L’argomentare viene soppiantato dallo scegliere tra più risposte già scritte. Ora io penso che il Prof. Cassese – mente aperta al nuovo e quindi incline ad occuparsi di tecnologie e I.A. come scelta o deriva scontata e ineludibile- abbia evidenziato nella pletora di docenti malpagati una piaga del nostro sistema scolastico. Sommessamente vorrei che meritasse la stessa considerazione questa dilagante e pervasiva metodologia digitale, spesso acriticamente assunta come la panacea risolutiva dei mali atavici della scuola italiana. Disporremo dunque in futuro di aule attrezzate con sempre più sofisticate tecnologie per conoscere la realtà fattuale e costruire quella aumentata, avremo classi miste, tematiche e ibride, la didattica sarà basata sul game-based learning e sulla gamification, al posto delle penne premeremo dei pulsanti e – applicando l’intera tassonomia di Bloom  (ma si utilizzava già da alcuni decenni)  o avvalendoci del Metaverso avvieremo ad uno ad uno gli alunni e l’intera scolaresca verso l’obiettivo ambizioso del problem solving: in questo consiste la prospettiva meccanicistica di un processo automatizzato di apprendimento che ho criticato, poiché mi pare che si costruiscano a tavolino schemi e procedure che non tengono conto ad esempio della dimensione personologica insita in ogni alunno. Si fa l’analisi ‘logica’ dell’oggetto di studio e delle procedure da applicare ma non si ragiona a sufficienza sull’analisi ‘psicologica’ dell’alunno che deve impararle. Già ho scritto che questa deriva acriticamente assunta addirittura a livello politico come ‘mission’ istituzionale da assolvere (a livello di UE queste direttive che muovono verso la scuola 4.0 di fatto subentrano ai singoli programmi di studio nazionali, l’anglicismo prevalente promuove la conoscenza di una lingua universale ma mette in rapido declino quella nazionale, il criterio di “allineamento” tra tradizione e innovazione – il tener conto della cultura pregressa per inserirvi quella nuova- è più una congettura ipotetica che una strada facilmente percorribile) diventa il dogma pedagogico da assumere e applicare. Senza tener conto che in questo preciso periodo storico Paesi come la Svezia e la Finlandia (che avevano espunto il corsivo a favore della digitazione) stanno abbandonando tablet e smartphone per ritornare ad usare penne, quaderni e libri. Non sono solo i risultati delle valutazioni di PISA o di INVALSI, le ricerche OCSE che dimostrano che la logica dell’et-et anziché quella dell’aut-aut è veramente più inclusiva dal punto di vista culturale. Un remember per il Ministro Valditara che peraltro si è già pronunciato in questo senso. Il vero coraggio non consiste nell’applicare tout-court l’innovazione ma nel contemperarla con una tradizione che fa parte della cultura e della Storia di ogni Paese. Viene anche da chiedersi dove metteremo tutta questa tecnologia che attrezzerà le “open class” e i laboratori informatici del futuro: visto che una gran parte delle scuole consiste in edifici scolastici cadenti, fatiscenti, insicuri e pericolosi. Non era meglio utilizzare i fondi del PNRR per mettere al sicuro le scuole? Si aggiunga infine una notazione molto concreta che sfugge alle analisi degli eminenti intellettuali che non mettono piede in una scuola da quando ci entravano come alunni: da molte parti (dirigenti scolastici, docenti, genitori…) giungono segnali allarmanti, i ragazzini non sanno scrivere sotto dettatura, non sono in grado di redigere la lista della spesa, si arrendono alla quarta riga di un tema e – laddove il corsivo è stato soppresso- non sanno cosa significhi “mettere la propria firma”.

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Sat, 06 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Un 2024 da affrontare ad occhi aperti]]> Il tradizionale discorso di fine anno del Presidente della Repubblica costituisce ormai un’occasione chiave per valutare la pedagogia politica che intende svolgere il Quirinale. Mattarella si attiene a questa consolidata tradizione e lo fa, come è ovvio, con il suo stile e il suo linguaggio. Parla alla gente perché usa parole ben comprensibili e un fraseggio che si può seguire senza fatica in una serata particolare come è quella di San Silvestro. Al tempo stesso manda dei messaggi alle classi dirigenti, che non sono solo quelle politiche e parlamentari, perché è ben consapevole che la formazione dell’opinione pubblica dipende dall’azione del complesso dei media che trasmettono informazioni, riflessioni, e non di rado anche manipolazioni.

È stato la costruzione di un comune sentire ciò che ha fatto da filo conduttore ad un discorso che ha voluto fare perno su due polarità: non tacere sul momento difficile, persino drammatico in cui ci tocca vivere, proclamare con la consapevolezza di questo che la speranza è possibile ed è affidata a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni.

Certamente Mattarella si è fatto carico di presentare un catalogo il più ampio e articolato possibile dei problemi chiave che il paese, ma più in generale il nostro mondo ha davanti a sé. Sarebbe però riduttivo limitare il suo intervento ad una pacata denuncia di quel che non funziona e che non è accettabile: c’è una trama che unisce tutto ed è questa trama che svela il senso profondo del suo discorso.

Una delle chiavi è l’attenzione che viene posta sul ruolo crescente che la violenza esercita nel mondo di oggi. Ci sono certo le guerre, a cominciare da quelle brutali della Russia contro l’Ucraina e di Hamas contro gli israeliani con la conseguente risposta di questi certo non scevra da una violenza vendicativa. Esse comportano il rischio di abituarsi all’orrore e non sfuggiranno al destino storico di generare odi che continueranno anche quando le armi saranno riposte. Ciò graverà sul futuro delle giovani generazioni ed accade vicino al nostro contesto mettendo a nudo violenze e culture malate che sono nel cuore degli uomini e che dunque, aggiungiamo noi, hanno forti capacità di infettare il sistema della convivenza generale.

È a questo punto che il Presidente inserisce un passaggio che reputiamo centrale e portante: la riflessione sulla pace che non può essere ridotta ad oggetto di invocazioni, ma che deve essere costruita con una educazione al rispetto reciproco e rifiutando il culto della conflittualità. Sono concetti che certo si applicano al modo di considerare i conflitti sul piano internazionale, dove va respinta la logica per cui a governare i rapporti fra le nazioni sarebbe una competizione permanente. Altrettanto però Mattarella denuncia la presenza del culto della conflittualità anche nei rapporti all’interno della nostra società. Come la mancanza di rispetto reciproco fra le nazioni produce conflitti e guerre, così la conflittualità impedisce di affrontare i problemi che affliggono il nostro corpo sociale. Essa genera una violenza verbale che sta dilagando nella Rete e che accende i risentimenti, specie nelle periferie, e che disorienta i giovani. Questa è una preoccupazione costante del presidente, che, anche se non ne parla esplicitamente, ha davanti uno scontro di fazioni che, interpretiamo noi perché Mattarella si tiene lontano dalle polemiche, allontana l’impegno positivo dei giovani, impegno di cui invece c’è grande necessità.

Per mostrare che non parla in astratto elenca alcuni temi che preoccupano l’opinione pubblica e che generano tensioni: la questione ambientale, il lavoro povero e sottopagato, la sanità che non riesce a fornire servizi efficienti come testimonia il fenomeno cronico delle infinite liste d’attesa per gli esami diagnostici, i giovani universitari che non trovano alloggi a prezzi ragionevoli. Non ci sono inviti espliciti ai poteri pubblici e dunque alla politica perché si metta mano alla ricerca di soluzioni: l’aveva già fatto in molte altre occasioni, da ultimo nel discorso alle alte cariche dello stato. In chiusura, ma ci torneremo, insisterà sulla necessità di costruire uno spirito capace di riconoscere ciò che ci unisce (e anche questo è un messaggio in bottiglia alle faziosità della vita politica attuale).

Ci sono i diritti che vanno “riconosciuti” e non “concessi”: pochi avranno colto in questo passaggio una citazione implicita di una impostazione che La Pira, Dossetti e Moro ricordarono nel dibattito in assemblea costituente proprio sottolineando la contrapposizione fra lo statalismo a cui si rifaceva da ultimo il fascismo (con illustri precedenti in verità) e lo spirito costituzionale della nuova repubblica.

In conclusione il presidente affronta un tema di grande portata, che ci sembra sia stato un po’ banalizzato in tanti commenti: il passaggio epocale che stiamo affrontando con una tecnologia che cambia il mondo. Non è un mutamento come ce ne sono stati spesso nelle vicende umane, ma una transizione storica radicale come quelle che si sono verificate, specifichiamo noi, per esempio fra il medioevo e l’età moderna. È questo che genera spaesamento e tentazione di sfuggire alla partecipazione al travaglio che affronta la società in trasformazione. Invece bisogna essere partecipi, attivi, senza farsi vincere dalla rassegnazione. Astenendosi dal coinvolgimento nei sistemi elettorali, magnificando la fuga dalla condivisione degli oneri comunitari con l’infedeltà ai doveri fiscali, si mina il diritto al futuro che spetta a tutti, ma in particolare alle giovani generazioni.

Il richiamo al valore della nostra costituzione, che è la base per riconoscere ciò che ci unisce, conclude il messaggio di fine anno del presidente Mattarella, riproponendo non solo la tradizionale triade del costituzionalismo che ci viene dalla Rivoluzione Francese (“Solidarietà, Libertà, eguaglianza”, ma si noti che qui la solidarietà passa dal terzo al primo posto), ma aggiungendovi le due ispirazioni che in questo momento caratterizzano le nostre speranze: “giustizia e pace”.

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Wed, 03 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il partito trasversale populista]]> Comunque vada, anche nel 2024 l'elettorato italiano sarà orientato in buona parte (pressoché maggioritaria) verso i partiti populisti. Il quadro è chiaro, partendo dalle elezioni del settembre 2022: Fratelli d'Italia, 26%, Lega, 8,8%, Movimento 5 Stelle, 15,4% (senza contare che il primo populista sui generis fu Berlusconi e che, almeno fino al 2011, FI poteva definirsi un partito "pre-populista"; gli azzurri, alle politiche, hanno avuto l'8,1%). In totale, i tre partiti populisti italiani (quelli che non a caso hanno votato contro il Mes, il che dice e spiega moltissimo) hanno conseguito un anno e mezzo fa il 50,2% dei voti espressi. Alle europee 2019 la somma era 57,8%, mentre alle politiche del 2018 era 54,4%; alle europee 2014 era stata pari al 31%, mentre alle politiche del 2013 si era attestata sul 31,6%. In sintesi, la prima ondata del populismo come lo conosciamo oggi si ha fra il 2011 e il 2017, con percentuali di poco inferiori al terzo dei voti validi a Lega, M5S e FdI; la seconda parte nel 2018 e arriva ad oggi, con una banda d'oscillazione fra il 50% e il 58%. L'ultimo sondaggio di Pagnoncelli per il "Corriere della Sera" (31 dicembre 2023) dava FdI al 29,3%, la Lega all'8%, il M5s al 17,2%, per un totale del 54,5%: in pratica, a metà fra il 50 e il 58%, in perfetta continuità con i dati di questi anni. Non importa se nel 2013, 2014, 2018 il partito più forte fosse il M5s, poi nel 2019 la Lega e nel 2022 FdI: il blocco variegato dei populisti ha sempre lo stesso peso. È all'interno di quel mondo che si ha la maggiore fluidità elettorale, perché è in direzione di quelle forze politiche che gli italiani delusi dal vecchio "duopolio" Pd-Pdl hanno deciso di orientarsi (passando però di delusione in delusione e cambiando partito, prima di accasarsi dalla Meloni). È interessante, leggendo e rielaborando i dati dell'Ipsos, come si compone l'elettorato populista: fra i tre partiti si osservano differenze di genere che alla fine si riequilibrano, per esempio (gli elettori uomini sono più delle donne per M5S e Lega, mentre avviene l'opposto per FdI) la somma ci restituisce il 54,5% fra gli uomini e il 54,5% fra le donne. Ma ciò non avviene in altri casi. Per condizione economica abbiamo: elevata, complessivo dei tre partiti 45,7%; media, 54,2%; bassa, 69%. Ma FdI è più forte nei ceti più abbienti, la Lega e il M5s fra i più poveri. Per scolarità, invece, i populisti non sfondano fra i più acculturati (come non è difficile intuire, del resto): laureati, 37,5%; diplomati, 53,7%; licenza media o elementare, 61,5%. Per classi d'età: 18-34 anni, 43,9%; 35-49 anni, 59,7%; 55-64 anni, 61,6%; 65 anni e oltre, 50,3%. In pratica, gli elettori più populisti sono nati fra il 1960 e il 1989, mentre i giovani si orientano di più verso il centrosinistra e Azione. Ad ogni buon conto, l'elettorato di FdI è meno giovane (19,1% fra i 18-34enni, 33,3%-33,9% dai 50 anni in su), quello della Lega è concentrato fra i 35 e i 49 anni e quello pentastellato è uniforme fino ai 64 anni ma diminuisce molto fra gli ultrasessantacinquenni. Non è un particolare, infine, che nelle fasce socio-culturali ed economiche nelle quali i populisti hanno più voti (licenza media o elementare, basso reddito) ci sia anche, come "rinforzo" dell'antipolitica, un alto astensionismo (49,4% fra chi ha la licenza elementare o media, 33,3% fra i laureati, 36,4% fra i diplomati; 59,4% fra chi ha redditi bassi, 37,4% medi, 26,2% alti). In sintesi, il partito dello scontento si articola in due grandi raggruppamenti: uno preferisce l'exit, la non partecipazione al voto; l'altro rappresenta la metà degli aventi diritto che vanno alle urne. Il primo è uno scontento che non crede più nella politica, il secondo si affida invece a una politica "diversa" che si definisce "altra" rispetto a quella tradizionale (anche se non è tale nell'occupazione del potere, tuttavia). A destra (FdI, Lega) come a sinistra (sempre che il M5s sia ideologicamente di sinistra e non una federazione di elettorati ex rifondazionisti, ex dipietristi, ex destrorsi, ex moderati delusi dal Pd, ex astensionisti) il partito trasversale populista ha un'offerta per ogni esigenza: ecco perché supera sempre il 50% dei voti, anche se l'etichetta del partito più forte cambia.

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Wed, 03 Jan 2024 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il mistero della preghiera, la forza dell'umiltà]]> Quando chiesi al Cardinale Carlo Maria Martini in che misura la via del silenzio, della meditazione e della preghiera può essere fonte di rivelazione e di incontro con Dio, mi rispose con parole che debbo trascrivere, tanto sono ricche di pathos, accessibili a tutti e umane.

Non dogmatiche ma aperte e universali: le rileggo ogni tanto per trovare una spiegazione all’idea di fraternità e a quella di affidamento, che sono due buone ragioni per dare un senso al transito terreno, a qualunque credo ci si ispiri e persino per i non credenti, quel popolo di Dio che il Cardinal Martini amava in modo particolare e verso il quale prestava attenzione e ascolto.

Francamente se dovessi dire alla fine della mia vita qual è il fondamento razionale della preghiera, non saprei dirlo. Prego perché Gesù ha pregato, prego perché il Signore ci invita alla preghiera, prego perché la preghiera è un mistero che ragionevolmente non sembra spiegabile. La preghiera ci mette nel cuore di Dio, nella sua mente, allarga la dimensione dello spirito. Nella preghiera sincera talvolta sgorgano delle lacrime: queste lacrime sono benedette quanto un battesimo, dobbiamo pregare per ottenere il dono delle lacrime. Una lacrima di pentimento scioglie la durezza di cuore e irriga la pianura desolata della nostra anima.

La via del silenzio è irrinunciabile. Quanto più crescono le responsabilità, tanto più cresce il bisogno di tempi di silenzio.

E d’altra parte la parola è un dono che comprende l’imprevedibilità appassionata di Dio e che ci coglie nella nostra sprovvedutezza. Soltanto così si rivela come parola vivente, che ha da dirci qualcosa di nuovo che non conosciamo ancora, se ci mettiamo di fronte ad essa in reale ascolto”.

Credo che in questa spiegazione che mi fu data stia tutta la grandezza e l’umiltà di un interlocutore di eccezione, un dono di grazia: la pacatezza e i toni miti e rasserenanti di queste parole hanno le sembianze di un’illuminazione disvelatrice, colmano il vuoto di quella inadeguatezza esistenziale di cui siamo inevitabilmente portatori e che riscopriamo ogni volta in cui – come in una sorta di “ricapitolazione di tutte le cose della nostra vita” (come direbbe San Paolo) , ci immedesimiamo nella riflessione e nel raccoglimento.

È questa la Chiesa che amo e che ritrovo oggi nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco: immersi nelle diaspore e nelle fatiche dell’esistenza, sofferenti per tutte i disagi della vita quotidiana ci trovo un valore oggi caduto in disuso: la ‘motivazione’, che sa dare forza ai convincimenti, e stempera i dubbi che ci assalgono nelle relazioni umane. Come scrisse Charles Peguy “la fede che più amo è la speranza”.

Guardare oltre, vedere lontano, provare la folgorazione di un attimo di intensità e raccoglimento.

Così come ripenso spesso a ciò che ebbi la fortuna di ascoltare dal Cardinale Ersilio Tonini, quando trascorsi una giornata con lui nella casa per religiosi di Ravenna.

“Mio papà – come ho detto era un salariato agricolo (un bifolco) – un certo giorno, quando un mio fratello di 17 anni, un muratore ‘magnifico’, aveva deciso di lasciare la famiglia per andare in America a raggiungere una zia che lì aveva fatto dei soldi, ci riunì tutti (5 figli, di cui tre maschietti) e disse: “vostro fratello vuole andare in America per fare un po’ di soldi ma io non ho piacere”.

“Ragazzi, tenetevi bene in mente quello che vi sto dicendo. Ciò che conta nella vita sono tre cose: un pezzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”.

Un contadino, quando morì mio padre, mi raccontava dei tempi di quando dormivano nella stalla: ‘alla sera spegnevamo il lumino alle sei e ci svegliavamo alle quattro che fumava ancora’.

Tutto questo, però, senza mai maledire la fatica o il lavoro: fare il proprio dovere fino in fondo”.

Aveva appeso a fianco alla scrivania un Crocifisso e sopra una grande foto che lo ritraeva con sua madre.

Dopo avermi parlato di filosofia, di Platone, Aristotele, Kant, Hegel conoscendo a menadito i libri che in numero impressionante riempivano due grandi scaffali, aveva riassunto con quelle parole il vero senso della vita: “un tozzo di pane, volersi bene e la coscienza netta”. Mi serve e mi aiuta ripensarle spesso: mi chiedo quanto oggi siano dimenticate e quali siano le conseguenze di questo oblio nelle tassonomie di valori della nostra quotidianità, confusa da parole diverse, opinioni irricevibili, sentimenti divisivi e laceranti.

Dobbiamo fermarci un attimo in questa corsa frenetica verso l’ignoto, recuperare i valori veri della vita.

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Sat, 23 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Bipolarismo? Si fa per dire …]]> L’idea che la politica si fondi su una contrapposizione secca destra/sinistra è una costante nella storia politica europea dall’Ottocento in avanti. La sua incarnazione esemplare doveva essere il confronto fra due partiti come si riteneva fosse avvenuto nel mitico modello inglese del XIX secolo, ma proprio dal secolo successivo anche lì le cose si erano complicate perché era arrivato il partito laburista e il confronto non era più stato rigidamente a due. Si era ripiegato sulla sublimazione del modello statunitense, ma anche questo caso sarebbe un po’ complicato inquadrare rigidamente repubblicani e democratici in uno schematico confronto destra/sinistra.

In Italia, visto che il bipartitismo non è mai esistito se non come qualcosa di “imperfetto” secondo la brillante definizione di Giorgio Galli nel 1966, ce la siamo cavata con la mitizzazione del “bipolarismo”, la banale semplificazione per cui sarebbe sempre esistito un polo di destra (conservatore?) ed uno di sinistra (progressista? riformista?), con buona pace della DC che si teneva dentro l’uno e l’altro e nella sua azione pencolava fra i due. Naturalmente se vogliamo farla facile possiamo anche accettare la banalizzazione per cui in politica coesistono sempre le due componenti di chi vuol più o meno tenersi le cose come stanno e di chi pensa che solo cambiando il quadro e andando avanti si possa affrontare il futuro.

Ogni lettore capisce al volo che sono semplificazioni che lasciano il tempo che trovano perché le mescolanze fra le due fattispecie sono molteplici, perché esistono sempre un’area che vuole un progresso moderato e sostenibile ed una che vuole una conservazione consapevole di doversi adattare alle evoluzioni della storia. Chiamatelo “il centro” se vi piacciono le vecchie bandiere.

Questa lunga premessa per affrontare l’operazione che si sta cercando di mettere in piedi nella politica italiana di oggi: il ritorno ad un confronto muscolare fra la destra e la sinistra, messo in scena, non proprio in maniera brillante, dalle due concomitanti iniziative romane di FdI e del PD. Le tradizionali bandierine della contrapposizione fascismo/antifascismo non sono ammainate, perché servono sempre per eccitare i riflessi condizionati delle platee, ma in tempi di spettacolo vengono rinforzate e magari oscurate dalla rappresentazione di due presunti “orgogli” di parte.

A destra Giorgia Meloni, che proprio non riesce a lasciarsi alle spalle la sua storia di agitatrice populista, rivanga l’eterno mito del vincitore di una battaglia i cui risultati gli invidiosi sconfitti vorrebbero mutilargli. Con sicuro intuito dei sentimenti di una componente non certo minoritaria dell’opinione pubblica cavalca la denuncia dei miti della politica spettacolo e del consumismo di una certa subcultura che crede di essere dominante. A sinistra Elly Schlein chiama a raccolta quelli che continuano a credere nei mantra della lotta all’ordine capitalistico, ora declinato come anti ambientalismo, promozione delle diseguaglianze, negazione della democrazia e dei diritti.

Nessuna delle due contendenti è in grado di acquisire appieno la leadership del suo polo. Ciascuno di essi è formato di una pluralità di componenti che stanno insieme o per non perdere l’aggancio col potere come avviene a destra, o per tenere viva la prospettiva di poter sottrarre quel potere agli attuali detentori, cosa possibile solo con un cosiddetto campo largo come avviene a sinistra.  In realtà ciascuno dei due poli è travagliato da competizioni interne, che non sarebbero più di tanto strane (ogni formazione politica conosce lotte per l’occupazione del potere), se non fosse che in entrambi i casi ciò che manca è la costruzione di una prospettiva politico-ideologica minimamente unificante.

A destra l’ideologia della “rivincita del polo escluso” è propria solo di FdI, perché il centrodestra ha vissuto almeno vent’anni di potere grazie a Berlusconi e quanto ad occupazione di posizioni dominanti non è che abbia avuto da lamentarsi. La stessa Lega, con l’ampio dominio che ha esercitato ed esercita nelle regioni del Nord Italia, fatica ad apparire come una forza estranea a posizioni di governo. Quanto ad ideologia la marmellata di idee che ha nutrito il berlusconismo nelle sue varie fasi così come l’andirivieni leghista fra il confuso federalismo delle origini e la virata demagogica del salvinismo non sono materiali per costruire un approccio comune, né è in grado di offrirlo il risentimento contro la cultura repubblicana classica che ha caratterizzato FdI. Meloni sembra a volte provare a proporre lei la sintesi di un nuovo conservatorismo all’altezza del XXI secolo, ma non ci riesce, almeno per ora, un po’ per le sue nostalgie dei vecchi tempi, un po’ per carenza di persone capaci di costruirne la cultura necessaria.

A sinistra non si è certo messi meglio. La lunga fascinazione per il movimentismo interpretato come incubatore di una svolta radicalmente riformatrice (un fenomeno che data ben prima dell’avvento di Schlein e compagni), il mito della necessaria rifondazione dalle fondamenta del sistema politico italiano (accentuato dalle pseudo ideologie propagate da Tangentopoli ed eventi successivi), la dipendenza da ambienti della comunicazione che spingevano per la spettacolarizzazione della “alternativa”, sono tutti elementi che da un lato hanno indebolito, vorremmo dire snervato il partito erede nelle sue varie versioni della contrapposizione alla DC, e dall’altro hanno favorito la nascita di quello strano fenomeno che è il grillismo, oggi trasformatosi in una lobby politica che punta a guadagnare il controllo della possibile sostituzione della destra al potere.

In questo quadro ci pare difficile parlare di bipolarismo in senso positivo. Si tratta per ora dello scontro fra due alleanze cementate più da interessi di corto respiro che da visioni programmatiche del futuro. Siamo ancora nell’ambito di un processo di evoluzione della politica italiana i cui esiti non ci sembrano prevedibili.

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Wed, 20 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Per una educazione al silenzio]]> “Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”.  (Federico Fellini, 1920-1993)

«Oggi tutti parlano e nessuno sta a sentire. Bisogna fare silenzio per poter ascoltare”.

(Ezio Bosso, 1971-2020)


Nella società definita complessa l’incomunicabilità è anche paradossalmente dovuta ad un uso sovrabbondante delle parole: se tutte quelle che usiamo ogni giorno servissero per farci capire ci sarebbe più concordia nella reciprocità del vivere.

Ma le parole si aggiungono ai suoni e questi ai rumori in un crescendo assordante che pervade

la nostra quotidianità.

Siamo accompagnati da un sovrastante dominio del mondo esterno su di noi.

Anche se non ce ne accorgiamo siamo costretti a rapportarci e misurarci continuamente con messaggi, richiami, stimoli, sollecitazioni, impulsi che ci raggiungono e che, volenti o nolenti, condizionano la nostra vita e le nostre abitudini fino regolarne i tempi e gli spazi di manifestazione.

Anche negli apprendimenti scolastici vige questa regola: anzi l’educazione altro non è che un passaggio dall’esterno all’interno di nozioni, norme, conoscenze, comportamenti, regole, informazioni, dati, valori.

Nei chiaroscuri della mia ormai lunga memoria professionale in campo scolastico non posso dimenticare la metaforica rappresentazione della tabula rasa, di quel luogo immaginario della mente e dell’anima inizialmente vuoto dove si incidono ogni giorno i segni dell’apprendimento, del lento processo di sedimentazione della cultura che sta prendendo corpo dentro di noi.

Ma con altrettanta chiarezza ho ben presente quanta parte di questo lungo travaso vada perduta per un eccesso di contenuti e per un metodo didattico più centrato sulla trasmissione che sull’assimilazione.

Non tutto quello che ci è trasmesso viene comunque metabolizzato: di questo non sempre gli insegnanti tengono conto.

Ci sono momenti di inclusione alternati da pause di accomodamento e riflessione.

La cultura va continuamente rielaborata in un processo di personalizzazione delle cose apprese: la formazione di una persona non avviene per ingolfamento del contenitore ma per selezione dei contenuti.

Potremmo anzi dire che la cultura è ciò che rimane quando si è dimenticato il resto.

Una buona educazione non consiste tanto nel riempire un secchio ma nell’accendere un fuoco: è la motivazione la forza straordinaria che spinge ad imparare.

Ora io credo che la scuola dovrebbe prestare più attenzione a questo delicato passaggio di interiorizzazione del sapere, dedicando più tempo alla rielaborazione del soggetto di quanto ne viene solitamente riservato al travaso dell’oggetto.

Se la costruzione del pensiero critico è la finalità fondamentale di ogni seria formazione allora il metodo da scegliere è quello che stimola la riflessione.

Come ha scritto Marcel Proust “il vero processo di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”.

L’eureka è la lampadina dell’intuizione che si accende quando possiamo dire: “ho capito!”.

Questo non avviene necessariamente al termine di una lezione o al compimento di un ciclo di studi ma in qualunque momento, all’affiorare di un’idea.

Io credo che per facilitare questo percorso e per consentire il raggiungimento di questo traguardo dobbiamo attenuare molta parte del “chiasso” che c’è nelle nostre scuole, rendere più soffuse le luci esterne affinché abbia ad accendersi la lampadina che c’è dentro la testa.

Alcuni insegnanti vanno fieri della gran mole di lavoro materializzata dai loro alunni: occorrerebbe discernere quanta parte di questa produzione è ascrivibile alla conoscenza, quanta alla comprensione, quanta alla applicazione, quanta alla personale rielaborazione.

Riempire le teste per poi riempire i quaderni: ma quanto di questo sapere potrà essere poi riversato nella vita?

L’apprendimento non è una gara lineare a tempo ma una corsa ad ostacoli: c’è il momento della velocità, del rallentamento, poi quello del salto.

E la cultura non è tanto un “aut-aut” quanto piuttosto un “et-et”.

Come argutamente sottolineato da Perelman “un percorso di apprendimento assomiglia più al volo di una farfalla che al tragitto di un proiettile”.

Io penso che dovremmo concedere più tempo alla riflessione di quanto ne dedichiamo alla mera comunicazione.

Mi sembra opportuna una riconsiderazione dei momenti di pausa, finora ritenuti ancillari agli apprendimenti veri e propri.

Soprattutto – nella mia rappresentazione tipico-ideale di scuola – ritengo importante che si possa ritagliare uno spazio al tempo del silenzio come luogo della memoria, della riflessione, della rielaborazione, dell’organizzazione e della connessione delle idee.

È un ragionamento un po’ controcorrente rispetto alle teorie – finora prevalenti – della socializzazione e del lavoro di gruppo, delle “dinamiche relazionali” e del comportamentismo.

Una pista diversa che riscopre però sentieri antichi: quelli della personalizzazione dei processi di apprendimento e di formazione, della interiorizzazione, della valorizzazione delle potenzialità di ciascun individuo nell’autonomia e originalità del suo pensiero.

Non sono in discussione le regole consolidate della cultura trasmessa, le nozioni: un’equazione algebrica non ammette divagazioni - o riesce o non riesce - una regola grammaticale va applicata,

la data del Congresso di Vienna non può essere modificata.

Ma i dati, le regole e le nozioni subiscono un incessante processo di rielaborazione mentale nella positiva contaminazione tra il sé e l’altro da sé.

Una rivisitazione personale che aggiunge immaginazione e fantasia all’oggetto del pensare.

Nel silenzio della parola il pensiero non è latente o inespresso ma si consolida nella riflessione, produce rappresentazioni mentali e iconiche, costruisce un mondo di idee del tutto singolari e uniche in ciascuno di noi.

Il silenzio tacita la parola ma fa correre il pensiero sulle ali della fantasia.

Fantasia che – come ebbe a scrivere un certo Albert Einstein – spesso è più importante della conoscenza.


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Sat, 16 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[L’eterno problema delle coalizioni]]> Una volta si pensava che fosse una questione solo italiana, almeno fra gli stati più rilevanti, perché Gran Bretagna, USA, la stessa Repubblica Federale Tedesca fino agli anni Ottanta avevano sistemi sostanzialmente bipolari. La Francia aveva ottenuto quel risultato col semipresidenzialismo. Perciò chi vinceva le elezioni non doveva misurarsi più di tanto con coalizioni di partito, al massimo con fibrillazioni interne che però venivano contenute dal prevalere di un partito chiave.

In Italia non è mai stato così. Anche quando la DC aveva percentuali rilevanti intorno al 35% il suo obbligo a fare coalizioni la metteva sotto il ricatto dei suoi alleati, i quali poi abilmente giocavano sulle lotte interne fra le sue correnti per metterne in crisi il ruolo centrale. La tradizione, se vogliamo chiamarla così, non si è mai interrotta. Dopo il crollo dei partiti storici della prima repubblica abbiamo avuto coalizioni di vario tipo, ma sempre sottoposte al problema di dover tenere insieme componenti non esattamente fraterne nei loro rapporti reciproci. Così è stato per le formazioni di centrodestra federate da Berlusconi, peggio ancora per quelle di centrosinistra federate da Romano Prodi. Non parliamo delle coalizioni che non avevano alla testa personaggi di quel calibro.

La situazione si ripropone oggi con la conseguenza di indebolire la capacità di governo del sistema e il ruolo dell’Italia a livello internazionale. Nonostante le illusioni di arrivare almeno ad un bipolarismo per “campi” più o meno larghi, la realtà rimane quella di un paese politicamente molto frammentato e ciò perché siamo poi una nazione fortemente corporativa, sempre meno disponibile a riconoscersi in un comune sentire che possa superare la faziosità delle diverse appartenenze.

Il destracentro attualmente al potere è tutto meno che una coalizione compatta, a dispetto di continue dichiarazioni di fedeltà comune. Innanzitutto perché non ha alcun comune sentire che ne cementi le componenti militanti. Forza Italia è un partito d’ordine sostanzialmente moderato che rappresentava il disegno di riconquista della leadership politico-economica da parte delle forze che erano state emarginate dal prevalere delle due opposte filiere dei democristiani e dei comunisti. La Lega nasce dalle pulsioni separatiste del Nord che riteneva di essere frenato negli anni del grande sviluppo dalla palla al piede dell’arretratezza meridionale, ma tramontata quell’epoca si è rapidamente trasformata in un partito populista, con forti venature demagogiche in difesa dello status quo contro le trasformazioni in corso. Fratelli d’Italia è un ircocervo difficile da schematizzare. I suoi quadri sono l’evoluzione della vecchia tradizione missina del “polo escluso”, la quale peraltro sopravvive solo diventando un folklorismo retrò senza radici. Il suo elettorato è fatto per lo più di delusi dall’attuale quadro politico che pensano di trovare una via d’uscita alla crisi di sistema affidandosi a chi si vanta di non avere avuto legami con quella.

Si presenta così la strana novità di una leader, Giorgia Meloni, che pur provenendo dal retroterra dei quadri è abbastanza giovane per provare a gettarsi alle spalle almeno parzialmente quel modo di pensare e al tempo stesso per fiutare che la domanda del suo nuovo elettorato non vuole ritorni al passato, ma una gestione lenta e senza scosse del passaggio ai tempi nuovi. Sarebbe l’identikit perfetto del classico partito conservatore, ma non può puntare su di esso perché i suoi concorrenti ai lati, Lega e FI, non sono disposti a riconoscerle la leadership e dunque la lavorano ai fianchi puntando sulle spaccature interne al suo partito, FdI, fra quadri culturalmente incapaci di uscire dalle liturgie del vecchi polo escluso e quadri che vorrebbero affrettare la transizione nel nuovo campo del conservatorismo, ben più remunerativo sia a livello italiano, sia a livello europeo.

La maledizione della coalizione si ripete tale e quale a sinistra. Il PDS-DS-PD ha perso la capacità di essere il perno che doveva riorganizzare le classi di governo spaesate dal crollo della prima repubblica unendo le filiere del migliore PCI e quelle della migliore DC (con qualche limitato innesto da altre filiere). La ragione piuttosto semplice era che in entrambe c’era molto professionismo politico di modesta qualità e che per questo non si sarebbe fatto spazio all’emergere di un nuovo leader, che era sostanzialmente costretto a pescare buona parte dei suoi quadri nelle sedimentazioni di quelle componenti delle burocrazie dei vecchi partiti. Tramontata rapidamente la fase di Prodi, bruciata per insipienza del leader la rottamazione di Renzi, durata lo spazio di un mattino l’utopia di Veltroni, quel partito è finito nel gorgo del declino di ogni sinistra che non si accredita credibilmente per reale capacità di governo: la riscoperta e riproposizione banalizzante del radicalismo nelle sue due versioni, quello dell’esasperazione sia di presunti diritti individuali sia di messianismi di vario tipo (egualitari, ambientalisti, globalizzanti).

Anche in questo caso l’indecisione ha lasciato spazio al sorgere della versione demagogico-populista di quanto si era predicato bene e razzolato piuttosto male. Grillismo e Cinque Stelle sono l’incarnazione di questa antitesi all’involuzione della sinistra tradizionale. Poi naturalmente la forza delle strutture si è mangiata quel tanto di ingenuo entusiasmo che poteva esserci in queste tendenze, perché è diventato evidente che con quelle impostazioni si poteva far carriera, ma a patto di mantenere la proclamazione di sé stessi come alternativa alla sinistra, cui al massimo si poteva concedere di venire a Canossa umiliandosi fuori delle mura dei loro castelli.

La competizione fra queste due componenti del lato sinistro del bipolarismo nostrano è strutturale e difficilmente si comporrà senza che una delle due parti accetti di omogeneizzarsi all’altra. Sarà difficile anche per la presenza di piccole formazioni di contorno che hanno tutto l’interesse ad impedire che ciò accada per la semplice ragione che prosciugherebbe definitivamente l’acqua in cui navigano.

Il risultato di questo quadro è che l’Italia al momento è un paese bloccato dalle sue lotte intestine. Ciò avviene in una fase molto delicata del quadro politico ed economico internazionale, con all’orizzonte passaggi il cui esito è più che incerto (invasione russa in Ucraina, guerra Israele-Hamas, elezioni europee, elezioni americane), mentre anche la situazione italiana affronta una tornata elettorale che eccita i confronti fra e dentro le coalizioni (non solo elezioni europee, ma una valanga di elezioni amministrative). Non certo una condizione ideale coi tempi che corrono.

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Wed, 13 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[L'Italia nel 57° rapporto Censis: il paese dei sonnambuli nel tempo dei desideri minori]]> Il pregio ricorrente dei Rapporti CENSIS è quello di fotografare la realtà sociale del Paese con il grandangolo che coglie i fenomeni macro sociali e con il teleobiettivo che ne evidenzia gli aspetti più evidenti e significativi. Ma anche quello di coniare metafore descrittive che inglobando i dati ne esplicitano le rappresentazioni iconografiche prevalenti e significative. Nel presentare -ospiti nella sede del CNEL- il 57° Rapporto del 2023 dell’Istituto Presieduto da Giuseppe De Rita, il Segretario Generale Giorgio De Rita e il Direttore Generale Massimiliano Valerii richiamano implicitamente la metafora usata lo scorso anno, quella di una immagine recessiva del corpo sociale, sia dal punto di vista demografico che del sentimento collettivo prevalente e implicitamente condiviso, che si esprime in una sorta di ritrazione silenziosa verso dimensioni miniaturizzate, parcellizzate, di piccole patrie e minime rivendicazioni: una deriva che rafforza la percezione di un indebolimento collettivo, una  nebulosa sfuggente (già anni fa il Presidente De Rita aveva parlato di società-mucillagine), con ambizioni contratte e traguardi inespressi. Il dato del decremento demografico è l’incipit da cui partire, in sintonia con l’ISTAT.: nel 2050 l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti, una cifra che somma gli abitanti di due città come Roma e Milano. Ma accanto alla contrazione demografica rapportata alla metà del secolo si aggiunge la stima di 8,1 milioni di persone in età attiva in meno: una scarsità di lavoratori che avrà inevitabili impatti sulla struttura dei costi del sistema produttivo e sulla capacità di generare valore del settore industriale e terziario.

Tuttavia lo specifico analitico e descrittivo del CENSIS si caratterizza nella interpretazione dei dati: emerge intento che gli italiani nel 2023 sono apparsi fragili (il 56% ritiene di contare poco nella società), impotenti (il 71 % prova profonda insicurezza) e rassegnati (l’80% ritiene che l’Italia sia inesorabilmente un Paese in declino). Complessivamente la società italiana sembra essersi inabissata in una sorta di ipertrofia emotiva, uno stato che il CENSIS descrive efficacemente come “sonnambulismo”, un mix di consapevolezza confusa declinante nella percezione indistinta di uno stato di malessere e un ingovernabile senso di impotenza: a disegnare modelli di sviluppo, a colmare il gap tra cittadini e istituzioni (attraverso un progressivo processo di disintermediazione sociale), a sbloccare l’ascensore della crescita inchiodato al piano terra (anche se un recente editoriale del Prof. De Rita sul Corsera invita a considerare anche quella parte di Italia “che va” e tiene accesa la fiammella della speranza). Ma nell’atmosfera emotiva in cui la società italiana si è immersa, vincono le credenze fideistiche: ogni verità ragionevole può d’improvviso essere ribaltata, sbullonata dal piedistallo della indubitabilità per effetto di una nuova ondata di spasmi emotivi.

Così l’84,0% degli italiani teme il clima impazzito causa della moltiplicazione delle catastrofi naturali, ogni anno più frequenti, il 73,4% ha paura che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese siano l’incipit di una crisi economica e sociale molto profonda, il 73,0% che gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi che ci metteranno di fronte all’evidenza di una ingovernabilità dell’arrivo di milioni di persone in fuga dalle guerre e per effetto del cambiamento climatico (ricordiamo che nel 2050 secondo l’ISTAT la popolazione nigeriana sarà la terza del mondo, in parte stanziale in Europa), per il 70,6% i rischi ambientali, quelli demografici e quelli ora connessi alla guerra provocheranno un crollo della società, favorendo la povertà diffusa e la violenza, e mentre il 68,2% immagina che in futuro patiremo la siccità per l’esaurimento delle risorse di acqua, il 53,1% teme che il colossale debito pubblico, in cammino verso la cifra record di 3.000 miliardi di euro, provocherà il default finanziario dello Stato italiano, infine il 43,3% paventa che resteremo senza energia sufficiente per tutti i bisogni. Il ritorno della guerra spettacolarizzata dai social media ha alimentato una paura ulteriore: la metà degli italiani ha timore che non saremmo in grado di respingere l’aggressione militare di una potenza straniera. Anche i servizi di welfare del futuro proiettano nell’immaginario collettivo preoccupazioni smisurate: il 73,8% degli italiani ha paura che non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni e il 69,2% pensa che negli anni a venire non tutti potranno essere curati, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate. Sono ormai perdute nelle chimere del passato le descrizioni di una società ammaliata dalla “sontuosità iper-acquisitiva”: la deriva descritta dal 57° Rapporto muove verso un ridimensionamento delle aspettative, nella creazione immaginifica di nicchie di sussistenza, nel rintanarsi in desideri minori abbandonato ogni stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, declinando verso una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori e per garantirsi uno spicchio di benessere in un mondo fondamentalmente ostile. Il 74,8% dei lavoratori oggi dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo. Il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario: per l’87,3% degli occupati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita sarebbe un errore. Si tratta di una forma inedita e contemporanea del tradizionale desiderio di autonomia individuale, che ora si incammina sui sentieri del benessere minuto, individuale, nella persuasione che questa sia la modalità migliore per accedere a una più alta qualità della vita. Non sorprende che per il 62,1% cresca il desiderio di momenti da dedicare a sé stessi per combattere l’ansia e lo stress, o che un plebiscitario 94,7% consideri centrale la felicità delle piccole cose di ogni giorno, come appunto il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Proprio in tema di lavoro siamo passati rapidamente dagli allarmi sugli elevati tassi di disoccupazione al record di occupati, mentre il sistema produttivo lamenta sempre più frequentemente la carenza di manodopera e di figure professionali. La fase espansiva dell’occupazione, avviata già nel 2021, si è consolidata nel primo semestre di quest’anno e le aree economiche più attive del Paese hanno mantenuto un forte presidio dei mercati esteri, tanto da ottenere risultati mai visti prima nei livelli delle esportazioni.

E mentre monta l’onda lunga delle rivendicazioni dei diritti civili, cresce parallela l’incomunicabilità generazionale: la distanza esistenziale dei giovani di oggi dalle generazioni che li hanno preceduti sembra abissale. Si ha l’impressione che lo scandaglio sociale operato dal CENSIS in questo 57° Rapporto esprima mai come in passato il segno di una profonda trasformazione  in atto, di una fase di transizione di cui si colgono significativi e indistinti presagi che riguarderanno la dimensione soggettiva dell’identità personale e le macro derive che il “corpaccione” sociale va appena appena esprimendo in discontinuità con il passato.

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Sat, 09 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[L'anno che verrà]]> Il 2024 sarà un anno determinante per la politica italiana, perché tutte le scommesse di leader e partiti si dovranno confrontare con i dati di numerose e importanti tornate elettorali. In primo luogo, avremo le comunali: si voterà in ventisette capoluoghi di provincia, fra i quali Bari, Bergamo, Cagliari, Campobasso, Ferrara, Firenze, Forlì, Livorno, Modena, Perugia, Pescara, Potenza, Reggio Emilia e Sassari. Le amministrative del 2023 hanno visto il centrosinistra in grave difficoltà, quindi le città - soprattutto le maggiori - saranno il campo di battaglia dove si misureranno la destra capeggiata dalla Meloni e il centrosinistra della Schlein (con o senza il M5s, che in questo tipo di elezioni vede i suoi elettori defezionare in massa, dunque è quasi sempre ininfluente). Poi avremo le regionali in Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria, dove la destra ha tutto da perdere, perché gli uscenti sono tutti della coalizione della Meloni. In queste realtà non si vedrà soltanto se il centrosinistra avrà la capacità di rianimarsi, ma anche se i "governatori" uscenti saranno ricandidati (c'è il problema di un riequilibrio a favore di Fratelli d'Italia, visto che la scorsa volta il partito della premier era il terzo della coalizione per numero di voti, non come adesso che è di gran lunga il primo). Qualche difficoltà d'intesa nella destra potrebbe offrire speranze agli avversari, ma di solito la coalizione che governa il Paese si ritrova sempre unita quando si tratta di vincere (esattamente il contrario delle forze di opposizione, che non mettono davanti a tutto la necessità di aggiudicarsi la competizione, un po' per differenze programmatiche o semplicemente simboliche difficilmente sormontabili, un po' per una naturale litigiosità fra le aree del "campo largo", un po' perché fra Pd e M5s è in atto una battaglia serrata per l'egemonia a sinistra). Infine, ci saranno le elezioni europee, sulle quali si misureranno i rapporti di forza interni alla coalizione di governo e quelli fra i partiti di opposizione. Fratelli d'Italia vuole ampliare i propri consensi cercando di tenere a bada la Lega e magari ridimensionarla, mentre Salvini coltiva ancora il sogno di tornare al 2019 e vorrebbe (velleitariamente) riprendersi i milioni di voti che furono suoi per il tempo di un'estate, ai tempi del governo gialloverde (la cui caduta fu un grave errore del leghista, pagato carissimo); Forza Italia, dal canto suo, vuole dimostrare di essere ancora "viva" nonostante la scomparsa del suo fondatore (i partiti personali, si sa, rischiano sempre di estinguersi con chi li ha creati), soprattutto in una competizione che - essendo basata su un sistema proporzionale di trasformazione di voti in seggi - è contro tutti, alleati compresi (senza contare che lo sbarramento del 4% per ottenere eurodeputati è ancora ampiamente alla portata degli azzurri, ma non si sa mai). Al centro, si vedrà chi, fra più Europa, Azione e Italia viva riuscirà ad ottenere seggi. A sinistra, invece, i Verdi-Sinistra rischiano un po', mentre il Pd e i Cinquestelle lottano per la supremazia in un campo nel quale non potranno comunque convivere due partiti a vocazione egemonica e due leader ciascuno dei quali vuole essere il dominus di una coalizione che - in prospettiva - è difficile da costruire e che difficilmente porterà ad una sommatoria dei voti di democratici e pentastellati. Mentre Conte, però, non rischia nulla in caso di sconfitta (il partito è praticamente suo: non solo non ha avversari credibili, ma forse senza di lui perderebbe una buona fetta di consensi), per la Schlein è diverso. Il Pd divora in fretta i propri leader; inoltre, il dato delle europee 2024 non va confrontato solo con quello delle politiche 2022, ma anche con quello - più consistente - del precedente voto per l'Europarlamento (2019). L'unità dei democratici intorno alla segretaria del partito potrebbe durare - per un po' - in caso di risultato brillante, ma se dovesse arrivare una sconfitta la Schlein sarebbe seriamente in pericolo. C'è poi una doppia incognita, a destra come a sinistra, riguardante le liste populiste e sovraniste che si dicono pacifiste ma sembrano simpatizzare per Putin e sono decisamente antieuropeiste. Questi soggetti possono, in caso di presentazione delle liste, erodere consensi da una parte al M5s e dall'altra più alla Lega (che è ormai è il partito parlamentare italiano più di destra) che a Fratelli d'Italia. In sintesi, fra un anno potremmo avere un quadro politico diverso, anche se ultimamente la volatilità elettorale sembra essersi attenuata, con un sistema dei partiti che forse va stabilizzandosi.

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Wed, 06 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[La discriminante europea]]> Giorgia Meloni è sempre più attesa al varco delle elezioni europee: ci saranno fra sei mesi, ma la battaglia, come tutti ripetono, è già cominciata e non certo in sordina. Non è soltanto questione di sparate da comizianti, tipo quella organizzata da Matteo Salvini a Firenze domenica scorsa. Quella è roba per far un po’ di spettacolo televisivo, neppure riuscita veramente bene, visto che metteva insieme di tutto e di più: da partiti robusti, per quanto poco attraenti come quelli di Marine Le Pen e di Geert Wilders (per tacere della impresentabile tedesca AfD) a partitelli insignificanti che propugnavano teorie che non si sa definire folkloristiche o pazzoidi. Non è da ammucchiate di quel genere che ci si può aspettare una svolta in Europa.

Il tema chiave è il ruolo che il governo italiano e il suo vertice possono scegliere di giocare oggi in una Unione Europea percorsa da tensioni e fratture. Lo si vedrà ben prima della scadenza elettorale del giugno 2024, perché è in questi mesi che si affrontano alcuni nodi cruciali, il primo dei quali è indubbiamente la decisione sul sistema di bilancio che si sceglie per la UE post pandemia. Come si sa, il tema è molto dibattuto, perché non si trova l’accordo fra la difesa di interessi molto “nazionali”, la promozione di un equilibrio nei conti pubblici capace di frenare il ricorso al deficit spending, il permanere di vecchie ortodossie economiche che si fanno passare per liberali. In sostanza un bel caos.

Al momento sembrerebbero prevalere i compromessi fra la Germania che non rinuncia a certe sue fobie per i paesi considerati spendaccioni e la Francia che di ricorso al debito ha un certo bisogno, ma che vuol essere considerata cosa diversa dagli stati con un debito pubblico mostruoso. La Germania non potrebbe più di tanto fare la voce grossa, visti i pasticci di bilancio che ha combinato aggiustando dei conti poi bocciati dalla sua Corte Costituzionale, sicché adesso, le piaccia o meno, deve anch’essa “manovrare”. Tuttavia al suo mantra rigorista non vuol rinunciare temendo che vada troppo a vantaggio di certe “cicale” (in primis l’Italia) che con una buona libertà di spesa a fronte dei cospicui finanziamenti del PNRR potrebbe anche accrescere la sua capacità competitiva sul mercato dell’export (dove Berlino trova problemi).

Fino a che punto può arrivare la battaglia per la fissazione delle nuove regole di bilancio? Per rispondere a questa domanda è necessario ricordarsi la situazione né brillante, né tranquilla in cui versa il vertice europeo. La regola che impone l’unanimità per varare le nuove norme permette di suo all’Italia un potere di veto che però non si sa quanto le converrebbe esercitare: non tanto perché senza nuove regole si torna al vecchio limite del 3% del deficit sul PIL, cosa che già nel 2024 ci metterebbe fuori norma, ma perché non è interesse di nessuno aprire una partita che dia spazio ai diritti di veto di una minoranza (e già noi abbiamo il controverso del tema della mancata approvazione del MES, sebbene in materia sembra si stia arrivando ad una soluzione).

Si deve infatti tenere presente che l’Ungheria di Orban vuole usare il suo potere di veto per impedire la prosecuzione delle procedure per l’ingresso dell’Ucraina nella UE e di conseguenza per sabotare il sostegno economico-militare alla resistenza di Kiev all’invasione russa. Un blocco all’azione europea su questo terreno metterebbe in crisi la struttura dell’Unione e per evitarlo si era disposti a sbloccare dei cospicui finanziamenti a Budapest congelati per lo scarso rispetto, per non dire di peggio, che quel governo continua ad avere per i valori dello stato di diritto.

In questo orizzonte complesso Meloni e il ministro degli Esteri Tajani, nonché sul fronte economico Giorgetti, si muovono con cautela ed abilità, ma hanno la palla al piede di Salvini che non rinuncia al suo sogno di riguadagnare una centralità in politica interna in termini di ampio consenso elettorale. Fino ad un certo punto i partner europei possono chiudere un occhio derubricando le impennate retoriche a demagogia elettorale, ma ci sono non pochi interessi che possono spingere ad approfittare strumentalmente delle intemperanze del leader leghista in vista di diminuire gli spazi che la nostra premier sta guadagnando soprattutto in vista della costruzione di una futura maggioranza che possa consentire il secondo mandato di von der Leyen.

Non si sottovaluti il fatto che un rafforzamento della cosiddetta “coalizione Ursula” con una apertura ai conservatori diventa importante sia per impedire l’indebolimento delle sue attuali componenti sotto la spinta nelle diverse situazioni nazionali dei partiti demagogici, sia per gestire l’ulteriore fase di allargamento della UE (si prospetta di arrivare a 35 membri, sia pure in tempi non brevi, ma i negoziati avviati e da avviare sono già passaggi difficili), sia per confrontarsi con mutamenti possibili e preoccupanti sul piano internazionale (a partire da una eventuale vittoria di Trump nelle elezioni americane).

Siamo davanti ad un quadro che richiederebbe da parte di tutti i nostri partiti una oculata gestione della campagna per le elezioni europee in modo da puntare ad una rappresentanza italiana di alto livello nel nuovo parlamento. Puntare alla pura trasformazione delle urne di giugno in un sondaggio sul gradimento delle varie forze politiche in vista di stabilizzazioni o ribaltamenti del nostro quadro parlamentare sarebbe davvero la prova di una classe dirigente che sta perdendo ogni capacità di prospettiva.

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Wed, 06 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il pensiero mite]]> Un tempo i genitori consigliavano ai propri figli di ascoltare le parole dei loro insegnanti: era l’epoca in cui si andava a scuola per imparare, accompagnati dall’umiltà che derivava dal rispetto verso  l’istituzione e le persone che dovevano occuparsi dei nostri apprendimenti ma soprattutto della nostra buona educazione.

C’era una condivisione di fondo sul compito da realizzare e quel suggerimento sembrava soprattutto una conseguenza ovvia rispetto all’ordine delle cose: c’era chi insegnava e c’era chi imparava.

Poi – sembra facile e riduttivo semplificare in modo sbrigativo quel pò di sconquasso etico e sociale che c’è stato in questi lunghi anni di rovesciamento e confusione di ruoli – tutto a poco a poco è diventato difficile, complesso, ingarbugliato.

Curando e dettagliando i particolari, sfumando le identità e ribaltando i ruoli si è perso di vista lo sfondo, si è problematizzata la realtà, si sono cercati alibi e attenuanti, tutele e diritti, qualcuno è sembrato un po’ troppo in alto e qualcun altro un po’ troppo in basso: bisognava correggere, equilibrare, compensare, sostenere, proteggere.

Adesso è più facile che un padre e una madre raccomandino al proprio figlio: “Fatti valere!”, “Non farti mettere i piedi addosso da nessuno”, “Se qualcuno ti dice qualcosa, rispondi!” e via dicendo.

Tanto vale per la scuola quanto vale per la vita.

La percezione è questa: già in casa le cose non vanno un gran che, riesce difficile creare e mantenere un clima di pacifica coesistenza, un’armonia, un’identità, conservare una nicchia di confidenziale complicità e di intima condivisione.

Figuriamoci fuori.

Ogni mattina usciamo corazzati di tutto punto per difenderci e armati quel che basta per aggredire, sapendo che qualcuno prima o poi ci attaccherà.

Vale proprio la metafora della lancia e dello scudo.

Mi è capitato per professione ma anche per scelta, per intenzionale disponibilità all’ascolto, di raccogliere sentimenti, confessioni, sfoghi, turbamenti, emozioni, ansie, timori della gente: genitori, ragazzi, educatori, operatori sociali o semplicemente dei vicini di casa.

C’è un disagio emotivo forte, un disorientamento che deriva dalla concomitanza di molti fattori.

La sfiducia nelle istituzioni, innanzitutto: inutile affondare il coltello in una piaga aperta.

Il senso di insicurezza personale, che si manifesta con una crescente incapacità strutturale – sul piano caratteriologico, emotivo e mentale – di affrontare le difficoltà della vita e la complessità delle relazioni con gli altri e poi il senso di insicurezza sociale, che avvertiamo vivendo in un mondo sovraesposto ai pericoli della violenza e della sopraffazione.

La solitudine, che ci sorprende ogni volta che cerchiamo un incoraggiamento e che si impadronisce di noi a margine dell’ennesima delusione.

Cerco una definizione che spieghi lo stato d’animo oggi prevalente nel sentire comune e la trovo nel dizionario alla voce timore: “sentimento di ansia, di sgomento, di incertezza che si prova davanti a un pericolo o a un danno vero o supposto”.

Provo a rintracciare nella mente e nell’anima, per la sensibilità che a ciascuno di noi deriva dagli  apprendimenti di ogni esperienza, una possibile via d’uscita a questa angoscia così diffusa e condivisa.

Azzardo una risposta che ritengo convincente, a condizione che non sia legata ad un obbligo degli altri e non nostro: mitezza, che traduco con pazienza, indulgenza, moderazione, temperanza.

In un mondo di ragioni urlate e di chiassose, ostentate rivendicazioni la mitezza può essere la vera virtù dei forti.

Il pensiero mite a volte è un dono, altre volte è una conquista che consiste nell’espressione della propria identità e delle proprie idee attraverso il dialogo e che deriva dalla capacità di esercitare il dominio di sé nel rispetto degli altri.

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Sat, 02 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Donna, vita, libertà ed esilio per Hamas]]> “Lo storico ha il diritto di domandarsi se uno dei motivi – siamo lontani dal dire il motivo principale – che convinse l’aristocrazia militare tedesca, nel luglio 1914, a correre il rischio di una guerra europea, non sia stato il crescente disagio verso il partito socialdemocratico e la convinzione che bisognasse tenergli testa, affermandosi ancora una volta come il partito della guerra e della vittoria”. Così si espresse Élie Halévy nelle Rhodes lectures del 1929 dedicate a The World Crisis 1914-1918. An interpretation.

È un ragionamento che mi è tornato in mente di fronte alla tragedia seguita al pogrom di Hamas in Israele del 7 ottobre. Hamas non avrebbe la forza che ha senza il sostegno, finanziario e militare, dell’Iran nonostante il primo sia un movimento sunnita e il secondo una potenza sciita. Ed è secondo me probabile che qualcuno a Teheran stia facendo lo stesso ragionamento dei generali tedeschi descritto da Halévy: recuperare con un’iniziativa bellica la coesione interna minacciata dall’imponente movimento di protesta contro il regime che va avanti da oltre un anno. Gli “esperti” dicono che si tratta di uno scenario ancora lontano e che per ora i vertici iraniani sarebbero piuttosto spaventati da una deflagrazione complessiva. Ma per quanto durerà?

Da ciò derivano due indicazioni su come affrontare la crisi.

In primo luogo, fare il possibile per aiutare il movimento rivoluzionario donna, vita, libertà in Iran; un’idea: un embargo su tutte le tecnologie che possono essere utilizzate per la sorveglianza digitale, ultima frontiera della repressione (si pensi al riconoscimento facciale).

In secondo luogo: Israele ha il diritto di rispondere militarmente alla tremenda aggressione subita dalla sua popolazione (ricordiamo: 1400 tra militari e civili inermi, bambini e anziani compresi, uccisi, sgozzati, bruciati vivi nelle loro case, donne stuprate, circa 250 ostaggi, anche in questo caso con bambini e anziani, portati a Gaza). É legittimo che Israele si ponga l’obiettivo di far cessare il governo di Hamas nella Striscia. Non ci può essere nessuna equivalenza morale tra l’azione di Hamas e la reazione israeliana; Israele non sta commettendo alcun genocidio (ricordiamo: genocidio significa decisione deliberata di eliminare fisicamente un popolo) mentre Hamas ha sicuramente commesso nell’azione del 7 ottobre crimini contro l’umanità. Qual è però la strategia? Non sarà possibile per Israele eliminare il governo di Hamas a Gaza con un’azione solo militare come quella svolta finora perché non si tratta di un’azione sostenibile a lungo per una democrazia come quella israeliana (e la forza della democrazia israeliana è stata dimostrata in questi mesi dalle imponenti manifestazioni di protesta contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu). La striscia di Gaza è troppo densamente popolata e l’azione militare, pur non colpendo deliberatamente obiettivi civili e nonostante i corridoi umanitari lasciati aperti dalle forze armate israeliane, sta provocando troppe vittime civili (circa 13.000 al 27 novembre, secondo la stima riportata da un giornalista attento come Giordano Stabile). È vero: Hamas si fa scudo della popolazione civile, nasconde le sue armi e i suoi leader vicino agli ospedali e alle scuole ma cercare di colpire depositi di armi e leader di Hamas nonostante questo non è etico. Risulta in particolare in contrasto con i necessari principi di precauzione e di minimizzazione delle vittime civili la intensa campagna di bombardamenti aerei e missilistici effettuata: con numeri così alti di bombe lanciate è difficile – lo ha notato l’esperto militare francese Michel Goya su “Le Grand Continent” -  che siano state adottate tutte le precauzioni necessarie per evitare vittime civili. Non solo: comportarsi in questo modo significa cadere in una trappola e fornire prima o poi all’Iran il pretesto per un attacco.

 Mandare via Hamas con le sole forze militari richiederà insomma troppo tempo e troppo sangue e non è pensabile una nuova occupazione israeliana di Gaza, durante la quale agevolmente Hamas potrebbe tornare a radicarsi. C’è chi scrive che con ragionamenti del genere le democrazie si condannano a combattere contro i loro nemici con il braccio legato dietro la schiena e sono destinate alla sconfitta. Non è vero. Un’alternativa ci potrebbe essere: mentre prosegue una ragionevole pressione militare, più basata su mirati blitz di terra che su forti bombardamenti dal cielo, si potrebbe provare ad innestare sul negoziato per la liberazione degli ostaggi, che sta dando, con fatica, i suoi primi risultati, un altro negoziato.

Nel 2003, nelle settimane precedenti alla seconda guerra del Golfo, Marco Pannella e i radicali lanciarono l’iniziativa “esilio per Saddam”. Convincere Saddam Hussein ad andare in esilio ed affidare l’Iraq ad un’amministrazione ONU. All’epoca, come molti, pensai: “bella idea, peccato che Saddam non sia d’accordo”. Oggi credo che se quella strada fosse stata perseguita con più decisione e avesse avuto successo, si sarebbe evitata una guerra propagandata in modo sbagliato (le false prove sulle armi di distruzione di massa di Saddam) e un’occupazione dell’Iraq con troppe vittime innocenti, che hanno provocato discredito per gli Stati Uniti, per l’Occidente e per la causa della promozione della democrazia nel mondo.

Così adesso credo che, come tutti i fanatici, i leader di Hamas abbiano anche “roba” ed interessi da difendere e qualcuno potrebbe mediare la soluzione dell’esilio, con consegna della Striscia a un’amministrazione internazionale in attesa che si insedi anche in Cisgiordania uno Stato palestinese. Gli Stati Uniti, che con Biden e Blinken si stanno comportando saggiamente, potrebbero sposare questa linea e le potenze sunnite che contendono all’Iran il patrocinio su Hamas, come il Qatar o la Turchia di Erdogan, potrebbero dare una mano.

É il tempo, insomma, di “idealisti concreti” che pensino anche ad un compromesso accettabile per far finalmente cessare il conflitto israelo-palestinese. Ma di questo ad un prossimo articolo.





* Storico, dirige per la casa editrice Rubbettino la collana “L’Isola di Jura – Storie di dissidenti”

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Sat, 02 Dec 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Una fine d’anno impegnativa]]> Da vari punti di vista l’attuale congiuntura complessiva non va male per il governo. Certo la sua propaganda gonfia un poco i dati, ma fa parte del gioco. Prendete la vicenda del PNRR. Abbiamo ottenuto le revisioni richieste, le tranche arriveranno, non sono alle viste conflitti con Bruxelles. È il frutto senz’altro di un lavoro abile del ministro Fitto e dei vari uffici ministeriali (è un po’ deprimente che nessuno riconosco il lavoro positivo di una parte almeno della burocrazia pubblica, mentre quasi tutti sono pronti a darle addosso per indubbie inefficienze di altre componenti).

I risultati positivi sono stati però agevolati da una sorta di … mal comune. Praticamente tutti gli stati che hanno avuto finanziamenti hanno rinegoziato piani che erano stati preparati non solo con una certa fretta, ma anche in fasi diverse da quelle che si sono succedute dalla pandemia in poi, per cui diventava difficile per gli uffici della Commissione UE mettersi a fare i severi maestrini. In più in fase ormai pre-elettorale, con scossoni non proprio insignificanti all’interno di vari stati membri, sarebbe stato autolesionista mettersi a fare i rigoristi con il governo italiano, il quale, al contrario delle aspettative, si è mostrato consapevole del quadro complessivo in cui doveva muoversi.

È stato notato che la buona accoglienza del governo tedesco alla missione a Berlino della nostra premier segnala un certo realismo nelle cancellerie europee. Questo non significa che da quelle parti non sappiano che tutto è ancora in un equilibrio precario, perché da personaggi come Salvini ci si può aspettare di tutto, ma anche perché su alcune questioni il corporativismo straccione è ancora all’opera (si veda la faccenda dei balneari, ma anche la difficoltà di sganciarsi dalle “code” perverse del superbonus edilizio).

Sul fronte sociale la situazione è almeno apparentemente di relativa tranquillità. L’affondo del sindacalismo di battaglia di Landini e Bombardieri non sembra stia dando grandi risultati alle strategie dei loro proponenti. Certo in quella grande commedia delle maschere che per tanti versi rimane ancora la politica italiana ogni messa in scena ha il suo pubblico, ma non si va oltre.

C’è qualche segnale di inquietudine in alcuni settori legati agli equilibri di una stagione che al momento è passata: nell’informazione l’approccio radical-militante è ancora molto forte da una parte e dall’altra; alcuni, anche personaggi di peso come il ministro Crosetto, paventano il risorgere di una magistratura di opposizione. La nostra impressione è che la gente si stia stufando di questa eterna ripetizione del teatrino politico, sebbene ciò si traduca, paradossalmente diremmo, in un maggiore spazio per le repliche dei vecchi spettacoli, che si impongono nel vuoto lasciato dal largo disinteresse crescente per la politica.

Eppure di ragioni per riprendere in mano il confronto ce ne sono parecchie. Il primo problema è il peso del nostro mostruoso debito pubblico che pesa su tutti noi in termini di interessi da pagare, sia direttamente per esso, sia meno direttamente per ottenere finanziamenti per il nostro bilancio in deficit. È la corda che ha al collo il nostro sviluppo. Non si dimentichi che se si vuol affrontare il problema dell’incremento di salari e stipendi, un tema sempre più centrale per la sopravvivenza del ceto medio e medio-basso, bisogna necessariamente rompere la stagnazione, quella effettiva, ma soprattutto quella attesa, che è quanto impedisce ai datori di lavoro di aprire i cordoni della borsa (dove i profitti sono andati più che bene come nelle banche gli accordi sigli aumenti salariali sono arrivati …).

Non ci stancheremo di ripetere che per avere risultati su questi terreni bisogna promuovere una rivoluzione culturale che ricostruisca un terreno di matura solidarietà a livello di sistema. Sappiamo che è un cambio di passo che comporta dei rischi (ciascuno teme di essere il solo disposto a fare il ragionevole favorendo così il suo avversario), che deve superare l’avversione di tutti quelli che perderanno i loro pulpiti e le conseguenti rendite di posizione, che è reso ancor più difficile in un contesto molto frammentato a molti livelli, politici, sociali, geografici. Ma è un cambio di passo che va fatto.

Al governo, ma vorremmo dire alla presidente Meloni, tocca metterci mano, decidendo con chiarezza, pur nei termini consentiti dalla politica, che non è tempo di bandierine da piantare, ma di risultati da ottenere. Inizi simbolicamente a smontare la trappola della concomitanza fra autonomie differenziate e pasticcio premierato: si possono benissimo affrontare i temi di un maggiore spazio alle capacità di governo regionali (dove ci sono) e di una seria revisione della posizione del presidente del Consiglio (stava già nel “decalogo Spadolini” del 1982!) senza ridurre queste riforme a scalpi da esibire per vittorie di parte.

Va fatto presto, perché nel fuoco delle campagne elettorali e con i molti temi che ci presenterà il quadro internazionale (a cominciare dalle elezioni presidenziali negli USA) sarà quasi impossibile metterci mano una volta che i contesti siano mutati. E si sa che in politica di miracoli se ne vedono raramente.

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Wed, 29 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il monumento che non c'è]]> Un monumento serve a immortalare una prodezza, un gesto, un personaggio.

Chi passa, osserva, inquadra l’epoca, scruta la lapide, cerca lo sguardo fiero di chi ha meritato tanta gloria, ricostruisce gli eventi e se non ci riesce da solo si fa aiutare da qualche bene informato di passaggio: tutto si spiega in una posa, sintesi di una vita da consegnare ai posteri.

Pochi busti, molti cavalli con relativi fantini: si vede che il cavaliere è un genere che non passa mai di moda.

Una volta se ne vedevano di più nei cortili, nelle piazze, ai crocevia, ora bisogna proprio andarseli a cercare.

Una spiegazione c’è: se servono ad esaltare le virtù umane il sillogismo è presto fatto, si vede che stiamo vivendo tempi di recessione morale.

Meno virtù, meno monumenti.

Si tratta infatti di un repertorio legato al passato, quando si avvertiva il senso e il peso di un gesto, di una prodezza, di una parola.

Chi erigerebbe oggi un simile tripudio di marmo a chi avesse anche solo il coraggio di dire “obbedisco”?

Quei pochi che restano, in genere, sono proporzionati al contesto: piazza grande, personaggio grande, monumento grande e il contrario per tutto il resto.

Adesso l’umanità non ha più tempo per fermare la posa, serve spazio per il traffico e le rotonde evitano anche le soste e i semafori. 

A parte qualche lapide smunta e sbiadita ai ‘militi ignoti’, trovo che il monumento celebri soprattutto il genius loci, con le dovute eccezioni come da tradizione nazionale, essendo stato quello italiano notoriamente un popolo di santi, poeti, navigatori ed eroi.

Essersi fermati qui è anche un segno di pudore: potremmo erigere monumenti a opinionisti, politicanti e influencer?

Trattandosi di riconoscimenti postumi forse, un domani, qualcuno ci ripenserà.

Ma i simboli di oggi hanno significati a volte indecifrabili: vedi tre cerchi al centro di un’aiuola e pensi “che cosa vorrà dire?”, poi qualcuno ti spiega che è un elogio perenne all’intercultura e all’amicizia tra i popoli, un valore oggi in disuso e in riarmo.

Mi pare che i simboli e le allegorie dei nuovi monumenti replichino i significati imperscrutabili del nostro tempo: ognuno ci può vedere quello che crede, salvo che non venga pietosamente dettagliato a margine.

Trovo inoltre che i monumenti servano a immortalare un gesto, un attimo, un’azione, un avvenimento, per cui legano il tempo breve di una sola cosa alla memoria dell’eternità.

Mi pare che manchino invece monumenti alla vita della gente normale, l’elegia dell’uomo qualunque, ma non per questo del qualunquismo.

Eppure dovremmo ricordarci reciprocamente più spesso che oltre il gesto, il clamore, dell’evento, l’episodio, la battaglia è la santa e paziente quotidianità, spesso sommersa e ignota ai più, che spinge avanti i destini del mondo.

So di gente che ha lavorato una vita compiendo sempre il proprio dovere senza ricevere neppure il ’grazie’ del commiato, padri e madri che hanno cresciuto con grande sacrificio i propri figli per esserne -da vecchi- abbandonati, uomini che per il lavoro hanno chinato il capo di fronte a soprusi ed  angherie dei prepotenti, donne umiliate nella violenza e rese silenti dalla vergogna, giovani che hanno studiato onestamente e con impegno sperando che il rispetto verso la scuola e il sapere li avrebbe prima o poi ricompensati, malati sopportare con rassegnazione il destino della sofferenza e del dolore, bambini abbandonati e senza nome, un’umanità variegata e composita che ha saputo attendere tutta la vita un’improbabile occasione di riscatto.

Persone che hanno ammantato di normalità la loro sofferenza per renderla pudicamente impercettibile, che hanno combattuto l’ingiustizia e la solitudine continuando ad amare la vita e a rispettare il prossimo.

Gente di cui non si parlerà mai, confusa nel grigiore di una massa privata di eclatanti identità.

Nessuno ha mai eretto monumenti alla normalità, come se fosse una cosa mediocre e senza valore, dimenticando che la fatica di vivere i gesti della quotidianità è la vera epopea dell’esistenza, senza cavalli, mostrine, stellette e feluche.

Ecco a me piacerebbe - non so a voi - che almeno in qualche parte del mondo, in un posto qualunque, nella banalità di una piazza senza storia e senza epoca qualcuno erigesse un monumento alla memoria di quanti hanno vissuto onesti e dimenticati.

Non per celebrare l’anonimato come valore ma per far capire a chi passasse di lì e osservando chiedesse - “chi sarà mai?” - che a volte il vero eroismo non si celebra nel singolo gesto ma nella lunga, silente rassegnazione di chi è stato capace di vivere fino in fondo senza mai ribellarsi al destino di una consapevole soccombenza.

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Sat, 25 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Nelle spire della radicalizzazione]]> Nonostante l’orribile tragedia della giovane Giulia brutalmente assassinata dal suo ex fidanzato abbia per un po’ oscurato il chiacchiericcio politico, la corsa alla radicalizzazione del quadro politico non accenna a fermarsi. Al di là di frasi di rito, tipo quelle sul confronto che si fa in parlamento (impresa piuttosto complicata di questi tempi), è una gara a strumentalizzare ogni evento.

Le agenzie di rating non bocciano drasticamente la politica economica del nostro paese? Anziché notare che gli economisti che conoscono il mestiere l’avevano già previsto, pur notando che questo non significa che navighiamo in splendide acque (leggersi le analisi dell’ottimo Carlo Cottarelli), ci si precipita da una parte ad affermare che il mondo ci ammira e dall’altra che stiamo andando a sbattere. Così si lascia campo libero alle velleità di chi vuol distribuire ancora qualche mancetta, mentre le cosiddette “contromanovre” sembrano, perché non le abbiamo ancora viste, orientate all’eterno sogno di allargare la spesa pubblica, che è proprio quello che si deve evitare.

C’è un problema di percezione di insicurezza nella gestione dell’ordine pubblico: gli uni sfornano nuovi reati da colpire con pene severe, gli altri denunciano politiche repressive che sarebbero senza senso. Ben pochi si pongono il tema del perché molti reati rimangono impuniti, a partire ad esempio dall’occupazione abusiva di case giusto per dirne una. Se siamo arrivati al punto che senza una leggina specifica che descriva nei dettagli una fattispecie specifica non si riesce a mettere forze dell’ordine e magistratura in grado di colpire i fenomeni una qualche ragione ci sarà pure.

Due grandi sindacati proclamano uno sciopero generale che è quantomeno atipico? Ci si divide fra chi come Salvini la butta subito in caciara, chi sbraita a difesa del popolo in lotta che sarebbe maggioranza (ma il fatto che un terzo grande sindacato non ci stia, non significa proprio nulla?), chi si butta da una parte e chi dall’altra.

Si è messa in campo una riforma costituzionale sull’assetto della presidenza del Consiglio che avrebbe potuto portare a larghe intese visto che in precedenza era stata in qualche modo ventilata a destra come a sinistra. La si deve trasformare in un pasticcetto perché da un lato di devono rincorrere le bandierine di partiti (la Lega che vuol salvarsi la possibilità di fare quei ribaltoni che dice di voler impedire, le sinistre impigliate nello stucchevole ritornello della difesa della costituzione così com’è).

Che tutto sia governato ormai dall’ottica della lotta elettorale per i voti alle prossime europee l’hanno capito quasi tutti, come risulta anche dai sondaggi d’opinione. Adesso più di un commentatore attira la nostra attenzione sul fatto che siamo ai duelli personalizzati: Salvini vs. Meloni, Schlein vs. Conte, con le varianti del confronto diretto che ci sarebbe fra Meloni e Schlein per il centro della scena e i tentativi dei partiti meno forti, a cominciare da Forza Italia con Tajani, di fare a gomitate per guadagnarsi uno spazietto almeno in seconda fila. Proposte di contenuti: pochine per non dire di peggio.

Eppure intorno non è che spiri una gran bella aria. Delle guerre siamo tutti al corrente, anche se l’ultima spinge fuori dei riflettori la prima: si veda quel che accade con l’Ucraina dopo l’esplosione del conflitto fra Hamas e Israele. Ma ci sono problemi di equilibrio generale nel sistema mondiale. Quel che è avvenuto in Argentina con l’elezione presidenziale di un esponente dell’estrema destra utopista non dovrebbe essere preso sotto gamba. La gestione del prossimo G20 a cui torna a partecipare Putin nel momento in cui sembra consolidarsi un’alleanza antioccidentale dei cosiddetti Brics dentro cui stanno India ed Iran, per non dire di Cina e Russia qualche campanello d’allarme dovrebbe pur averlo fatto squillare.

Ciò che succede nell’Unione Europea non dovrebbe essere sottovalutato. La scarsa forza della Commissione in rapporto al Consiglio è stata evidenziata da Romano Prodi, che di queste cose se ne intende. L’Italia si trova incastrata a contestare una riforma delle regole di bilancio comunitarie che i vertici tedeschi e i loro alleati del Nord misurano sulle loro egoistiche fortune (e dire che non è che siamo messi gran che bene …), i vertici francesi vedono solo la necessità di accordarsi coi tedeschi per salvare il loro tornaconto, negli altri tutto è piuttosto confuso. Il nostro paese come è stato più volte ricordato da molti osservatori si trova in posizione debole, perché ha normative che si è stupidamente rifiutato di applicare (la concorrenza a partire dai balneari), perché fa inutili barricate sull’approvazione del MES e perché mantiene un deficit preoccupante.

In un contesto del genere ci sarebbe bisogno di solidarietà nazionale, o almeno di un confronto responsabile fra le forze politiche. Paradossalmente la agenzia di rating Moody’s ha detto che l’Italia ha prospettive stabili per rimanere come adesso con una valutazione che pone i nostri titoli di debito poco sopra il livello di titoli spazzatura. Tutti contenti? Significa solo che la previsione è che rimaniamo intrappolati in questo assurdo festival della radicalizzazione che esalta le forze politiche, ma che consente all’economia di tirare avanti più o meno come al solito. Col suo buono, il suo meno buono e il suo decisamente cattivo.

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Wed, 22 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[La grande ipocrisia della giornata mondiale dei diritti dell'infanzia]]> Lo so che non è giornalisticamente ortodosso cominciare un articolo con una domanda ma credo che questa volta si possa fare un’eccezione: con quale faccia, coscienza e coerenza ci accingiamo a celebrare il 20 novembre la Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”?

Non c’è luogo del pianeta dove questa ricorrenza avrebbe un senso e una valenza di onestà intellettuale e morale. Guerre, catastrofi umanitarie, morte, distruzione, persino stupri e violenze, cosa dico, vilipendio dei cadaveri fanno inorridire il mondo, disperare le madri e i padri, spezzare il cuore di chi può chiamarsi ‘persona’: i social media ci mettono di fronte ad uno spettacolo terrificante e indegno, l’infanzia è violata e la vita negata persino sul nascere. Sono i bambini le vittime più innocenti dell’insensata crudeltà a cui i bombardamenti, i droni, i missili, le armi, le città e le case rase al suolo, le scuole e gli ospedali presi di mira e distrutti sottraggono il diritto di nascere e di crescere in un contesto familiare e sociale di amore, affetto e rispetto.

Un orrore senza fine che l’evidenza di ciò che accade in Ucraina, in Israele, a Gaza ci indigna e ci addolora profondamente, ci fa piangere e pregare che tutto finisca presto, che l’uomo non sia così spietato e insensato da estirpare la pianta della vita e fare scempio di una generazione che nulla sa, nulla può, nulla conosce di quanto cattivo, criminale e dissennato possa essere l’animo umano.

La desolazione accompagna le immagini e i reportage che per quanto spieghino e facciano vedere- non rendono ragione di un eccidio a cui la potenza e la capacità distruttiva delle armi conferiscono l’iconografia della distruzione totale. Migliaia di giovani creature vengono uccise senza alcuna pietà e ciò per un disegno politico delirante di conquista, annientamento e potere e – peggio ancora – in nome di Dio, di un Dio che nella nostra immaginazione non conosciamo perché spietato e vendicatore.  Quando la religione arma la mano di assassini efferati diventa dottrina dell’orrore, dello scempio dell’esistenza terrena, fomenta l’odio viscerale e non lascia certo spazio ad un dialogo possibile: non ci potrà mai essere redenzione per ciò che è premeditato omicidio ma viene chiamato martirio.

La Terra non ha pace, l’olocausto si rinnova e diventa dissoluzione e annientamento del genere umano: di quale dialogo interreligioso si va farneticando, fin dove arriva l’illusione delle diplomazie? In ogni angolo del pianeta i minori subiscono angherie e soprusi di ogni tipo, anche nei Paesi che chiamiamo civili ed evoluti sono vittime di abusi ancor più sofisticati: per strada, persino a scuola, nei luoghi di culto e in famiglia conoscono la doppiezza e l’umiliazione di essere violati da chi dovrebbe proteggerli.

Il quadro – sullo sfondo di una estinzione della vita sul Pianeta adombrato dall’ONU e dagli scienziati per la catastrofe ambientale già innervata in tutti i contesti e incombente senza preavviso – è da cupio dissolvi. E al centro dello sfascio ci sono i minori, vittime della ferocia umana.  Deportati in Siberia, decapitati in Israele, resi ostaggi o massacrati a Gaza, caricati nei barconi dei naufragi, venduti al macello ovunque la miseria, la fame, la povertà, le deprivazioni li rendono merce nel commercio del sesso e della droga, mutilati dalle mine antiuomo, armati per combattere o per imparare a uccidere, analfabeti per restare sudditi, precocemente adultizzati, schiavi dominati dai social, deprivati dell’identità dalle tecnologie, a volte vittime dei carnefici a cui sono affidati per essere educati e cresciuti: che cosa dovremmo celebrare nella giornata dell’infanzia e dell’adolescenza? Diritti che sovente sono calpestati dall’egoismo degli adulti e che rendono questa età della vita il tempo dell’innocenza perduta. E’ una ricorrenza – se mai-  che mette l’umanità al cospetto di quella coscienza collettiva che chiamiamo civiltà.

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Sat, 18 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Torna la questione sindacale]]> In questo paese che non riesce a liberarsi dal meccanismo dell’eterno ritorno stiamo marciando all’indietro verso la querelle che infiammò l’origine della nostra repubblica: il tema dello sciopero politico. La frattura fra la CGIL di Landini, che si è annessa in qualche modo una UIL sempre più debole, e la CISL di Sbarra è un fenomeno che meriterebbe più attenzione di quella che le destina la solita polemica di basso profilo che si incarica di aprire un Salvini disposto a tutto pur di tenere in qualche modo la scena.

Se nella prima fase della nostra repubblica il conflitto era tra un sindacato che era chiaramente una appendice del partito comunista e un sindacato che era nato dall’impulso del mondo cattolico a liberarsi da quella sudditanza (e che avrebbe cercato poi di costruire una sua diversa forma di sindacalismo), con il tramonto della guerra fredda e delle sue contrapposizioni quella spaccatura era andata dissolvendosi. Non a caso era cresciuta la domanda di unità sindacale, che non si era mai compiutamente realizzata, se non per un breve periodo nel settore dei metalmeccanici. Per il resto le “macchine” organizzative non amano dissolversi e le alleanze si potevano anche fare, e si sono fatte, ma ciascuno manteneva le sue bandiere, gerarchie, insediamenti. Erano i tempi della famosa “triplice” che riuscì a condizionare non poco, tanto in positivo quanto in senso piuttosto corporativo le politiche pubbliche.

Allora i tre sindacati potevano davvero presentarsi come una alternativa parziale in termini di rappresentanza ai partiti politici sempre più in crisi e giungere a lavorare con vari governi per un contenimento delle sbandate, finanziarie e non, che minavano la tenuta del paese. Era il tempo della concertazione, di un certo dialogo per esempio tra Ciampi e i sindacati, di una limitata cooperazione con diversi governi. Tempi da valorizzare per tanti aspetti, non da ultimo per la barriera che i sindacati eressero allora contro la penetrazione nelle fabbriche dell’estremismo, anche terrorista, dell’estrema sinistra.

Da qualche tempo stiamo assistendo ad una trasformazione della presenza sindacale. Nella fase di turbolenta transizione in cui ci è toccato vivere, l’utopia di un sindacalismo messianico che potesse salvare il paese dalle sue debolezze strutturali è andata sempre più crescendo e affermandosi. Cofferati ha responsabilità in questo cambiamento, che fu indubbiamente favorito dall’egemonia effimera del berlusconismo che portò il nostro sistema politico a cadere nella trappola del presunto conflitto fra angeli e demoni. È difficile non vedere che peraltro il sindacato stesso è stato corresponsabile del deteriorarsi della situazione sociale con una certa azione a favore dei “garantiti” contro le fasce giovanili che faticavano a trovare posto nel mercato del lavoro, con non poche difese di ceti almeno un tempo privilegiati come erano quelli dell’impiego pubblico e para pubblico, con una non piccola difficoltà a contrattare con datori di lavoro che peraltro quanto a lungimiranza nell’analisi delle mutazioni in corso non erano proprio attrezzati.

Tutto questo porta una parte del sindacalismo attuale a regredire quanto a cultura politica alle intemerate dei vecchi slogan più o meno sessantottini, alle mitologie delle contrapposizioni contro il nemico storico del fascismo che non si sa più bene se possa davvero esistere, ai mantra sulla forza dello sciopero generale. Roba d’antan, talora da primo Novecento, in un mondo dove tutto sta cambiando. La novità relativa è che quel tipo di sindacato pensa di essere in grado di essere non una base per il partito o i partiti della “sinistra”, ma di essere lui la guida dell’alternativa politica a cui quella parte dovrebbe essere destinata dalla storia. Si può anche capire quanto forte sia questa tentazione quando i partiti della sinistra sono carenti di leadership politica, avviluppati a loro volta in mitologie di retroguardia, mentre al governo c’è quella componente che, sempre nelle mitologie storiche, non avrebbe mai potuto tornare al potere, cioè una destra che non ha remore a presentarsi come tale.

Ecco allora che Landini e i suoi riscoprono lo sciopero generale (generale si fa per dire) politico, non indirizzato ad un negoziato che porti alla formazione di un diverso equilibrio nell’organizzazione della manovra economica, ma ad un generico progetto di “ben altro” che non si sa bene non solo come finanziare, ma perché adesso dovrebbe essere improvvisamente a portata di mano dopo che sono quarant’anni mal contati che governi di vario colore politico non sono stati in grado di rompere la difesa della distribuzione corporativa dei redditi e delle risorse (che fra l’altro si sono ridotte in maniera sostanziosa).

È peraltro da rilevare che la CISL per ora almeno non sembra in grado di contrapporre agli sbandamenti dei suoi concorrenti una cultura sindacale forte, per cui deve limitarsi a star fuori dagli impeti vagamente radical-riformatori di chi ancora crede nella politica dell’agitazione come tale. Magari così potrà anche guadagnare qualcosa nella contrattazione col governo in carica (e con le sue propaggini nelle amministrazioni locali), ma non può illudersi di conquistare un po’ di egemonia senza impegnarsi con una cultura politica all’altezza di questa fase storica.

Insomma la questione sindacale è una roba seria. Ridurla alle sciocchezze di Salvini e alle controbattute spocchiose di Landini è qualcosa che ispira tristezza.

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Wed, 15 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[L'ennesima Grande Riforma]]> La riforma istituzionale proposta dal governo è stata variamente commentata e criticata. Forse sarebbe opportuno tornare su alcuni punti che sono stati oggetto di osservazioni. Nel nostro caso, tuttavia, ci fermiamo ad una constatazione: ad oggi, la Meloni ha gli stessi poteri del premier che vorrebbe veder eletto dal popolo. Grazie alla divisione delle opposizioni, uno sciagurato sistema elettorale costruito malissimo le ha regalato la maggioranza assoluta e comoda in entrambi i rami del Parlamento; il suo stile di conduzione ricorda - ad alleati e avversari - quello di una leader che controlla sia il suo partito, sia la sua maggioranza, sia il Parlamento (per non parlare della Tv pubblica) proprio come se fosse stata eletta dal popolo; come il suo premier plebiscitato, però, anche lei ha un punto debole, perché può essere sostituita in corso di legislatura, se c'è una crisi. L'unica differenza è che oggi il sostituto può essere un presidente tecnico (se dovesse servire, mentre in futuro una crisi epocale dovrebbe essere gestita dal primo politicante di turno) o da un altro leader (Salvini ci spera, ma non ci riuscirà) che però non avrebbe il potere di sciogliere le Camere (o forse sì, non si sa mai, se non ci fossero maggioranze alternative). Ma si può dire di più: già oggi la Meloni potrebbe avere il potere non formale ma sostanziale di scioglimento, se solo provocasse una crisi, rendendo politicamente impossibile un governo dai Cinquestelle alla Lega che nel 2021 era fattibile ma ora no. Quindi, senza riforma, la Meloni potrebbe spedire oggi alleati e avversari alle urne (soprattutto nel caso in cui alle europee FdI prendesse il 30, la Lega il 7-8 e FI il 5-6%) mentre con la revisione costituzionale i suoi alleati potrebbero "costringerla" a fare un nuovo governo o spingerla a scegliere un successore (ma anche qui potrebbe accettare il bis per poi dimettersi subito e andare al voto). Quindi, se la Meloni vuole una riforma che riproduca la situazione attuale senza darle neppure il potere di revocare un ministro, perché lo fa? Per governare anche nella prossima legislatura (cosa che potrebbe accadere pure, facilmente e verosimilmente, se il "campo largo" con Pd e M5s non decollasse mai)? Il punto è che le promesse elettorali sono fatte per essere disattese, ma questo il popolo non lo sa (o meglio, fa finta di non saperlo per poi indignarsi ipocritamente, pur di non ammettere di aver sbagliato a votare il partito che magari è stato scelto a caso al momento di entrare nella cabina elettorale). Quindi, visto che sulla diminuzione delle tasse, sul controllo dell'immigrazione (nonostante la geniale trovata di rivolgersi all'ex colonia albanese), sulla "svolta" da dare all'Europa (che intanto osserva i nostri conti e aspetta una ratifica del Mes che la destra ha paura ad approvare, per non farsi inseguire coi forconi dai suoi elettori) non ci sono progressi ma solo magre figure, esce dal cilindro la riforma istituzionale: un po' perché c'è l'autonomia differenziata della Lega (un altro obbrobrio) e bisogna pareggiare il conto, un po' perché era stato promesso il presidenzialismo (e magari il sostenitore si può far andar bene anche questo premierato elettivo sui generis) e un po' perché la Grande Riforma è sempre stato il sogno dei politici che volevano passare alla storia (e che regolarmente sono stati travolti). La battaglia sul referendum costituzionale sarà di sicuro divertente, ma - in caso di approvazione popolare della riforma - lo sarà ancora di più la disputa sulla legge elettorale (la destra non vuole il doppio turno, che di solito la penalizza; dunque, pensa di avere il 55% magari col solo 30% dei voti di FdI? E come si farà col Senato, eletto su base regionale ma gravato di un premio verosimilmente nazionale?). Se non fosse un argomento estremamente serio, ci sarebbe da sorriderne.

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Sat, 11 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il sogno americano di John Fitzgerald Kennedy, sessant'anni dopo]]> Se alle 12:29 del 22 novembre 1963 la Lincoln Continental presidenziale - dove JFK sedeva in seconda fila - entrando in Dealey Plaza a Dallas avesse proseguito diritto su Main Street, come inizialmente era previsto, anziché svoltare a destra su Houston Street ad una velocità di circa 18 km/h, passando lentamente di fronte al deposito di libri della Texas School dove il suo assassino si era strategicamente appostato, forse il Presidente Kennedy si sarebbe salvato da quel pericoloso viaggio elettorale in Texas, ricco di nefaste premonizioni e carico di un clima apertamente ostile a quella visita. Ma John Kennedy che era consapevole dei rischi che correva - tanto da averne premonizione la stessa mattina -decise di affrontare il suo incerto e rischioso destino. La storia non attende i ‘ma’ e i ‘se’ e compie inesorabile la sua parabola: tutto era stato orchestrato affinché in quel momento esatto a poche decine di metri di distanza Lee Oswald prendesse la mira e colpisse al collo e alla testa il Presidente che si accasciò tra le braccia di Jaqueline che gli sedeva accanto. La morte repentina al Parkland Memorial Hospital e ciò che avvenne quel giorno fatale - i dettagli macabri di quell’avvenimento, con i volantini listati ad un lutto annunciato, distribuiti alla folla lungo il tragitto che dall’Aeroporto di Dallas portava al luogo in cui Jack avrebbe tenuto il suo discorso, il rapido giuramento di Lyndon Johnson, le indagini, i depistaggi appartengono alla Storia di uno degli eventi più drammatici del 900. Compresa la successiva uccisione dell’unico indiziato – Lee Oswald- da parte di tale Jack Ruby. La televisione, per la prima volta nella storia, seguì una diretta non-stop per quattro giorni. L'assassinio del presidente Kennedy fu la più lunga ininterrotta sequenza di notizie nella storia dell’informazione giornalistica televisiva fino alle ore 9:00 dell'11 settembre 2001, quando i network trasmisero programmi in diretta per 72 ore consecutive, in seguito all'attacco terroristico al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington.

Sono stati scritti innumerevoli memoriali ufficiali e libri divulgativi (tra cui ‘L’America di Kennedy’e ‘John F. Kennedy. Il nuovo sogno americano’ di Furio Colombo che allora viveva negli USA e ne era profondo conoscitore) su quel terribile evento ma non tutte le zone d’ombra sono state illuminate dalla verità. Tutta la vicenda appare come avvolta in un gigantesco, orchestrato complotto che avvinghiava la politica, la malavita, gli interessi e i potentati economici, le grandi lobby. Il più importante documento di inchiesta per venire a capo di una verità che nonostante la mole di lavoro immensa  - le indagini dell'FBI fornirono oltre 25.000 interviste, 2.300 rapporti, 553 interrogatori- rimase successivamente velata da dubbi, incongruenze, coperture, connivenze e menzogne, fu quello elaborato dalla Commissione Warren che nel settembre 1964  presentò il suo rapporto finale: «Lee Harvey Oswald ha ucciso da solo il Presidente; Jack Ruby ha ucciso da solo Lee Oswald».

Ciò che John Fitzgerald rappresentava per gli USA e per il mondo intero, il suo carisma, il fascino del “grande sogno americano” (la fine della guerra fredda, l’apertura all’Unione Sovietica che passava attraverso gli incontri e gli scambi epistolari con Nikita Kruscev, l’inizio di un’era di pace duratura, l’attenzione alle minoranze etniche, la sintonia ideale con Martin Luther King, la fine della crisi dopo i missili di Cuba, l’idea di una democrazia partecipata ed estesa a tutte le fasce di popolazione, di fatto ancor oggi  un concetto di democrazia insuperato in ogni parte del mondo, al quale si è ispirato ad es. Tony Blair) una visione poi ereditata dal fratello Robert anch’egli tragicamente scomparso in un attentato nel 1968 per mano dell’immigrato giordano-palestinese Shiran Shiran, sono transitati nella memoria collettiva di chi visse quegli anni e presso gli storici e cultori postumi come una stagione irripetibile che riguardava l’America certamente ma anche il mondo intero.                                                         

Perché - come diceva JFK - “parlare di pace deve essere l’unico scopo razionale di ogni uomo razionale: osservando oggi il nuovo ordine (dis-ordine?) mondiale che va configurandosi, la devastante guerra in Ucraina, l’aggressione di Hamas ad Israele e il terribile conflitto che ne è scaturito,  la pendente minaccia su Taiwan, l’emergenza di nuove potenze economiche e nucleari come Cina e India, il fondamentalismo islamico, la bomba latente di un’Africa pronta ad esplodere, oggi come e più di allora, il tema della concordia e della convivenza pacifica dei popoli e delle Nazioni si impone ancora una volta come cruciale.

Correvano i primi anni 60, chi li ha vissuti ricorda le speranze legate ai grandi temi dei diritti civili e sociali, all’apertura della Chiesa cattolica alla scienza e al dialogo delle diverse fedi, alla crescita economica, all’uguaglianza tra i popoli, alla messa in archivio dei residui ideologici post-bellici: ricorda Martin Luther King, John Kennedy, Nikita Kruscev, Papa Giovanni XXIII. Uno spicchio significativo e denso di storia compreso nel periodo considerato da Eric J. Hobsbawm nel suo libro “Il secolo breve 1914-1991”, che va dalla fine della prima guerra mondiale alla caduta del comunismo.  

John Fitzgerald Kennedy fu l’uomo delle grandi speranze collettive, e segnò una presenza indelebile nella cornice di quel tempo, artefice di una “Nuova Frontiera” che aprì ma non riuscì a realizzare.

Consapevole delle barriere da abbattere, a partire dal suo Paese ma anche dai muri ideologici retaggio della seconda guerra mondiale, come quando il 26 giugno 1963 a Berlino in piena guerra fredda e con una città appena divisa dal muro, “Jack” pronunciava presso la Porta di Brandeburgo la storica frase: “Ich bin ein Berliner” («Io sono un berlinese»).

Ma già nel suo discorso d’insediamento del 20 gennaio 1961a Washington come 35° Presidente degli USA, quando rivolgendosi ai cittadini ebbe a dire «Non chiedete che cosa il vostro paese può fare per voi; chiedete che cosa potete fare voi per il vostro paese. Miei concittadini del mondo, non chiedete che cosa l'America vuole fare per voi, ma che cosa insieme possiamo fare per la libertà dell'uomo». Un invito al senso del dovere che la lunga stagione della tumultuosa cavalcata dei soli diritti pare abbia davvero dimenticato.

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Sat, 11 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Il dibattito incomprensibile sul premierato elettivo]]> È francamente molto difficile inquadrare in qualche logica il dibattito intorno alla riforma proposta dal governo e che mira ad introdurre un confuso premierato (in verità un mezzo premierato) elettivo. Ci permettiamo di offrire qualche elemento per capirci qualcosa.

Punto primo: la radice dell’attuale assetto costituzionale. Chi ha letto gli atti dell’assemblea costituente sa che anche allora ci fu un dibattito sull’introduzione della figura del “primo ministro” all’inglese (premier questo vuol dire) che fu scartata perché non la si ritenne possibile in un contesto pluripartitico anziché bipartitico come in Gran Bretagna. Da noi ci sarebbe stato quello che negli atti viene definito un “governo di direttorio”, cioè un esecutivo che doveva tenere insieme più partiti nessuno dei quali era disponibile a riconoscere ad uno solo la primazia. Come vedremo siamo di fatto ancora fermi a quel tornante.

Punto secondo: l’argomento per cui il Presidente della Repubblica sarebbe libero di dare l’incarico a prescindere dal risultato elettorale regge relativamente. Alla chiusura delle urne se c’è un partito dominante e se questo è compatto nell’indicare un suo leader il Quirinale ha sempre dato l’incarico a questi. È avvenuto poi in maniera chiara quando si è introdotta con Prodi e Berlusconi l’indicazione del leader di fatto nella scheda elettorale delle rispettive coalizioni.

La cosa non ha funzionato in due casi. Il primo è una vittoria senza un vero vincitore con la maggioranza necessaria (il caso per citare i più recenti di Bersani o del contesto che portò al primo governo Conte). Il secondo è quando in corso di legislatura il presidente del Consiglio più o meno indicato dalle urne ha perso la sua maggioranza e non ne è emersa una alternativa. Allora il Quirinale ha potuto lavorare per la formazione di un governo che evitasse uno scioglimento traumatico e/o rischioso della legislatura fino al punto di farlo coagulare intorno ad un leader non estratto dai partiti (tecnico non è un termine veramente esatto).

La riforma presentata dal ministro Casellati punta a risolvere maldestramente questi ultimi aspetti. Con la votazione diretta del candidato premier si evita che ci sia un esito elettorale che lascia incerti sulla persona scelta dal “popolo” per quella carica. Però siccome si è ancora nella cultura del “direttorio” dei partiti si vuole salvare il potere di questi. Di conseguenza la riforma non fornisce il premier del potere di scelta e di dismissione dei suoi ministri, né consente che ove l’eletto perda la sua maggioranza parlamentare ci sia un obbligo di rimettere la scelta nelle mani degli elettori. I partiti dell’attuale coalizione non tollerano questi scenari e per sfuggirvi hanno inventato un ircocervo. Il premier, che non si è potuto scegliere i ministri, né che può controllarli mandandoli a casa se fanno le bizze (dunque rimane schiavo del vecchio tradizionale contesto della partitocrazia pur nella nuova versione di oggi), qualora venga sfiduciato può in teoria tentare di ricomporre la fiducia su di sé si suppone con qualche mercanteggiamento (comprandosi quei parlamentari di maggioranza che l’hanno silurato o comprandosene un po’ nell’opposizione), ma poiché anche chi ha inventato questo marchingegno si rende conto che ciò sarà piuttosto difficile, si è deciso che ci potesse essere un nuovo premier ovviamente non votato direttamente dal popolo, purché fosse della stessa coalizione che aveva vinto le elezioni e che dichiarasse di accettare il programma che questa aveva presentato (tutti sanno per esperienza che stiamo parlando di un misto fra carta straccia e libri dei sogni, sicché si può aderirvi formalmente rimanendo liberi di farne quel che si vuole).

Terzo punto: la denuncia del depotenziamento dei poteri del presidente della Repubblica. Anche qui stiamo parlando di una configurazione più che eterea. Il Quirinale era stato disegnato originariamente come poco più che un notaio: Einaudi più o meno interpretò così il suo ruolo. Poi gli inquilini di quel Colle hanno fatto politica attiva a fronte di un sistema che poteva essere orientato in qualche senso, o aveva perso ogni capacità di direzione della sfera pubblica. Qualche presidente ha fatto un uso molto responsabile e molto istituzionale di quel ruolo, ma è dipeso più dalle caratteristiche personali dell’inquilino del Colle che dagli strumenti che gli metteva in mano la Costituzione. Oggi si pensa che qualsiasi presidente elegga il parlamento sarà un nuovo Mattarella, ma con la composizione attuale delle Camere e col clima del paese ci permettiamo di avere dubbi al riguardo.

Ora è evidente, come è stato sottolineato dalla gran parte dei costituzionalisti, che il potere di arbitrato e di direzione dell’inquilino del Colle, eletto dalla classe politica del momento (magari a maggioranza semplice e risicata), sarà molto incerto a fronte di un premier che sia o eletto direttamente dal popolo o frutto di un colpo di potere delle stesse Camere che hanno votato per lui. Se si vuole evitare questo stato di cose bisogna mettere mano ad un incremento di legittimazione nel meccanismo di designazione del presidente della repubblica. Ma è un tema che nessuno vuol prendere a mano.

Ultimo punto: non si capisce perché la attuale maggioranza abbia scelto la via del pastrocchio scritto da Casellati e soci, anziché sfruttare il largo accordo che sarebbe possibile intorno ad una soluzione come il modello tedesco: premier (lì si chiama cancelliere) indicato dalle coalizioni in competizione, ma non formalmente vincolante (stessa cosa in Gran Bretagna); fiducia conferita solo al premier (possibilmente in una sola Camera) che nomina ed eventualmente licenzia i ministri; possibilità che sia sfiduciato solo se la maggioranza che lo censura indica contemporaneamente un nuovo premier che si impegna a sostenere. Se queste condizioni si rivelano impossibili il Capo dello Stato manterrebbe la facoltà di sciogliere la legislatura e richiamare i cittadini a votare.

Proviamo a dirlo brutalmente: con un sistema del genere Giorgia Meloni sarebbe molto forte, più forte che non con la sua pasticciata riforma (e lo stesso varrebbe per un suo successore di diverso colore). Ma non è a lei che non va bene, ma ai partiti della sua coalizione, che così si vedrebbero molto ridimensionati. Tutti sanno che sono loro, in particolare la Lega, ad avere spinto per le soluzioni cervellotiche (il porcellum è una inclinazione che da quelle parti fanno fatica a tenere sotto controllo).

Le opposizioni che fanno? Anziché battersi per una proposta alternativa ben calibrata che però risponda alle debolezze del nostro sistema attuale, si rifugiano nella solita lagna sulla costituzione che viene violata, nella speranza che così si vada ad un referendum confermativo che sperano affosserà la riforma e con essa il governo come sinora è sempre avvenuto.

Accolgano un suggerimento non richiesto: questa volta il rischio è molto più grande. Il referendum confermativo non ha quorum e dunque si ridurrà, temiamo, ad una battaglia fra i pasdaran degli opposti schieramenti e il fascino che può suscitare l’argomento del ridiamo il potere al popolo contro i giochetti dei partiti non va sottovalutato. Poi, come si è cercato di mostrare, non è affatto così, ma sono peculiarità che non sarà facile illustrare alla gente.

Converrebbe a tutti, governo, coalizione al potere e opposizioni impegnarsi a fare una buona e ragionevole riforma equilibrata facendola approvare con una maggioranza di due terzi. Ci risparmieremmo mesi di populismi di vario colore per avere alla fine, comunque vada, l’ennesimo pastrocchio che peserebbe sulla nostra capacità di governarci.

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Wed, 08 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Valorizzare la funzione ispettiva nella scuola dell'autonomia]]> Nella società interconnessa e delle relazioni globalizzate la scuola dell’autonomia rischia di celebrare il proprio isolamento autoreferenziale. Come sempre accade ad ogni innovazione legislativa, anche dopo l’approvazione dell’autonomia scolastica (legge 59/1997- DPR 275/1999 e succ.ve disposizioni) si è creata una discrasia tra intenzioni del legislatore e attuazioni operative.

Ciò che rischia di saltare è l’identità e l’unitarietà del sistema nazionale di istruzione.

Molti sedicenti esperti, soloni della pedagogia del nuovo, aspiranti tuttologi e acritici cultori del localismo educativo aperto al mondo, stanno scavando una voragine che va separando la scuola dei progetti e dell’autogestione priva di controlli dalla tradizione culturale ereditata, che viene così dimenticata o gettata al macero delle cose inutili.

Si tratta in genere di affabulatori che non mettono piede nella scuola da quando portavano i calzoni corti ma mietono proseliti riempiendosi la bocca di neologismi, sostituendo la lingua italiana con anglicismi di maniera, il lessico delle parole con sigle, acronimi, formule magiche sideralmente lontane dalla minima cognizione della realtà.

Parlare di autonomia scolastica per loro significa prendere le distanze da tutto, in nome di una qualità inventata che si avvalora da sola, senza un minimo controllo da parte di organi e soggetti titolari di un compito imprescindibile: quello di verificare il buon funzionamento di enti e apparati.

Lentamente da anni si sta espungendo la funzione ispettiva dal sistema formativo: eppure gli ispettori scolastici sono depositari di una funzione essenziale di controllo peraltro estensibile ad ogni istituzione, ente, comunità, servizio pubblico o privato che sia. Molto dello sfascio che ci circonda, dalla pubblica amministrazione, alla burocrazia, alle infrastrutture, al dissesto idrogeologico, al mancato rispetto delle regole, all’insicurezza sociale, all’universo sconosciuto del web, al venir meno del nesso tra cittadini e corpi intermedi dello Stato è dovuto all’assenza di controlli e verifiche.

Un tempo l’accesso alla funzione ispettiva avveniva tramite un concorso tra i più selettivi di tutta la P.A.: tre prove scritte da superare con 8/10 e una prova orale. Questa procedura è stata per lungo tempo inattuata e gli ispettori sono stati reclutati con il metodo dello spoils system, senza alcun vaglio di merito, anzi alterando, mistificando il senso etimologico del merito certificato e sostituendolo con la chiamata diretta: meriterebbe di essere approfondito questo asservimento degli organismi di controllo (come sono gli ispettori, figure terze tra ministero, istituti scolastici e cittadini) al potere della politica. Un problema che non riguarda solo il sistema scolastico ma l’assetto organizzativo e funzionale di qualsivoglia istituzione.

Patentini di esperti e compiti di verifica sono stati attribuiti a personaggi legati a doppio filo alla politica, pescati nella pletora dei ciarlatani incompetenti che  bazzicano nelle stanze dei partiti: i risultati li tocchiamo con mano in ogni ambito della vita quotidiana, nei disservizi di tutti gli apparati, enti e aziende dove la responsabilità è sempre di qualcun altro perché nessuno è titolato, per conoscenza, competenza, esperienza, capacità certificate, a svolgere compiti di controllo. Coloro che invocano i sistemi scolastici di matrice culturale anglosassone come modelli da imitare e trasformano i corsi di formazione dei docenti in paccottiglie pedagogiche di neologismi stranieri – magari spendendo i fondi del PNRR- non sanno quello che dicono. Nei sistemi formativi a tradizione decentrata si è invertita la tendenza verso un “common core”, un curricolo nazionale: troppe diseguaglianze nelle scuole dei localismi municipali, troppe ingiustizie nelle assunzioni per chiamata.

Nel Regno Unito gli “ispettori di Sua Maestà” (Her Majesty’s Inspectors) sono stati affiancati da un sistema di valutazione esterno – l’OFSTED Inspectors al cui vertice c’è l’Ispettore Capo di Sua Maestà (His/Her Majesty’s Chief Inspector), nominato direttamente dal sovrano per un periodo di cinque anni. Inoltre tutte le scuole sono valutate periodicamente dal corpo ispettivo. Noi attingiamo da quel sistema formativo solo ciò che ci fa apparire avanzati e adeguati alla patina superficiale del nuovo ma le nostre scuole finiscono per diventare monadi autoreferenziali impenetrabili.

La funzione di controllo è invece garanzia dei diritti di famiglie, studenti, docenti e dirigenti scolastici di tutela della legalità per far parte di un’autonomia che non diventi privilegio dell’hortus conclusus. Giungono ai sindacati, alle riviste di settore, alle associazioni professionali lamentele circa un surplus di burocrazia (che l’autonomia avrebbe dovuto stemperare): troppe riunioni, troppi progetti, troppe complicazioni inutili (a cominciare dal registro elettronico che viene imposto nonostante la Cassazione l’abbia dichiarato non obbligatorio) che distolgono i docenti e li allontanano dalla classe. Se un ispettore dovesse far visita ad una scuola per valutare la qualità dell’insegnamento o per un contenzioso da dirimere, quel registro criptato da username e password non potrebbe consultarlo: una cosa assurda ma legittimata da una prassi accettata nonostante la sua compilazione sottragga tempo all’insegnamento. È venuto il momento di rivedere alcune consuetudini che la politica ha contribuito a socializzare con banali metafore come “i presidi sceriffi” e i “capitani delle navi”. Sarebbe utile all’autonomia scolastica un corpo ispettivo selezionato e competente, per facilitare le dinamiche reciproche tra l’innovazione proposta a livello centrale-nazionale e quella operativamente praticata nelle scuole del territorio.

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Sat, 04 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Le riforme costituzionali non sono slogan]]> Giorgia Meloni riesce a far digerire alla sua maggioranza una legge di bilancio piuttosto austera. Il prezzo è un po’ di concessioni più d’immagine che di sostanza, giusto perché ogni alleato possa avere la sua bandierina da sventolare. Dietro quella c’è ben poco. La norma sulle pensioni accontenta Salvini con quota 103 anziché 104, ma utilizzarla è così difficile e penalizzante che la useranno in pochissimi. La gente se ne accorgerà e la Lega non avrà gratitudine. La riduzione delle tipologie di affitti brevi da portare dal 21 al 26% di cedolare secca è compensata con una norma che dovrebbe portare all’emersione di un enorme mercato nero che si annida in quelle tipologie: se la applicano davvero non porterà voti della speculazione edilizia a Forza Italia.

Vedremo se davvero tutto andrà in parlamento senza essere insidiato da emendamenti della maggioranza (quelli dell’opposizione sono scontati). La vittoria che al momento sembra avere ottenuto la premier ha fatto parlare di premierato già in essere, il che renderebbe inutile la riforma costituzionale che dovrebbe essere varata in settimana. Ma non è così.

Per quel che se ne sa dalle anticipazioni dei giornali (al solito non c’è ancora un testo che sia possibile analizzare) la riforma predisposta sembra dal tandem Casellati-Calderoli (con varie supervisioni: Mantovano, Fazzolari, ecc.) ci pare singolarmente infelice. Come è quasi sempre avvenuto con le riforme istituzionali varate nell’ultimo quarantennio sono più furbate per garantire ad una specifica forza politica posizioni di forza inattaccabili che non disegni con una qualche visione dei problemi in campo.

Prima di entrare nel merito di quel che è trapelato sulla sostanza del provvedimento, ci togliamo lo sfizio di segnalare un fatto che dimostra quanto la mancanza di visione sia tipica di queste politiche. Sembra infatti che sarebbe abolita la possibilità per il presidente della repubblica di nominare i senatori a vita. Ora se c’era una norma che in teoria suggeriva l’opportunità che in parlamento fossero presenti anche “intelligenze” sottratte alle possibilità di designazione elettorale in mano ai partiti era quella. Certo in passato era servita anche, talora soprattutto per monumentalizzare qualche leader politico-parlamentare, ma non era questa la ratio e da qualche tempo non era più così. Che poi non sempre le scelte siano state fra le più illuminate è un altro paio di maniche.

Trattandosi di un numero esiguo di senatori (cinque in tutto; i tentativi di ampliarli surrettiziamente è fallito) non alteravano equilibri politici, se non quando questi mancavano, mentre davano il messaggio che fosse opportuno che la politica sentisse anche la voce delle “intelligenze” del paese. Di qui l’incomprensibilità della norma che li abolisce.

La ratio della riforma che introduce il premierato è solo quella di affidare alla scelta di un momento elettorale la decisione su a chi consegnare il paese. Quella scelta per cinque anni diventa irreversibile, se non al costo di sciogliere la legislatura e ritornare alle urne. Si sostiene che la bontà di questo schema sarebbe dimostrata dal buon funzionamento che mostra nella vicenda dei sindaci e dei presidenti di regione. A parte il fatto che anche questo andrebbe dimostrato, perché non mancano casi in cui il non potersi liberare del vincitore delle elezioni non si è rivelato esattamente una buona cosa, rimane che altro è il potere di sindaci e “governatori” che sono contenuti dal quadro delle decisioni legislative e amministrative nazionali. Il premier non ha secondo la riforma prospettata altri poteri che possano quantomeno condizionarlo. Non sarebbe più tale il presidente della repubblica, che non solo si trova ad un livello di legittimazione inferiore in quanto eletto dal parlamento e non come il premier dal popolo, ma che poi perde qualsiasi capacità di governare eventuali crisi del sistema politico.

Non è tale il parlamento che essendo di fatto privo del potere di dare o togliere la fiducia conterebbe assai poco. Infatti nel momento in cui negasse la fiducia al premier eletto dal popolo dovrebbe accettare il rischio di vedere sciolta la legislatura e chiunque conosca anche un poco la storia dei parlamenti (non solo del nostro) sa che deputati e senatori non amano per nulla doversi imbarcare anzitempo in una nuova campagna elettorale. Per di più con lo scioglimento delle Camere si perderebbe il premio di maggioranza che la nuova legge elettorale, questa volta messa, sia pure per accenno, nel nuovo testo costituzionale, assegna alla coalizione che in sintonia col suo candidato premier ha vinto le elezioni.

Sia detto francamente: non si vede la necessità di portare i vincitori alla maggioranza garantita del 55% dal momento che comunque i poteri del premier sono tali da metterlo già al riparo da qualsiasi complotto parlamentare, visto che in caso di mancanza di fiducia di fatto diventerà quasi automatico lo scioglimento della legislatura (e si sa benissimo che ormai su qualsiasi legge importante il governo mette la fiducia …). In verità i confezionatori della riforma si sono salvati una piccola scappatoia per consentire colpi di mano dentro la coalizione che ha vinto le elezioni: infatti il presidente della Repubblica potrebbe in un caso relativamente raro designare un premier diverso da quello indicato dall’elettorato ma col vincolo che appartenga alla stessa coalizione del vincitore e che sia impegnato a realizzare il programma elettorale con cui questi aveva vinto (clausola piuttosto cervellotica: come dimostra proprio il caso dell’attuale governo, questi si guarda bene dal mantenervi fede, visto che ha realizzato che è impossibile…).

Si potrebbe cinicamente osservare che non si sa quante chance di successo nel referendum confermativo possa avere una riforma di questo tipo, visto come sono finite le riforme precedenti. Tuttavia questa volta sarebbe diverso. Innanzitutto non si voterebbe su un enorme pacchetto di riforme come in quei casi, così vasto che la gente non ci si raccapezzata: qui in fondo la questione è semplice. Inoltre il referendum sulle riforme costituzionali non ha quorum e dunque, con l’astensionismo che c’è e con la scarsa familiarità con questi temi, sono anche possibili esiti determinati da momentanee infiammazioni di opinione pubblica.

Insomma nell’impostazione di una riforma costituzionale che avrebbe anche potuto essere ragionevolmente negoziata raccogliendo, se ben fatta, un consenso vasto, la maggioranza di destra-centro ha mostrato dilettantismo e banale fascinazione per vecchie formule ideologiche.

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Wed, 01 Nov 2023 00:01:00 +0100
<![CDATA[Università telematiche: ciò che può fare la differenza]]> Propongo che dalla scuola dell’infanzia agli atenei Universitari più prestigiosi, gli addetti ai lavori delle istituzioni interessate a cominciare dai vertici della burocrazia del Ministero dell’Istruzione e del Merito e da quello dell’Università siano obbligati a frequentare ogni anno un corso intensivo di pedagogia comparativa: quel campo di studi e di ricerche che mette a confronto gli asset organizzativi e funzionali dei sistemi di istruzione del mondo. Siamo pregiudizialmente esterofili al punto di voler anglicizzare linguaggi, metodologie, programmi didattici delle nostre scuole e ostinatamente pervicaci nello sfrucugliare in casa nostra cercando tutti i difetti possibili ma nello stesso tempo distratti rispetto alle tendenze veramente innovative che si realizzano altrove. L’attuale dibattito sulle Università telematiche, la loro utilità, la serietà degli insegnamenti disciplinari, il reclutamento del corpo docente, i criteri di valutazione e controllo della qualità dei risultati, la validazione dei corsi di studi e dei titoli rilasciati – che dovrebbero essere i temi da approfondire - si riduce a diatribe intorno alle competenze dei Dicasteri senza escludere pregiudiziali di interessi, incompatibilità di ruoli, finanziamenti e primazie gestionali. Per non saper né leggere né scrivere, da ex ispettore del MIUR sono sempre stato interessato alle tematiche pedagogiche e alla produttività del servizio di istruzione. Se le cose non vanno molto bene o se ci sono sospetti di litigi e di torbidi suggerisco di mettere in moto le macchine dei nostri apparati istituzionali, alla ricerca delle eccellenze che fanno testo e producono conoscenza, formazione e innovazione, in casa e in trasferta. Ad esempio andando a leggersi ciò che si scrive nel sito del Premio “Ydal prize”, considerato il Nobel dell’Istruzione che quest’anno è stato assegnato a Shai Reshef, fondatore e Rettore dell’University of the People – con sede in California- “per lo sviluppo e la diffusione dell’Istruzione”. Anche i più accaniti opinionisti e autosedicenti depositari delle manovre di Palazzo avrebbero l’opportunità di documentarsi e auspicabilmente convincersi su ciò che conta davvero e produce esiti gratificanti e di livello nel complesso universo culturale delle Università telematiche. Se ciascuno di noi fa un passo indietro e prende atto della certificazione apicale dell’Ydal prize, si può forse tutti insieme prendere atto e capacitarsi di quali sono gli atout che in questo settore formativo veramente contano e possono fare la differenza. Rinunciando ad essere influencer culturali per indossare i panni dell’attento osservatore.

“A differenza di molte Università online, che sono molto costose e permettono di laurearsi grazie alla presenza costante di tutor anche a persone che hanno poco tempo da dedicare allo studio, questa Università offre una Istruzione inclusiva e a prezzi accessibili per ampliare l’accesso all’istruzione superiore di qualità ed è flessibile, adattiva, creativa e a basso costo. Molto diversa dalle altre università online. La differenza la fa il metodo.  Questi principi sono al centro della visione di Shai Reshef per University of the People, la prima università online accreditata con sede negli Stati Uniti. Lo studente non deve pagare tasse universitarie. Paga solo 60 dollari all’iscrizione e poi 120 dollari ad ogni esame sostenuto. Se l’esame non viene passato, deve ripagare di nuovo la fee per quell’esame e ripeterlo studiando daccapo. 

A differenza della maggior parte delle università cosiddette “telematiche”, sono inoltre a disposizione borse di studio per quegli studenti che le richiedono: in questo modo, chi merita può superare barriere economiche insormontabili, perché la borsa di studio può essere spesa solo per alleggerire il carico economico richiesto per sostenere gli esami.

Questo è un fattore molto motivante e costruttivo, che rimarca l’intento del Rettore e il proposito del progetto universitario. 

Ogni libro o dispensa richiesto è gratuito per lo studente, incluso l’accesso al JStore e alle maggiori librerie online, con decine di migliaia di tomi a disposizione. Videoletture, lezioni video o anche in PDF, ma anche siti interattivi preparati dai professori del corso dando accesso libero a quelle di prestigiose Università partner come il Massachusetts Institute of Technology (MIT), la Harvard Business School Online, l'Università di Edimburgo e la McGill University, con cui l’Università collabora strettamente. Gli studenti possono ottenere crediti che consentono loro di trasferirsi e studiare di persona presso alcune di queste prestigiose istituzioni.

Ogni settimana allo studente vengono assegnati dei compiti scritti che richiedono studio e preparazione costanti. Viene richiesto di compilare settimanalmente un Learning Journal valutato dal professore sempre con cadenza settimanale, di partecipare ad un forum di discussione con altri studenti anch’esso valutato sia dagli studenti che dal professore, un’assegnazione scritta con la risoluzione d’uno o più problemi, un quiz libero per verificare il proprio livello di preparazione, e ogni tre settimane un quiz con valutazione scritta pesata dal professore, fino all’esame finale. Ogni voto contribuisce al voto finale. La media di tutti i voti è monitorata costantemente e permette allo studente di accedere ad un numero di corsi per termine che va da uno a quattro. Di modo da non appesantire studenti che hanno meno tempo o meno bravi gratificando invece chi ha la media alta, che così può terminare prima il corso di studi. 

Ogni passaggio è tenuto strettamente sotto controllo dal sistema e dai professori, con particolare attenzione verso ogni forma di plagio, che è punita severamente anche con l’espulsione dall’Università. Copiare, all’University of the People, è praticamente impossibile. Abusare dell’intervento dei cosiddetti tutor, anche. Viene stimolato il senso critico degli studenti, chiamati settimanalmente a valutare l’operato di alcuni altri studenti, l’utilizzo delle regole dello stile APA per comporre un saggio accademico (che ogni settimana vengono chiamati a preparare per ogni materia).

Essendo completamente in inglese (come scritto, la sede è in California), include anche il progetto ESL (English Second Language), dando la possibilità d’ottenere la preziosa certificazione scritta. Per gli studenti di lingua araba è presente la versione in arabo del sito. 

Il voto non può essere rifiutato e incide sulla media pesata finale del voto di laurea.

I programmi di Laurea includono sia la Associate (l’equivalente della triennale) che la Bachelor’s (l’equivalente della laurea magistrale). 

Per chi è già laureato, viene offerto un ampio pacchetto di Master (con prezzi superiori per il singolo esame, ma sempre nelle medesime modalità).

Avendo fondato l'Università senza tasse scolastiche e senza scopo di lucro nel 2009, Shai Reshef è determinato a garantire che ogni studente qualificato delle scuole superiori in tutto il mondo abbia accesso a un'istruzione superiore di qualità. 

I corsi dell'University of the People si basano sui punti di forza dell'apprendimento virtuale, adattandosi agli impegni lavorativi e familiari, consentendo agli studenti di progredire al proprio ritmo e mantenendo i costi per gli studenti il ​​più bassi possibile. Il numero d’esami a cui si può partecipare contemporaneamente dipende infatti dalla media dei voti dello studente, valorizzando chi è bravo senza penalizzare o costringere ad estenuanti tour de force chi invece necessita di più tempo. Sotto la guida di Shai, il metodo di studio proposto dall’University of the People mantiene anche alcuni dei vantaggi di un'esperienza universitaria più tradizionale: classi di sole 25 persone, attenzione personalizzata e un consulente dedicato per ogni studente.  

In meno d’un decennio, il corpo studentesco dell'University of the People è cresciuta fino a raggiungere oltre 137.000 studenti in 200 paesi. Tre quarti dei quali provengono da Paesi in cui i bassi redditi e le risorse limitate rendono i posti universitari relativamente scarsi e fuori dalla portata di molti studenti qualificati. Altri si trovano ad affrontare barriere finanziarie, geografiche, culturali o politiche; 16.500 studenti sono rifugiati. 

University of the People continua a concentrarsi sulle competenze trasferibili e rilevanti per il posto di lavoro, con corsi di laurea e master in materie come Amministrazione Aziendale e Ingegneria Informatica, o Scienze della Salute.

Con i fondi del progetto del Premio Yidan, Shai intende continuare a far crescere l'University of the People, fornendo ad un numero sempre maggiore di studenti una soluzione completa ai problemi di accessibilità all'Istruzione”.


Avendo potuto verificare personalmente il grado di soddisfazione di studenti italiani che hanno intrapreso questo tipo di percorso, credo si tratti di una lettura interessante che offre spunti di riflessione importanti: la pedagogia comparativa disdegna chiacchiere e distintivi a favore dei fatti.

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Sat, 28 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Un orizzonte denso di nubi]]> Il destracentro si gode il successo in Trentino e in Alto Adige e finge che lo sia anche l’elezione suppletiva che ha consegnato il seggio senatoriale di Monza al forzista Galliani, sorvolando sul fatto che in quel collegio ha votato il 19,23% degli aventi diritto. Sul piano nazionale le cose non vanno altrettanto bene, anche se al momento la tenuta del governo Meloni non è insidiata seriamente.

Se si leggono i risultati elettorali astraendo dagli ovvi riscontri di chi ha vinto e chi ha perso in termini di conquista di seggi, c’è la conferma di società in profonda trasformazione. Il cinismo di una parte della classe politica pensa che siano cose che contano poco, l’importante è chi può reggere il mestolo della distribuzione dei dividendi a disposizione del potere, ma le trasformazioni hanno ricadute che prima o poi presenteranno il conto. Vale soprattutto per lo stabilizzarsi dell’astensionismo che continua a crescere anche in società che mantengono nonostante tutto buoni livelli di tenuta sociale. In Trentino ha votato il 58,3% degli elettori con un calo del 5,6% rispetto alle precedenti elezioni. In Alto Adige è andata un po’ meglio, ha votato il 71% degli aventi diritto ma lì c’è ancora una certa forza di mobilitazione per le tensioni etniche (interne ai sudtirolesi di lingua tedesca più che a quelli di lingua italiana …).

Dovrebbe colpire in entrambe le realtà un pluralismo di partiti piuttosto esasperato, che peraltro non ha salvato due partiti protagonisti di questo ultimo quindicennio: sono praticamente spariti sia Forza Italia che i Cinque Stelle. Certo da quelle parti non erano mai stati particolarmente forti, ma da lì a sparire ce ne corre. Nessun partito in Trentino può vantare un consenso di massa: il primo è il PD che raccoglie il 16,6% che rapportato come per gli altri al 60% dei votanti non può essere un risultato travolgente, né lo è il risultato della Lega (13%) e di FdI (12,3%). Un partito sorto quasi dal nulla come Campobase (centrosinistra), senza alcun leader carismatico a livello ufficiale, ha raccolto l’8%, segno che nella società ci sono spazi di manovra che potrebbero allargarsi.

In Sudtirolo finisce l’epoca del partito unico di raccolta per i cittadini di lingua tedesca e quella componente si fraziona fra estremisti dell’autonomia (se non della secessione) ed estremisti no vax e anti immigrati. Ma poi anche qui nuove formazioni con la rappresentanza della componente italiana molto indebolita (FdI si vanta primo partito degli italiani ma raccoglie percentualmente la metà dei consensi che aveva il vecchio MSI dei tempi della grande tensione). Tutti indizi di un mondo in trasformazione che non trova leader capaci di guidarla con una visione del futuro fuori dei vecchi schematismi, magari opportunamente riverniciati.

Sarebbe sbagliato considerare quel che avviene in queste terre come una prefigurazione certa del futuro: quando un sistema sociale e politico si mette in movimento non si sa dove si andrà a parare, dovremmo averlo imparato nell’ultimo trentennio. Tuttavia se consideriamo quel che è avvenuto come parte di una transizione che sta sconvolgendo il mondo, qualche domanda dovremmo farcela.

Il panorama nazionale rimane caratterizzato da una grande incertezza circa le ricadute che la crisi internazionale in corso avrà sul nostro paese. Della guerra in Ucraina si parla ormai poco perché l’attenzione è puntata sul Medio Oriente, ma quella rimane una questione chiave che probabilmente è stata anche una delle componenti dello scatenarsi dello scontro tra il terrorismo di Hamas e Israele. La Russia è più che attiva nella crisi attuale e chiede, neppure troppo implicitamente, che si accetti di riconoscerle un ruolo come possibile stabilizzatore sul versante mediorientale, il che significa lasciarle campo libero in Ucraina con la prospettiva di un possibile allargamento della sua espansione verso l’area balcanica. Gli Stati Uniti non stanno a guardare, ma ciò significa ricostruire quel fronte “atlantico”, cioè una interazione con l’Europa, fronte che era stato marginalizzato dopo la caduta del muro di Berlino. Naturalmente si pone così un problema per l’Unione Europea che dovrebbe esprimere una politica unitaria che fatica ad avere se non come generici discorsi di buona volontà.

In questo contesto cosa può fare l’Italia sempre più immersa in un confronto fra componenti politiche, economiche e sociali frammentate, proiettate più ad impossessarsi di tutte le “spoglie” che si possono ricavare da vittorie politiche occasionali e incapaci di costruire un consenso sia pure dialettico sulle esigenze che ci impone un futuro piuttosto oscuro? Ai politici di professione, ma sarebbe meglio dire ai politicanti di professione, queto modo di ragionare non piace: conta raccattare successi, più o meno ampi, più o meno parziali, il futuro lasciamolo, come si diceva una volta, sulle ginocchia degli dei.

Ma il futuro è dietro l’uscio. Con la situazione di finanza pubblica che abbiamo, con le sfide che ci pone il contesto internazionale, con il deteriorarsi delle agenzie che supportavano l’integrazione sociale, non ci vorrà molto perché le nostre numerose debolezze ci presentino il conto. Ad esso non si potrà rispondere sciorinando percentuali di sondaggi e neppure di voti, rilanciando demagogie a buon mercato sulla rapida soluzione delle nostre difficoltà: non funziona. Serve la costruzione di una solidarietà sociale che non ammette di arraffare prebende e posizioni per sé e per gli amici, serve una classe dirigente, politica, ma anche sociale, capace di leadership e di visioni.

Serve un cambio di passo. La sfida a chi fa politica oggi, da una posizione di maggioranza o da una di opposizione non fa troppa differenza, è questa.

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Wed, 25 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Esistono ancora il diritto allo studio e la libertà di insegnamento?]]> Tra i vari nuclei tematici che la scuola sembra aver perduto strada facendo il diritto allo studio e la libertà d’insegnamento sono indubbiamente quelli più rilevanti e con maggiore valenza simbolica e ricadute operative. Non si tratta tuttavia dei sassolini che Pollicino lasciava cadere dietro di sé per ritrovare la via del ritorno, quanto piuttosto di illustri convitati di pietra al banchetto della pedagogia oggi prevalente, acriticamente protesa al nuovo da inventare e dimentica della tradizione ricevuta. Eppure si tratta di principi fondativi del sistema di istruzione ai quali i padri costituenti avevano attribuito un ruolo centrale sul piano politico e culturale e riassuntivo rispetto ai compiti della scuola, nell’ottica dei diritti e dei doveri irrinunciabili. Ricordando i cento anni dalla nascita di Don Milani viene spontaneo evocarne la figura e l’opera educativa, non in senso retorico e celebrativo quanto per l’operosità e l’esempio, l’umiltà e la dedizione agli ultimi che hanno caratterizzato il suo essere maestro nella scuola e nella vita. Nell’Italia del secondo dopoguerra – che affrontava la ricostruzione del Paese afflitta dalla piaga del diffuso analfabetismo – egli fu una delle figure più rappresentative della volontà di riscatto e di crescita. Di lui il Presidente Mattarella ha detto: “Il motore primo delle sue idee di giustizia e di uguaglianza era appunto la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà. Anzi, le povertà. Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino. La scuola per conoscere”. A ben guardare è proprio il vulnus della povertà educativa una delle derive negative del nostro tempo: in questo fu precursore di una intuizione che avrebbe poi caratterizzato non solo il tema dell’uguaglianza delle opportunità di partenza ma anche il completamento di un percorso nel perseguimento dell’uguaglianza delle opportunità di arrivo. Fondamentali sono stati alcuni passaggi normativi come i Programmi della scuola elementare del 1955, l’istituzione della Scuola Media unica nel 1963 e della Scuola materna statale nel 1968 (fortemente voluta da Aldo Moro fino a provocare una crisi di Governo) , l’istituzione della scuola a tempo pieno con la legge 820/1971, la “mitica” legge 517/1977 che legittimò il principio della programmazione educativa individualizzata e l’integrazione degli alunni disabili e svantaggiati: in quegli anni il tema del diritto allo studio fu posto al centro del dibattito pedagogico, come attuazione dell’art. 34 della Costituzione e come impostazione metodologico-didattica- organizzativa di una scuola aperta al sociale e orientata a valorizzare le potenzialità di ciascun alunno. Erano gli anni dei famosi “decreti delegati” che operarono una trasformazione profonda nell’impianto del nostro sistema scolastico. Il tema della libertà d’insegnamento fu particolarmente rilevante per istituzionalizzare e incardinare nel sistema formativo la figura del docente, dei suoi diritti e dei suoi doveri: si può a ben vedere parlare di centralità della ‘funzione docente’ al punto che quella ‘direttiva’ e quella ‘ispettiva’ ne erano la derivazione per differenziazione di ruolo e attribuzione, a tali gradi si accedeva per concorso ma essere insegnanti era l’imprescindibile punto di partenza. Da qualche decennio il metodo e la prassi dello spoil system hanno investito in parte anche la scuola, specialmente nel reclutamento per chiamata da parte della politica degli ispettori che dovrebbero esercitare non solo un compito di vigilanza e controllo ma essere cerniera tra l’amministrazione scolastica centrale e quella periferica, valorizzando la terzietà della loro funzione, svincolata dai lacci e laccioli della gerarchia e legata alla valutazione tecnica e all’esperienza professionale messa al servizio del rispetto delle norme e dell’ortodossia dei processi di organizzazione del pubblico servizio scolastico.  Molto afflato sui temi del diritto allo studio e della libertà di insegnamento si è affievolito nei decenni successivi, paradossalmente in concomitanza con il progressivo emergere della lunga stagione dei diritti.             Perché l’uguaglianza di opportunità come ‘occasioni istituzionalmente date’ all’utenza scolastica propugnava – è vero- il diritto allo studio per tutti ma non lo disgiungeva dal dovere di perseguirlo. Raggiungere i più alti gradi degli studi non comporta un cammino in discesa: lo studio implica applicazione, metodo, diligenza e sacrificio. La stagione dell’uno vale uno e del tutto che spetta a tutti ha deprivato il processo di acculturazione e formazione soprattutto sul piano etico, le teorie della facilitazione e della semplificazione dei contenuti di apprendimento hanno completato l’opera di dissacrazione della scuola. Conta il risultato, non come arrivarci e questo spiega il fallimento scolastico, gli abbandoni e la cultura posticcia, omologata e impoverita. Ricordo un pensiero di Antonio Gramsci: “non si può render facile ciò che non può esserlo senza esserne snaturato”. Quando un sistema scolastico ridimensiona storia e geografia – che sono le coordinate spazio temporali della vita – per generare un mostriciattolo ibrido come la geo-storia vuol dire che si è fatto un passo indietro in “scienza e coscienza”. Gli insegnanti derisi e impallinati da adolescenti che sono meno studenti e più follower dei loro influencer, hanno poche speranze rispetto alla legittimazione della loro libertà di insegnamento. Gli istituti scolastici erano il tempio della cultura ora sono il luogo di sdoganamento dei social, nel nome delle nuove tecnologie: fermare le quali al cospetto della cultura tramandata è peccato di lesa maestà. Ma oggi i docenti e la loro libertà di insegnamento (che è libertà di metodo come pedagogia e dottrina insegnano) si trovano in una scuola diversa, magari più autonoma ma non per questo meno burocratizzata. Qualche Ministro ha inventato per i dirigenti scolastici le metafore dei ‘presidi sceriffi’ e dei ‘capitani delle navi”: ma anche costoro, oberati da pesanti responsabilità,  sono diventati vittime di un sistema reso più difficile e complesso, loro malgrado: troppe riunioni (sottraendo il tempo alla didattica e all’insegnamento), troppe circolari, troppe formule, sigle, acronimi: non ci si parla più, tutto viene formalizzato, irrigidito e irregimentato. Nella scuola dei progetti effimeri e senza controllo di merito o verifica finale, si perdono i sentimenti e le emozioni, anticamera della creatività, non c’è spazio per il pensiero divergente, tutto diventa difficile e complicato. A cominciare dai registri di classe rigorosamente elettronici, imposti anche se non obbligatori: carta e penna basterebbero per semplificare l’appello del mattino. Non tutto è così, anzi: la maggior parte dei Dirigenti scolastici guida la propria scuola con lodevole abnegazione, competenza e responsabilità. Ma la libertà di insegnamento è un orpello fastidioso che si va smarrendo nei meandri angusti di ciò che viene concesso nelle troppe e lunghe riunioni.: approvo/non approvo/ mi astengo. Gli insegnanti entrano in aula sfiduciati da un clima sociale sospettoso e a volte ostile, schiacciati da una burocrazia oppressiva, con le manette ai polsi della privacy e della trasparenza. Viva la scuola viva.

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Sat, 21 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Meloni: zoppica la stampella della politica estera]]> Proprio mentre doveva dare conto di una legge di bilancio non esattamente esaltante, a Giorgia Meloni sta venendo meno la stampella della politica estera che era stata sin qui un importante punto a suo favore. Certamente le scelte fatte per la finanziaria sono state tutto sommato ragionevoli e tali da mandare a Bruxelles e ai mercati un messaggio non allarmistico. C’è lo scivolone ridicolo di aver dovuto dare a Salvini i soldi per fare almeno un avvio di propaganda sul ponte di Messina (di più non potrà fare), ma era il prezzo per costringerlo a stare nei ranghi rinunciando alle sue varie bandierine (a cominciare dalla riforma delle pensioni). A Tajani ha dato un aumento delle pensioni minime che non si sa quanto potranno fruttargli sul piano elettorale. Le varie agevolazioni fiscali, nessuna scandalosa, servono più o meno a tutta la maggioranza.

Vedremo se i vantaggi dati ai redditi medio-bassi, apprezzabili in tempi di inflazione, frutteranno un po’ di consenso. Molto dipenderà dall’andamento dell’economia nel prossimo anno (che è il limitato orizzonte temporale in cui valgono la maggior parte dei vantaggi): se i prezzi del carrello della spesa non scendono o addirittura crescono, se il costo di benzina e gas dovesse salire molto, la percezione dei vantaggi ottenuti si cancellerebbe.

Tuttavia, come dicevamo, il governo non è che avesse reali margini di manovra. Lo ha detto la premier, lo ha ripetuto il ministro Giorgetti e molti sono d’accordo. Il fatto è che quel campo della politica estera su cui tanto ha insistito Meloni e che poteva darle quell’avvio di statura e di peso di cui ha molto bisogno per contare nelle relazioni internazionali e per trovare sponde alla sua azione domestica sembra scricchiolare.

Si comincia con l’incepparsi della sua politica africana, che indubbiamente era frutto di una visione intelligente del momento internazionale. Il piano Mattei, cioè la ricerca di partnership paritarie con governi dell’Africa per garantirsi accesso privilegiato a fonti energetiche e anche ad altre materie prime, si è incrinato per il venir meno dell’accordo con la Tunisia. Non si tratta solo del fatto che la cooperazione di quel paese era chiave per arginare il flusso dei migranti, ma del fatto che a determinare il venir meno di quegli accordi è stata la pesante ingerenza russa nell’area.

Il dittatore di Tunisi non era ovviamente contento di vedersi condizionato da accordi economici con la UE che gli imponevano una gestione accettabile del contesto politico e dei diritti umani, ma di soldi aveva bisogno. Glieli darà Putin, o almeno ha promesso di farlo, e certo lo zar del Cremlino non è sensibile alla tutela dei diritti umani. Ora si potrebbe pensare che si tratta solo di un episodio che riguarda un singolo stato, mentre con altri possiamo avere rapporti buoni. Non a caso la premier è andata in Mozambico dove l’Italia qualche credito storico lo ha per avere mediato la fine della guerra civile sia con l’attività della comunità di Sant’Egidio (fu mons. Zuppi l’uomo chiave) sia con quella del governo italiano (e qualcuno dovrebbe ricordarsi della politica africana promossa dall’allora sottosegretario agli Esteri Mario Raffaelli). Ma l’ingresso in campo della Russia non è un episodio che si limita alla Tunisia, come stiamo vedendo con l’attivismo di Putin sulla questione israelo-palestinese e come sappiamo per la penetrazione delle sue varie agenzie nei paesi africani.

Non ci pare che in Europa si reagisca colla dovuta attenzione a questa situazione che dovrebbe preoccupare e temiamo che non siano estranee a queste indolenze le invidie per l’attivismo di Meloni. Anche qui però si aggiunge un fatto nuovo ed è l’esito delle elezioni in Polonia.

A stare agli exit poll il partito di destra da lungo tempo al potere, quello di Kaczynsky e Morawiecki, è risultato il più votato alle elezioni, ma non è in grado di formare una coalizione di maggioranza, mentre ciò sarebbe possibile al partito filo-europeo di Donald Tusk. Ora se effettivamente questo si verificherà, si indebolisce notevolmente il peso del conservatorismo polacco di destra che è un asset fondamentale perché Meloni possa puntare ad inserirsi nel nuovo gruppo di potere che guiderà la UE dopo le elezioni del prossimo giugno (ulteriore brutto colpo dopo il flop del partito spagnolo Vox su cui pure aveva puntato anche con qualche enfasi estremistica).

È sempre possibile che nonostante tutto la nostra premier trovi il modo di abbandonare i suoi vecchi alleati pur di sedersi nel gruppo di comando accanto ad una von der Leyen che spera nel secondo mandato, ma bisogna vedere se gli altri la accetteranno una volta che si sia indebolita.

Il mantenere uno standard internazionale di buon livello è essenziale per Meloni, che sul piano interno è sempre tallonata da Salvini, che in questi ultimi giorni sembra si sia un po’ calmato, ma visto il tipo non c’è da farsi illusioni. I sondaggi a livello nazionale danno FdI sempre su alti livelli, ma registrano anche un blocco della crescita con la perdita anche di qualche punto, segnale che può bastare qualche scivolone del centrodestra in elezioni locali (ormai siamo alla vigila di quelle in Trentino-Alto Adige) per diffondere la sensazione che la stagione galoppante della destra-centro ha perso le sue spinte progressive (e ci sono anche le suppletive a Monza, altro evento che potrebbe essere simbolico trattandosi dell’ex seggio di Berlusconi).

Insomma il mondo si muove, e anche troppo verrebbe da dire, sicché ci pare in esaurimento la stagione dei vecchi furori per eccitare le fantasie facili di un elettorato in crisi per il cambiamento del panorama tradizionale. Vale anche per le opposizioni che non sembrano in generale capaci di cogliere queste opportunità perché ripetono le vecchie, tradizionali litanie. A meno che, come altre volte è successo nella nostra storia politica, un rinnovamento di posizioni non venga dalla periferia, forse più capace di abbandonare i tradizionali, usurati costumi di scena.

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Wed, 18 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La scuola degli acronimi e dei progettifici]]> Per una maggiore trasparenza, efficienza ed efficacia nel monitorare i progetti previsti dal PEI/PTOF si chiede a ogni docente/team/CdC /GLO di compilare il FORM al seguente link’.

Ecco l’incipit di una circolare inviata dal dirigente scolastico ai docenti, che fa riferimento ad un adempimento atteso in corso d’anno. Un tempo i direttori didattici e i presidi organizzavano incontri con gli insegnanti allo scopo di focalizzare il piano di lavoro, le metodologie, gli obiettivi educativi ed erano essi stessi in grado di offrire indicazioni, di consigliare, ascoltare le problematiche emergenti nella gestione della classe e dei singoli alunni, che stavano al centro degli impegni di tutti. In genere queste riunioni erano utili, i docenti potevano esprimersi in un clima solitamente colloquiale, commisurando i programmi nazionali di studio con la progettazione dagli stessi utilmente declinata nel proprio ambito professionale. I capi d’istituto - provenendo dai ruoli magistrali - custodivano un’esperienza didattica che prevaleva sulle incombenze burocratiche ed erano una guida per i propri docenti.

Con l’introduzione delle procedure collegiali, della sperimentazione didattica e dell’aggiornamento attraverso i decreti delegati del 1974 la scuola si era aperta al territorio e alle logiche della programmazione, mentre con la legge 517/1977 – scritta da tecnici competenti e con una forte carica innovativa – temi nobili come il diritto allo studio, l’integrazione degli alunni disabili, la libertà di insegnamento conferivano un’aura di grande fervore pedagogico al sistema formativo. Non si indulge a nostalgie del passato ma commisurando quel contesto educativo al presente si nota un incremento smisurato degli adempimenti burocratici e un cambiamento nei temi prevalenti e negli stessi stilemi linguistici e comunicativi, interni ed esterni.

Un passaggio lento ma inesorabile verso una impostazione gerarchizzata e sincopata, con organigrammi in stile aziendale di cui dobbiamo esser grati ad una malintesa gestione dell’autonomia scolastica e ad una verticalizzazione delle relazioni professionali introdotte dalla riforma della cd. “buona scuola”, quella dei dirigenti “sceriffi” (e poi ‘capitani della nave’) e dei progettifici, della proliferazione di acronimi, neologismi e anglicismi, dove le formule prevalgono spesso sui contenuti.

I miti dell’efficienza- efficacia e l’ossessione della privacy e della trasparenza finiscono per condizionare le relazioni interne e verso le famiglie: bisogna progettare, compilare moduli, rispondere a test, partecipare a riunioni con odg smisurati e pletorici dove non si dialoga più, basta rispondere il giorno dopo ‘approvo, non approvo, mi astengo’. Quanto di tutto ciò che si fa incida sulla qualità sostanziale della didattica non è dato sapere poiché il controllo tecnico è stato sostituito da un’accomodante ed autoreferenziale autovalutazione, i registri cartacei da quelli cripticamente digitali: e così il cerchio si chiude con un incremento di impegni prevalentemente fuori dall’aula a cui non corrisponde un tangibile miglioramento della effettiva qualità del servizio scolastico, solitamente stigmatizzato nel grado successivo degli studi: “cosa possiamo fare se ereditiamo studenti-somari?”. In realtà questa scuola delle sigle e delle formule non piace molto a chi ci lavora (dai dirigenti oberati di responsabilità ai docenti vessati dalla burocrazia) anche se ha i suoi estimatori, specialmente attinti tra i fanatici delle nuove tecnologie, dove gli acronimi, i codici alfanumerici, le password e le username prendono il posto di un testo scritto lineare, intellegibile, interlocutorio. La corsa alla digitalizzazione e all’abuso dei linguaggi informatici impoverisce il lessico della scuola in tutti i suoi contesti comunicativi interni ed esterni e vanifica la ricchezza della dimensione colloquiale e relazionale. Alla stregua di quanto accadrebbe nei concorsi pubblici per l’accesso ai ruoli professionali della scuola, se malauguratamente e definitivamente i quiz sostituissero la trama di un tema sintatticamente corretto e semanticamente descrittivo, in grado di far interagire tra loro significati e significanti, di dare un senso compiuto alla sua stesura, di esplicitare una narrazione. Questa deriva culturale minimalista sta dilagando e riguarda sia i docenti che i loro alunni, cambiano i parametri del merito e dell’eccellenza, il livellamento verso il comune denominatore della mediocrità non sostituisce certo il perseguimento del diritto allo studio e dell’uguaglianza delle opportunità di partenza e di arrivo.  Ma nemmeno integra la pratica della libertà di insegnamento poiché la consuetudine didattica si accomoda sull’omologazione anziché stimolare la creatività. Girano molti sedicenti esperti in questa nuova scuola ma in genere si tratta di persone che si sono stancate di insegnare e dirottano verso più miti compiti: fare counseling, tutoring, mastery learning. Sono quelli che sostengono da anni (applicando la regola a se stessi) che leggere (cioè comprendere), scrivere (cioè esprimersi) e far di conto (cioè misurare e commisurarsi) non servono più perché bisogna aprirsi al nuovo e alla molteplicità dei saperi e dei linguaggi. Tutto diventa implicito, superfluo e scontato: infatti vediamo i risultati. 

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Sat, 14 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Cose di un altro mondo?]]> Con quel che sta accadendo in Israele la situazione in Europa e in Italia rimarrà o ritornerà ad esser quella di prima? Difficile pensarlo. La guerriglia terroristica su larga scala intrapresa da Hamas è qualcosa di diverso da quel che avevamo visto sin qui nel lungo conflitto israelo-palestinese: per intensità, per obiettivi e per il contesto in cui si inserisce. Crediamo di poter dire che si intravede un altro mondo rispetto a quello che era stato costruito fino all’inizio del nuovo millennio.

È abbastanza evidente che un’azione di quella ampiezza e di quella portata non è pensabile come nata semplicemente dalla pur agguerrita organizzazione di Hamas. Servivano troppi soldi (mille razzi hanno un costo proibitivo per una componente non statale e limitata) e un addestramento meticoloso delle forze impiegate che hanno anche usato mezzi non usuali come i deltaplani (impossibile che questo sia stato fatto nella striscia di Gaza monitorata costantemente dagli israeliani). Dunque qualcuno o più d’uno ha dato soldi e spazi ed opportunità per prepararsi.

Poi c’è il contesto particolare: tutto avviene nel momento in cui la guerra in Ucraina sembra in un relativo stallo, mentre in Europa cresce una opinione pubblica stanca di sostenere attivamente quella guerra. Al tempo stesso Putin accentuava la presentazione della sua strategia come una lotta contro “l’Occidente e il suo imperialismo”, una ideologia che attecchisce facilmente nel mondo che per convenzione chiameremo islamico e che delinea una lotta di civiltà o qualcosa di simile.

Non ci vogliono strumenti particolari per capire che la prospettiva di una ennesima guerra intorno ad Israele, cui non è interessata solo Hamas, ma anche gli hezbollah in Libano, l’Iran e varie altre componenti di quel mondo induce i paesi europei a frenare la loro politica di invio di armamenti all’Ucraina. Essi hanno gli arsenali ridotti (grazie al cielo non si stanno producendo armi a tutto spiano) e se si affaccia la possibilità di dover usare quanto c’è lì per sé in caso dell’allargarsi del conflitto in Medio Oriente si è spinti a mandare meno mezzi agli ucraini, il che faciliterebbe una ripresa dell’iniziativa dei russi.

Chi ha pianificato l’attacco terroristico ad Israele ha tenuto conto anche di un certo imbarazzo che poteva esserci in Europa a sostenere un governo come quello di Netanyau che non brillava per lungimiranza nella gestione della questione palestinese, ma non ha capito che la ferocia bestiale dell’operazione avrebbe quasi azzerato quelle perplessità (tranne nei soliti ambienti estremisti). In parallelo ha contato sul fatto che proprio un leader in crisi profonda come il Primo ministro di Gerusalemme si sarebbe buttato in una risposta molto dura nel tentativo di salvare la sua posizione quando fosse finita l’emergenza (la scelta di rendere la vita impossibile nella Striscia va in questa direzione). Anche questo complicava le prese di posizione.

Perché tutto questo pone problemi enormi all’Europa e in specifico all’Italia? Per due ragioni. Senza lasciarci andare a previsioni catastrofiche sull’instaurarsi di un conflitto generalizzato che per fortuna non è ancora inevitabile, la situazione di grande turbolenza mette tutti i paesi in una situazione di enorme tensione, il che significa chiusure nel proprio particolare, rifiuto di politiche economiche espansionistiche coraggiose, ma rischiose, possibili ulteriori crisi sul mercato dei carburanti, tanto del petrolio quanto del gas. Segnali in questa direzione vengono evidenziati da molti analisti economici e politici. L’Italia in questo scenario con il pessimo rapporto debito/PIL che si ritrova, nonché con una situazione poco brillante quanto a capacità della pubblica amministrazione di garantire un governo decoroso delle emergenze, è il classico vaso di coccio fra vasi che se non sono proprio di ferro (si veda quel che è accaduto in Germania con le elezioni in Baviera e in Assia) sono comunque di materiali più robusti.

La seconda ragione da considerare è che l’indurirsi delle crisi internazionali porta a radicalizzazioni nelle opinioni pubbliche nonché all’estendersi di queste tensioni nei rapporti fra gli stati del blocco Occidentale. Anche in questo caso l’Italia non è messa bene, ingolfata com’è da polemiche scenografiche fra destra e sinistra, da conflitti che accentuano il ricorso alla demagogia da parte di tutti i campi in gioco, da un ritorno di tensioni fra il groviglio di lobby e di corporazioni che è cresciuto ulteriormente negli ultimi decenni.

Per toccare un aspetto niente affatto marginale, la strategia del cosiddetto piano Mattei per l’Africa che poteva far guadagnare al nostro paese un ruolo di un certo peso in Europa, ma anche in ambito Nato, è messa in crisi se le fiammate dell’estremismo islamico-palestinese non si spegneranno, perché facilmente si trasmetteranno agli stati africani sul Mediterraneo e anche a quelli a ridosso (la recente vicenda del Niger qualche campanello d’allarme dovrebbe averlo fatto scattare). Questo senza pensare a cosa potrebbe succedere nella frontiera fra Libano ed Israele dove è presente una forza d’interposizione dell’esercito italiano. Episodi di guerra che coinvolgessero pesantemente i nostri soldati non sappiamo come potrebbero essere gestiti in un clima esasperato e ideologizzato come quello che riscontriamo quotidianamente.

Una azione di costruzione politica di una qualche sorta di solidarietà nazionale in vista delle crisi che sono all’orizzonte e che naturalmente tutti ci auguriamo non siano troppo pesanti sarebbe una operazione da mettere all’ordine del giorno cominciando a coinvolgere quelle forze intellettuali e sociali che amano più aiutare il proprio paese che rimirarsi allo specchio nei panni teatrali dei condottieri di popoli.

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Wed, 11 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Il ministro Valditara rilancia il valore del libro]]> L’utilizzo sempre più intensivo delle nuove tecnologie sta cambiando la nostra vita: si tratta di una deriva inarrestabile che richiede capacità di metabolizzare l’innovazione conservando un certo distacco tra sé e gli strumenti informatici, per non essere assorbiti in meccanismi di dipendenza che ci privino della facoltà di decidere quando e come utilizzarli. Significativo il distinguo del Ministro Valditara che esprimendosi nel merito di una introduzione massiva della didattica digitale e dei suoi derivati in ambito scolastico, con il rischio di una graduale espunzione della cultura tradizionale, ha. usato la felice e sintetica espressione dell’et-et anziché quella drastica e preclusiva dell’aut-aut. L’auspicio di una convivenza possibile evitando il rifiuto dell’innovazione o la cancellazione della tradizione. La vita stessa, la cultura è sintesi di ‘ratio’ e di ‘traditio’, dovremmo rammentarlo più spesso.  Ricordando che il libro e l’apprendimento della letto-scrittura e dei saperi non potranno mai essere espunti dai compiti formativi ed educativi del sistema scolastico. Se la pedagogia comparativa fosse materia obbligatoria di approfondimento per gli indirizzi metodologico-didattici della burocrazia ministeriale e delle scuole dell’autonomia ci accorgeremmo che l’esterofilia- malattia tipicamente italiana – ci porta ad inglobare acriticamente tendenze e stilemi linguistici mutuati da altri sistemi scolastici, trascurando l’enorme bagaglio di esperienze consolidate della nostra migliore tradizione culturale. È di questi giorni l’annuncio del Ministro all’Istruzione della Svezia Lotta Edholm del ritorno alle metodologie di apprendimento nella scuola di base: libri, quaderni, penna, scrittura manuale. Una rivincita sui tablet e gli smartphone finora utilizzati in via sperimentale, considerati i deludenti risultati ottenuti sul piano degli apprendimenti. Circostanza peraltro riscontrabile anche in casa nostra: non sono un sostenitore dell’INVALSI e della cultura misurata attraverso i test ma osservo che ogni grado del sistema di istruzione esprime un regresso in termini di competenze, capacità, conoscenze, padroneggiamento dei meccanismi comunicativi verbali e scritti. Assai probabile che anche la Finlandia, che aveva abolito l’uso del corsivo a favore della digitazione faccia marcia indietro: certamente gli indirizzi programmatici e i contenuti di studio dei Paesi più evoluti e di più consolidato know how culturale stanno virando verso un ritorno ai fondamentali che promuovono una formazione solida e affidabile, spendibile come arricchimento personale e declinabile come fattore di promozione sociale e di avviamento ad un’attività lavorativa.

Ora, scorrendo le (attuali) 17 pagine della Piattaforma Scuola Futura del Ministero dell’istruzione e del merito, che propongono  (ad oggi) 168 corsi di formazione per i docenti e i dirigenti scolastici con i fondi del PNRR si evince in modo inequivocabile che la scelta dei temi è invece orientata decisamente verso l’aut-aut: eccetto poche eccezioni che si contano sulle dita di una mano tutti i titoli, gli argomenti e gli indirizzi del Piano sono, in modo persino sovrapponibile, duplicabile  e ripetitivo, monotematici e digitalizzati, infarciti di neologismi e anglicismi, fondati su una metodologia meccanicistica per cui si presume che con 20 o 30 ore di corso i docenti/discenti ne escano specialisti ed esperti in applicazioni didattiche da realizzare tout court . Molta retorica pedagogica basata su schemi precostituiti da trasferire nel proprio contesto professionale, sia esso l’istituto o la classe.

E’ sorprendente che i fondi assegnati per la formazione degli insegnanti siano spesi per anglicizzare la scuola italiana: nei contenuti, nei metodi, nei linguaggi, a conti fatti il nostro idioma è una sorta di convitato di pietra in un consesso pedagogico dove dominano incontrastati sigle, acronimi, algoritmi, neologismi che peraltro si ritrovano traslati negli impianti didattici e organizzativi delle scuole dell’autonomia, in forma quasi omologante e taumaturgica: “applicate queste formule e risolverete i problemi della complessità delle relazioni scolastiche, faciliterete gli apprendimenti”. Tutto questo ce lo chiede l’Europa? Sinceramente penso che ne faremmo anche a meno. Nessun corso ispirato alla tradizione scolastica del nostro Paese e della nostra scuola che è stato un riferimento culturale di indiscusso valore, con insegnanti e Dirigenti di assoluto rilievo culturale e professionale. Nessun cenno alla letteratura, all’arte (quella vera, non quella della riproducibilità tecnica e deprivata della sua “aura”, come ricordava Benjamin nel suo celebre saggio), alla musica, alla pittura, alla poesia, alla “bellezza”: non la scuola della creatività ma quella del transfert di meccanismi precostituiti e deprivati del valore del pensiero critico. Non è accettabile una proposta formativa quasi monotematica perché limitativa della libertà di insegnamento che -dottrina e pedagogia ci insegnano- è libertà di metodo. Quasi nessuno riflette sulle conseguenze di questa onda d’urto delle nuove tecnologie e sulla pervasività della digitalizzazione: ricche di potenzialità positive vanno misurate e commisurate con la tradizione culturale ereditata. Di fatto gli insegnanti stanno perdendo a poco a poco il diritto alla libertà di insegnamento, troppo spesso le scuole dell’autonomia risultano in tal senso più coercitive di quanto non lo sia mai stato il Ministero nazionale, su questo si riflette poco ed è una conseguenza irrazionale. Il valore del libro e della lenta metabolizzazione del sapere che il Ministro esalta come aspetto essenziale e imprescindibile di un processo formativo- riguardi esso gli alunni o i docenti – non è sufficientemente menzionato nel Piano finanziato dal PNRR. E se queste sono le premesse la strombazzata “Scuola superiore di formazione” sarà un orpello burocratico farraginoso e forse inutile.

Sono fermamente convinto che la lettura di un capolavoro della letteratura di ogni tempo, cito a mero titolo di esempio le pagine di Kafka, Proust, Dostoevskij, Leopardi, Garcia Marquez, Pirandello sia di gran lunga più utile e suscettibile di positivi sviluppi pedagogici di qualsivoglia corso di formazione on line.

La pedagogia dei non pedagogisti è un tesoro che si scopre leggendo, è “altro” dalle lezioni monotone ed effimere dei medagliati sedicenti specialisti ed esperti.

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Sat, 07 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Essere liberaldemocratici in Italia]]> Il dibattito su un possibile polo di "centro" va analizzato sotto due aspetti. Se si considera come centro la riunione di varie anime - dai residui di Forza Italia a Italia viva, da Azione a Più Europa - col solo scopo di fare da pivot per entrare in tutte le maggioranze possibili, è meglio non parlarne. Le operazioni di potere e i "cartelli" non portano fortuna a chi li fa e non sono positivi, in generale, per il sistema politico, senza contare che le ambizioni di tanti singoli sono tali da non assicurare alcun respiro a questo genere di iniziative. Se invece alla base c'è una comunanza culturale prima che politica - e qui va ben distinta la tradizione laica, liberal democratica e radicale da quella dei cattolici di sinistra, che sono cose diverse - allora un discorso può avere un significato. Certo, non basta aggregare forze vicine e con tratti programmatici e culturali comuni o almeno affini, come accadde persino nel 1984 alla Federazione laica Pri-Pli alle europee e nel 1989 alla lista Pri-Pli-Radicali (sempre europee: allora i radicali dispersero le proprie forze fra più liste, moltiplicando così gli eletti). Quando però, come in quei casi, si pensa che iniziative elettorali possano essere l'embrione di un progetto culturale e politico comune più ampio e articolato, non deve essere un insuccesso nelle urne a far crollare tutto. Se, infine, si riconosce che nel Paese c'è sempre stato (nascosto e costretto a stare senza i suoi simboli e quasi senza le sue idee, in un polo o in un altro nella Seconda Repubblica) un elettorato repubblicano, liberale (sul serio, non come quello del finto liberalismo berlusconiano, che era una parodia) e radicale, che guardi ai diritti civili meglio di come fa la Schlein col Pd (che forse dovrebbe occuparsi anche di altro, visto che sta a sinistra) bisogna porsi il problema di come dare una rappresentanza politica a quell'8% di "orfani" di Pri, Pli e Pr. La soluzione non è mettere insieme acqua e olio, come si è visto alle politiche col sedicente Terzo polo di Italia viva e Azione (che, per fortuna, è venuto meno). In quella occasione, però, si è visto che lo spazio per un'area liberaldemocratica c'è: se al 7,8% del TP togliamo un 2,5-3% di Renzi e aggiungiamo il 2,8% di Più Europa abbiamo un 7,5-8% che è molto simile a quello che repubblicani, liberali e radicali prendevano negli anni '79-'92: politiche 1979, 8,4%; europee 1979, 10,0%; politiche 1983, 10,1%; europee 1984, 9,5%; politiche 1987, 8,4%; europee 1989, 4,4% (che diventa 5,6% con i radicali antiproibizionisti e magari 7% con una quota dei verdi arcobaleno ai quali parteciparono anche radicali come Rutelli); politiche 1992, 8,5% (Pri, Pli, Lista Pannella). Quindi, le "truppe" ci sarebbero; ma dov'è l'elaborazione culturale, a parte qualche atto di buona volontà dei radicali? Bastano la Bonino e Calenda, con le loro personalità, a ricreare questa casa dei veri liberaldemocratici (o meglio, a ridare loro la giusta rappresentanza e la cornice ideologica)? Forse la classe dirigente è ancora un po' distante da quella degli anni Ottanta (non la Bonino, che per fortuna è sempre la stessa, ma Calenda che talvolta si concede un po’ troppo alla polemica sui social); del resto, se in generale la classe dirigente del Paese è molto scaduta sul piano culturale e politico, non si può che dire altrettanto dell'elettorato (ormai irretito dai social e dall'Italia costruita negli anni '80 e '90 dalle tv di Berlusconi che ha precipitato nell'abisso della "sottocultura di pronta beva" decine di milioni di persone). Non riavremo più uno Spadolini, un La Malfa, un Pannella, uno Zanone, ma esiste ancora, da qualche parte, una fetta di italiani di cultura liberaldemocratica che rifiuta la massificazione, il populismo e il leaderismo. A queste persone non si deve soltanto ridare uno spazio politico, una magione adatta, ma restituire una dignità culturale infangata da anni nei quali il liberalismo è diventata una coperta per nascondere ben altri disegni politici e ben altri ideali e interessi. Un "luogo del buongoverno" che però non deve divenire il centro geografico indispensabile perché destra o sinistra "conquistino il potere" (si va al governo, non al potere, sempre con la valigia pronta, diceva Spadolini) ma un polo di aggregazione anche per le riviste (le poche che resistono e altre che potrebbero nascere) che faccia rivivere la stagione del "Mondo" non in nome di un inutile ritorno al passato, bensì per riscoprire e adattare ai tempi - rifuggendo qualsiasi tipo di leaderismo e personalismo contemporaneo - i valori soffocati dal bipolarismo greve di questi decenni. I punti dai quali ripartire sono le esperienze del Risorgimento, della Resistenza, dell’antifascismo; il contribuito liberaldemocratico alla stesura della Costituzione e alla ricostruzione; l’esperienza del primo centrosinistra; la dialettica fra liberalismo, democrazia e socialismo e fra liberalismo e liberismo (fra l’ottica crociana e quella einaudiana); l’europeismo e l’atlantismo; il rigore connesso alla necessità di incentivare e governare lo sviluppo (in particolare riscattando le regioni più arretrate, non condannandole ad un federalismo irresponsabile ed egoista); la sacralità delle istituzioni e dei comportamenti di chi ricopre ogni incarico pubblico, con disciplina e onore; l’attenzione ai doveri dell’uomo, mentre si promuovono i diritti; la lotta ai monopoli e agli oligopoli (anche nel settore dell’informazione); la primazia da conferire all’educazione dei giovani, che per i meritevoli deve essere completamente gratuita fino al compimento del massimo grado d’istruzione; la scuola e la famiglia, inoltre, devono contribuire a creare nuovi cittadini che rispettino, conoscano e onorino la Costituzione e leggi; la necessità che la competizione sociale si svolga in un clima libero da condizionamenti (di Stato, ma anche di provenienza familiare); l’uguaglianza delle persone davanti alla legge, unita ad una politica efficace contro la criminalità (dunque, in favore delle popolazioni oppresse del Mezzogiorno, ma anche per purificare l’economia del Nord da infiltrazioni che talvolta rendono vano il libero mercato); la concezione della politica come servizio al Paese, che non si improvvisa e non può mai essere disgiunta da un’adeguata preparazione culturale e professionale; l’uso delle risorse pubbliche (con giudizio e intelligenza) non per beneficiare le categorie “amiche” ma per correggere disfunzioni sociali ed economiche. Da qualche parte c’è un’”altra Italia” che aspetta di rinascere.

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Sat, 07 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[L’alternativa inesistente]]> C’è un po’ di battage sulla prospettiva che si possa andare ad un governo di tecnici. Se ne scrive, poco in verità, anche buttando lì qualche nome di possibile candidato. Giorgia Meloni tuona che i soliti noti non devono farsi illusioni perché non ci sarà nessun governo tecnico: se cade lei si torna alle urne.

Esaminando la cosa per quel che si dice c’è da chiedersi se siamo alla follia. L’ipotesi di un governo tecnico richiederebbe per essere minimamente percorribile condizioni che non ci paiono o auspicabili o semplicemente possibili. I governi tecnici precedenti, Monti e Draghi, sono arrivati sull’onda di una crisi economica pesante ed evidente a tutti: naturalmente è sperabile non capiti nulla di simile. Anche in quei casi peraltro si è trattato di governi tecnici a metà, perché non solo basati su maggioranze parlamentari che hanno dato loro la fiducia (senza di questo si avrebbe un colpo di stato), ma anche includenti rappresentanti indiretti o diretti dei partiti che l’avevano votata.

Facciamo fatica a pensare che nell’attuale parlamento si possa costruire una maggioranza che darebbe la fiducia ad un governo nelle mani di tecnici. Sarebbe come minimo necessario che ci fosse una convergenza fra un po’ di forze di centro destra e un po’ di forze di centrosinistra, il che di questi tempi sembra più che arduo.

Dunque perché Meloni, che conosce benissimo la situazione, grida al lupo, al lupo? La possibile questione che è dietro l’angolo non è un ritorno di Draghi, Monti o chi per loro, ma il tema del rimpasto, se non di un Meloni bis. Che l’attuale governo possa pagare alcune difficoltà oggettive e alcune indubbie fragilità è quanto sperano comprensibilmente le opposizioni, ma anche quanto non dispiacerebbe del tutto, o magari sarebbe benvenuto da parte di alcune componenti della maggioranza che non amano il rafforzamento dell’attuale premier.

Molto dipende, nei calcoli di queste componenti, da come andranno le elezioni europee. Un ridimensionamento della supremazia di FdI potrebbe aprire le porte alla richiesta di una diversa distribuzione del potere nell’attuale governo. Ciò anche per impedire, o quanto meno rendere difficile che Meloni possa diventare un tassello importante nella composizione del futuro assetto di comando dell’Unione Europea. Per varie componenti della destra, ma anche per buona parte della sinistra la nostra premier che si insedia come partner significativo della futura maggioranza a Bruxelles portando i suoi “conservatori” nell’alleanza popolari-socialisti-liberali (al momento l’asse fra i grandi paesi) è un vero incubo. Se le urne di giugno ridimensionassero il consenso a Meloni varie cose potrebbero cambiare.

Non certo l’avvento di una maggioranza sostitutiva, perché i numeri in parlamento non ci sono, anche ammesso e non concesso che M5S accettasse di fare asse col PD. In più non è detto che questi due partiti escano bene da quella prova elettorale e in questo caso molto probabilmente nel PD si aprirebbe una questione sulla segreteria Schlein e anche per Conte non sarebbe un bel momento.

Potrebbe esserci però nelle fila del destra-centro la richiesta di un nuovo governo, o semplicemente con un rimpasto (pratica sempre complicata e non troppo popolare), o magari con il classico Meloni 2, che renderebbe più facile un negoziato a tutto campo nell’ambito di quella coalizione. Sembra di capire che è quel che spera Salvini, il quale naturalmente lo nega. È abbastanza evidente che i membri del governo che in questo momento godono di maggior favore sono esponenti di Fratelli d’Italia. Nonostante il grande agitarsi del ministro delle infrastrutture gli uomini della Lega non hanno posizioni da protagonisti (Giorgietti non è identificato con quel partito) e quanto a FI a parte Tajani non si sa che esista.

Tuttavia Meloni non ha alcuna intenzione di farsi obbligare a seguire quel copione. Anzi mette subito un freno all’agitarsi di Salvini che pensa di prepararsi qualche punto di vantaggio. Chiarisce infatti che se cade questo governo non sarà disponibile a sostenerne un altro, neppure con lei sempre alla guida, il che significa andare allo scioglimento delle Camere e ad elezioni anticipate. Per evitarlo, come dicevamo sopra, sarebbe necessaria una nuova sorta di grande alleanza destra-sinistra, il che getterebbe, dopo tutte le polemiche di questi anni, nel totale discredito la politica. Ma andare ad una prova elettorale per Salvini sarebbe disastroso: significherebbe perdere il molto che ha accumulato in termini di potere e sottopotere e probabilmente mettere anche a rischio mortale la sua leadership sulla Lega.

Per queste ragioni è molto improbabile che il pur effervescente ex “Capitano” sia disposto a correre i rischi del caso. Dovrà accontentarsi, se gli va bene, di rosicchiare qualche ulteriore spazio di visibilità in attesa di tempi migliori. Meloni però non può pensare di giocare un ruolo importante in Europa rimanendo nell’ambiguità fra la scelta di confermarsi come un leader conservatore e la pulsione a non perdere i legami con la storia del barricadierismo della cosiddetta destra esclusa.

Quanto la sinistra sarà capace di inserirsi in queste dinamiche anziché continuare ad arroccarsi nella recita di vecchi e nuovi mantra alla moda è tutto da vedere.

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Wed, 04 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[I docenti fragili in smart working sono adibiti ad attività di supporto al piano triennale di offerta formativa. Con quali modalità?]]> Il ritorno silente ma in crescita esponenziale del COVID ha indotto il Governo a prorogare i termini dello Smart Working per i lavoratori fragili – scaduti il 30/09 u.s. - fino al 31/12 p.v. Ad onor del vero già la legge n.° 85 del 3/7/2023 aveva stabilito questo differimento a fine anno per la categoria dei cd. “super-fragili”, ovvero per coloro le cui patologie sono comprese nel D.M. Salute 4/2/2022. Riportando lo stralcio del D.L. 29/09//2023 non può sfuggire il passaggio che -su iniziativa del Ministro del Lavoro Calderone – considera la fattispecie relativa alla declinazione nel lavoro agile del personale docente della scuola, che in passato aveva suscitato più di un interrogativo in ordine alla conversione nello smart working di una mansione professionale non del tutto compatibile sul piano del pratico utilizzo degli insegnanti in un’attività differita a domicilio. Ciò che aveva suscitato polemiche e contenziosi soprattutto considerando la atipicità della funzione docente, non sempre convertibile ad esempio nella didattica a distanza, soprattutto per la scuola primaria e dell’infanzia, creando difficoltà operative sia per gli interessati – per i quali il lavoro agile si configura come diritto soggettivo non subordinato ad un potere limitativo discrezionale – che per i dirigenti scolastici cui compete l’onere di focalizzare prestazioni lavorative a distanza rispettose del profilo professionale degli insegnanti, in vista di un accordo individuale utilmente praticabile, nell’ambito dell’area di inquadramento contrattuale.

A parte i provvedimenti iniziali del primo Governo Conte – che aveva equiparato l’assenza per malattia al ricovero ospedaliero – la vexata quaestio era rimasta irrisolta creando una disparità di trattamento tra i “fragili” - la cui mansione lavorativa poteva essere svolta a domicilio- e coloro per i quali era difficoltoso individuare attività compatibili, tra queste in primis per numero degli aventi diritto- gli insegnanti.                            Il provvedimento Calderone – recepito nel D.L. che segue – risolve sul piano formale questa criticità della disparità di trattamento tra fragili aventi lo stesso diritto. Tuttavia come vedremo necessita di ulteriori disposizioni ad evitare che le modalità concrete di attuazione del portato normativo creino difficoltà interpretative ed applicative. Ad ogni buon conto si riporta il passaggio testuale dell’articolo che proroga i temini dello smart working (nel pubblico e nel privato), specifica in quale modo i docenti potranno realizzare attività di lavoro agile e a quali compiti possono essere adibiti.

 “DECRETO-LEGGE 29 settembre 2023, n. 132. Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali.Art. 8. Proroga del termine in materia di lavoro agile per i lavoratori fragili 1. All’articolo 1, comma 306, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, le parole: «30 settembre 2023» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2023» ed è aggiunto, — 10 — 29-9-2023 GAZZETTA UFFICIALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Serie generale - n. 228 in fine, il seguente periodo: «Per le finalità di cui al primo periodo, il personale docente del sistema nazionale di istruzione che svolge la prestazione in modalità agile è adibito ad attività di supporto all’attuazione del Piano triennale dell’offerta formativa.». “

Se questo chiarimento fosse stato esplicitato nei vari rinnovi tardivi della tutela dello smart working, ai docenti fragili sarebbe stata assegnata una mansione riguardante la “formazione”, evitando dubbi interpretativi, provvedimenti restrittivi e rinunce allo smart working stesso in assenza di istruzioni esplicite.

E’ trascorso ad esempio l’intero mese di settembre e ciascun docente certificato “lavoratore fragile con patologia certificata” ha negoziato con il proprio capo d’istituto un accordo individuale sul “da farsi”.                               In linea di massima ha prevalso il buon senso da ambo le parti ma ci sono stati casi in cui si sono verificati attriti e disparità di vedute. Il dirigente scolastico che pretende che il docente fragile assolva il doveroso orario di servizio giornaliero e settimanale trascorrendo ore ed ore connesso online o in modalità webinar per seguire un corso dietro l’altro, intende la formazione come una serie ininterrotta di lezioni da seguire, senza consentire momenti di riflessione e rielaborazione degli apprendimenti anche in modalità di autoformazione. Non riconosce che i corsi della piattaforma “Scuola futura” hanno calendari di lezioni che si sovrappongono e obbligano ad una scelta: o segui uno o segui l’altro. Inoltre che nell’insieme dei corsi a cui ci si può iscrivere ci sono giorni in cui non ci sono lezioni: se non si ricorre ad un webinar differito si rischia di rimanere “scoperti” rispetto al monte ore settimanale da assolvere. Ho stimato che se ogni giorno di smart working viene legittimato solo con la frequenza della lezione di un corso o di un webinar, dal 1° settembre al 31 dicembre (inizio e fine del periodo quantificato dai provvedimenti legislativi) può accadere che un docente arrivi a seguire tra i 300 e i 400 corsi: una prestazione da guinness dei primati che potrebbe integrare la fattispecie del mobbing. Credo che neanche al Massachusetts Institute of Technology (MIT) sia richiesta una prestazione del genere. Ma poiché il provvedimento di cui all’art. 8 del D.L 29/9/2023 n.°132 specifica che gli impegni dei docenti in smart working dovranno vertere sul Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF) mi pare che ci sia spazio per una interpretazione più estesa e flessibile dell’impegno richiesto, non dimenticando che la ratio della norma concerne la tutela di soggetti “certificati fragili” dalle Autorità sanitarie competenti. Senza tacere che un Dirigente scolastico dovrebbe interpretare la formazione con un’accezione più estesa della passiva fruizione di lezioni online – una cosa da fondere il cervello a chi segue decine e centinaia di argomenti tematici diversi – nel senso che formarsi (cioè imparare, migliorare le proprie conoscenze) comporta una metabolizzazione e un’interiorizzazione degli apprendimenti. Come si fa ad es. ad escludere la lettura di un libro come fonte primaria di acculturazione se mai integrata o integrabile con i corsi online.? In questi giorni il Ministro Valditara ha sottolineato l’importanza di questa compresenza – definita et-et, una coesistenza di cultura digitale e cultura tradizionale – e ci si augura che sia lui adesso a dare indicazioni che consentano di realizzare in ogni istituto un piano formativo più flessibile, sostenibile sia fisicamente che psichicamente. Seguire mediamente 100 lezioni online al mese, su temi e argomenti sempre diversi, con l’ansia che salti una lezione per problemi tecnici o organizzativi e il giorno resti “scoperto”, non forma un docente fragile. Se mai lo rende inebetito e confuso, una cosa da alzare bandiera bianca e dire “mi arrendo”.

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Wed, 04 Oct 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La digitalizzazione pervasiva alimenta la disintermediazione sociale]]> La poderosa avanzata della digitalizzazione ha le sembianze della cancel culture. Da sempre la nostra vita è un’alternanza di abitudini, stili comportamentali e stilemi comunicativi ma con l’introduzione delle tecnologie sempre più avanzate nella nostra quotidianità il cambiamento ha impresso una vistosa accelerazione, le stesse dimensioni spazio temporali dell’essere e dell’agire vanno perdendo i limiti angusti dei confini e delle costrizioni. La galassia di internet, l’universo del web, il metaverso, l’I.A., la robotica e tutte le infinite applicazioni e i loro ulteriori cascami tecnici e operativi costituiscono mondi paralleli dove il virtuale si confonde e si sostituisce al reale. Ciò crea scompensi e dissonanze, non tutto ciò che circola viene dal basso, molto è introdotto nel circuito comunicativo-relazionale da network e media con finalità commerciali e di profitto, influencer e creator sono ad esempio figure professionali nuove che realizzano fatturati mostruosi introducendo nei comportamenti, specie tra i giovani, induzioni e convincimenti, persuasioni e modelli che sovente sono in aperta distonia con le regole che si apprendono a scuola o in famiglia.  L’identità digitale va sostituendo quella anagrafica, i social sono potenti strumenti di informazione e di trasmissione di dati, di motivazione a comportamenti disparati: molto di quanto accade ha una potenzialità di implementazione imprevedibile ma certamente agisce sulla nostra esistenza, non sempre la liceità e il controllo di ciò che viene riversato in quel grande contenitore di flussi e scambi che non ha confini è assoggettato al controllo etico che riguarda l’utilità sociale, la dignità personale, il rispetto della privacy. Cambiano i linguaggi, gli anglicismi prevalgono sul piano della definizione dei concetti, esiste ad esempio un “Internet of Thing”, cioè un internet delle “cose” dove confluiscono a livello digitale e di interfaccia degli scambi semantici e simbolici tutti gli oggetti della nostra esperienza quotidiana.

Che l’inglese sia la lingua universalmente più diffusa è pacifico e assodato, paradossale che sia l’idioma di un Paese che ha scelto l’isolamento istituzionale con la Brexit: per diffondere l’italiano nel mondo forse dovremo affidarci ai viaggi di Papa Francesco. Questo irrompere sul palcoscenico della vita di sigle, acronimi, algoritmi, espressioni lessicali nuove crea problemi di adattamento e produce una sorta di selezione generazionale, di nicchie e target culturali. Il nostro stesso sistema scolastico sta sostituendo l’italiano fluente con il gergo tecnologico di matrice anglosassone, la narrazione con gli acronimi e i test, le sigle sono criptiche e non sempre esplicative, le metodologie introdotte nulla hanno a che fare con la nostra migliore tradizione didattica: basta leggere una circolare, seguire un corso di formazione per i docenti, soffermarsi a decifrare i linguaggi con cui gli alunni si esprimono. Qualcuno sta rovinando la scuola e sono grato al Direttore Paolo Pagliaro per aver riassunto il senso di una mia riflessione su questo tema con un titolo magnifico: “Una scuola fast-food dove prima c’era Manzoni.” C’è un punto essenziale su cui occorre essere espliciti: non si rema contro l’uso e l’introduzione delle nuove tecnologie, la scienza, la medicina, l’istruzione, la nostra vita quotidiana ne hanno tratto straordinari, immensi vantaggi. Ciò che colpisce è un (apparentemente) irreversibile processo che va nella direzione opposta a quello consegnatoci dalla storia e dalla tradizione, da Aristotele, a Newton, a Leonardo, a Kant: la cultura come passaggio continuo dall’esterno all’interno, l’apprendimento, la crescita, la formazione, il radicamento di una personalità, la metabolizzazione del sapere come processo di interiorizzazione.

Ora tutto sembra muovere nella direzione opposta. Riprendo una breve riflessione del grande antropologo francese André Leroi-Gourhan: “Dall’invenzione della scrittura in poi, attraverso una serie di tappe analizzate da una letteratura sterminata, siamo arrivati alla fase attuale, in cui la situazione non è ancora molto diversa in apparenza: la società continua a disporre di tutti i suoi mezzi, ma li trasferisce in maniera crescente in organi artificiali”.

I processi di digitalizzazione favoriscono la trasmissione di dati e informazioni: possiamo tuttavia affermare che producono lo stesso risultato in quanto a comprensione e valutazione? Trovo molto solipsismo nel flusso comunicativo generato attraverso internet e le sue derivazioni, leggo un’implementazione delle condizioni esistenziali di solitudine pur in presenza di una potenzialità relazionale smisurata. Ci sono ricadute sul piano macrosociale poiché – pur nella disseminazione, parcellizzazione e fruizione delle dinamiche informative e di scambio – vengono a mancare i luoghi deputati all’intermediazione, al supporto interpretativo, al contatto umano. La vera comprensione è quella che si realizza tra due o più persone che si parlano: i processi di digitalizzazione pervasiva inducono ad un rapporto non mediato tra l’uomo e la macchina, tra il pensiero-azione e la tecnologia. Come sottolineato dal Presidente CENSIS Giuseppe De Rita….” Transizione ecologica, digitalizzazione sono parole generiche. La società ha bisogno di evoluzioni lente e partecipate”.

Per colmare questa mancanza non bastano i call center, icona dell’incomunicabilità e della frustrazione per il cittadino. Se devo capire un procedimento che mi riguarda, se devo risolvere un problema di difficile approccio non basta mandare o ricevere una mail: questo ruolo di mediazione tra apparati e istituzioni da un lato e utenti dall’altro un tempo era svolto dalle OO.SS, dal mondo dell’associazionismo, del volontariato, dai corpi intermedi dello Stato. Ora tutti sono arbitri che valutano la corrispondenza formale tra domanda e risposta. Pochi sanno capire, pochi sanno spiegare, quasi nessuno riesce ad aiutare. A chi rivolgersi? Nessuno è competente. Così, in un mondo dove la digitalizzazione sembra essere più un feticcio che la reale soluzione dei problemi (il PNRR ha destinato un quarto dei fondi all’implementazione del digitale, di cui 6.14 miliardi di euro nella sola P.A) mentre cresce in modo abnorme il numero dei poveri, le pensioni minime sono da sempre ancorate al palo della miseria, gli anziani, i fragili, i disabili non ricevono assistenza sufficiente, le famiglie sono vittime della speculazione finanziaria e ci sono 14 miliardi di euro di mutui non pagati, ci riempiamo la bocca di app e di coding, password e username, non possiamo vivere senza SPID e veniamo identificati con codici alfanumerici perché non conta più chiamarsi Mario Rossi ma essere ribattezzati con una identità digitale. Francamente una vergogna, persino una cosa inutile: speriamo che i corsi e ricorsi storici riportino un po’ di buon senso.

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Sat, 30 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La diatriba infinita sulle riforme costituzionali]]> Crediamo non ci sarebbe modo migliore di ricordare la straordinaria personalità di Giorgio Napolitano di quello di riprendere con serietà il tema delle riforme costituzionali, cui dedicò grande attenzione intellettuale (basta rileggersi le antologie dei suoi discorsi) e intenso impegno quale inquilino del Quirinale (ricordiamo lo sfortunato tentativo di promuovere un lavoro comune di esperti nella commissione guidata dal ministro Gaetano Quagliariello).

Potrebbe sembrare che anche il nuovo governo di Giorgia Meloni abbia ripreso l’interesse ad intervenire in questo delicato campo oggetto di discussioni e scontri fin dagli anni immediatamente successivi alla fine del lavoro dei Costituenti. Temiamo non sia così e semplicemente perché anche questo esecutivo, come quelli che lo hanno preceduto su questi terreni, non riesce ad afferrare il bandolo della matassa e cede ad una visione manipolatoria della revisione costituzionale.

Per dirla in termini semplici: si è lavorato e ancora si lavora non per costruire un sistema che stia in piedi a prescindere dagli interessi più o meno nobili della classe politica che di volta in volta vuol mettere in atto le riforme, ma per raggiungere attraverso qualche marchingegno l’obiettivo di consolidare l’equilibrio di potere che crede di avere in mano le regole del gioco.

Senza avventurarci in una disamina completa delle debolezze della seconda parte della nostra Carta fondamentale (la prima è ancora più che viva e vitale così com’è, basta sforzarsi di rileggerla contemperando valori che non tramontano con sensibilità oggetto di inevitabile evoluzione dei tempi) ci permettiamo di sottolineare qualche punto mal impostato nelle attuali contingenze.

Il primo riguarda il tema spinoso del rapporto fra un sistema di decisioni ideato come centralistico e una evoluzione che lo ha frammentato con la devoluzione di molti compiti e poteri a livello regionale. È a districare il pasticcio di un para-federalismo immaginato e di un centralismo decisionale che manca delle capacità di direzione che si dovrebbe lavorare. Questo postula una cosa che in sé non pare cervellotica: creare una sede, su base rappresentativa perché questo è lo spirito della Carta, dove si compongano le capacità di dialettica e di governo fra il decentramento dei poteri nelle regioni e il necessario indirizzo di coordinamento che deve promuovere l’interesse nazionale. Si dovrebbe partire da un intervento deciso sul nostro bicameralismo, cosa che nessuno vuol veramente fare nel timore di toccare rendite di posizione (elettorale e non solo) di tutti i partiti.

Invece di applicarsi su questo fronte si perde tempo a discettare di autonomie differenziate, pensate solo per far acquisire posizioni di distribuzione di risorse in un maggior numero di campi (e sorvoliamo sul fatto che così si contribuirà sia ad indebolire il rapporto dei cittadini con la coscienza nazionale, sia ad acuire molte diseguaglianze che affliggono la nostra geografia politica). Si tratta non di un pensiero costituzionale, ma di pregiudizi e di fantasiose rappresentazioni della realtà a cui si dà spazio per accontentare un partito politico. Cosa accade quando si accetta questo modo di agire lo si dovrebbe avere visto coi guai che ha procurato l’aver ceduto ai ghiribizzi dei Cinque Stelle per placarne la sete di riforme immaginate che non sapevano fare.

Il secondo intervento di cui oggi si discute è il cosiddetto premierato. Anche qui si parte da un problema reale, molto dibattuto non solo nell’Italia repubblicana: come evitare che l’azione di governo del paese sia totalmente in balia delle dinamiche parlamentari che non sempre sono virtuose come dovrebbero essere. L’idea di rafforzare la posizione di chi guida il governo dandogli una legittimazione che non sia nelle mani dei giochi al massacro possibili in parlamento, specie quando la qualità della classe politica non è delle migliori, è razionale. Diventa pericolosa quando per ottenere quel risultato si propone la via della “incoronazione” del premier attraverso una designazione popolare diretta della persona. Un minimo di competenza storica dovrebbe insegnare che non sempre la voce del popolo è la voce di Dio, anzi risponde spesso a suggestioni di un momento che possono poi dissolversi. Inoltre chi viene designato oggi perché giudicato una buona scelta può rivelarsi domani una promessa mancata, per cui non è saggio mettersi nella condizione di non poterlo sostituire se non con atti molto drammatici che in politica non portano mai bene.

Ci sono gli strumenti per immaginare un rafforzamento deciso dei poteri di chi guida il governo senza cadere nella dinamica della “incoronazione” popolare di qualcuno, lasciando spazio ad una dialettica parlamentare in cui i giochetti trasformistici e assimilabili vengano resi molto poco praticabili. Peccato che ai partiti oggi interessi o conquistare lo strumento per cui si può essere incoronati dall’elettorato e resi così di fatto indiscutibili o tenersi la situazione attuale ricca di confusione che si pensa permetta il sistema dei veti e dei ricatti, nonché il rovesciamento al buio degli esiti delle urne.

Per tutelare lo status quo si invoca la necessità di preservare il ruolo di timoniere ed arbitro del presidente della repubblica. Peccato che quasi nessuno si ponga un banale interrogativo: ma siamo sicuri che un presidente della Repubblica eletto come avviene oggi dal parlamento sarà sempre una personalità di grande equilibrio e capacità come è accaduto nell’ultimo quarto di secolo? Non sarebbe meglio formalizzare maggiormente i poteri del Capo dello Stato, ma soprattutto eleggerlo con una modalità che lo investa davvero della rappresentanza della nazione nel suo complesso al di sopra dei contingenti equilibri ed interessi dei partiti presenti in parlamento al momento della sua elezione?

Ragionare con serenità su questi e su altri temi ci farebbe fare un notevole passo avanti e ci porterebbe forse a concludere quel cantiere infinito e poco produttivo che sono stati finora i marchingegni inventati da una politica che in definitiva aveva più paura che si riuscisse nell’opera di riforma che non fiducia di essere una classe dirigente capace di gestire davvero un potere costituente.

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Wed, 27 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Carta, penna e libri non possono essere rimossi dalla scuola]]> L’inizio del nuovo anno scolastico impone una coraggiosa riflessione sull’introduzione delle nuove tecnologie che negli ultimi anni, in parte complice la DaD, hanno modificato in modo incisivo la didattica - intesa come applicazione delle metodologie di insegnamento-apprendimento e dei loro contenuti- fino allo stesso concetto di formazione, delle finalità educative, e dei modi di espletamento di questo fondamentale pubblico servizio. Ciò non ha riguardato solo gli alunni ma ha comportato una profonda e radicale trasformazione delle competenze richieste ai docenti, poiché l’uso massivo dell’informatica e la digitalizzazione pervasiva hanno di fatto imposto loro il possesso di requisiti aggiornati e di una professionalità innervata nel volano dell’innovazione.

La vecchia metafora di Elio Damiano della società-lepre che fugge e della scuola-tartaruga che la insegue non è più accreditabile e non corrisponde al vero: nel 2024 celebreremo i 50 anni di vita dei cd. ’decreti delegati’ e lo faremo immersi in una realtà organizzativa e funzionale sideralmente lontana da quella riforma di cui resta – è pur vero - l’impianto di fondo anche se l’introduzione dell’autonomia scolastica ha configurato un quadro d’insieme parcellizzato, difforme, a volte persino sfuggente rispetto all’esigenza inderogabile di conservare l’unitarietà del sistema scolastico nazionale.

Temi come il diritto allo studio, l’uguaglianza delle opportunità educative, la didattica compensativa delle diversità, l’integrazione, la stessa libertà d’insegnamento che illuminavano quegli anni di una luce nuova e li caratterizzavano di motivazioni forti, hanno subito l’inevitabile scorrere del tempo e l’inquadramento in un assetto istituzionale diverso dove spesso l’autonomia si è tradotta in un rafforzamento della funzione dirigenziale a capo di monadi scolastiche fortemente differenziate tra loro e sovente ad impianto strutturato in modo verticistico.

Entrando in una scuola oggi, da quella dell’infanzia alle superiori, si osserva un ambiente educativo nettamente diverso a cominciare dai linguaggi circolanti dove si colgono neologismi, anglicismi e acronimi in continua elaborazione: i corsi di formazione dei docenti previsti dal PNRR sono in maggioranza online e la sovrabbondanza dei modelli della cultura anglosassone risultano persino prevalenti rispetto alla tradizione del nostro sistema scolastico, in linguaggi, metodi e contenuti.

Taluni in modo persino imbarazzante poiché mutuano metodologie didattiche che sono già state ampiamente messe in discussione nei Paesi d’origine. Se la pedagogia comparativa fosse materia obbligatoria di aggiornamento professionale per gli addetti ai lavori si scoprirebbe che i sistemi scolastici accentrati muovono sperimentalmente verso il decentramento mentre quelli decentrati vanno nella direzione opposta: quella di un ‘common core’, un curricolo scolastico comune a livello nazionale per superare il fallimento didattico e organizzativo delle scuole gestite dalle autorità locali.

Gli anglicismi circolanti nelle nostre scuole, insieme agli acronimi, alle sigle, alle parole magiche e ai progetti effimeri senza verifiche rappresentano l’acritica adesione verso derive di omologazione superate dall’esperienza applicata alle circostanze. Senza contare l’ossessione - una vera patologia che si vanifica nelle procedure senza produrre risultati - della didattica e della formazione online: tutto deve passare attraverso la connessione ad internet (nel momento in cui la stessa Google sperimenta per i propri dipendenti l’uso di PC disconnessi, solo per scrivere testi). Dalla formazione dei docenti viene gradatamente espunta la lezione in presenza, con un relatore di livello a cui porre domande pratiche (anziché rispondere solo a test preconfezionati), molti dirigenti scolastici comunicano solo attraverso circolari (se ne contano oltre 300 l’anno - più del Ministero), alle riunioni via Zoom senza interlocuzione, al registro elettronico utile nelle superiori (anche per l’accesso ai voti da parte delle famiglie) ma inutile e complicato nella scuola d’infanzia e primaria: succede così che nella scuola – il posto di lavoro che secondo il pedagogista Cesare Scurati ‘realizza relazioni umane’ – la gente non si parla più ‘de visu’, solo contatti domanda-risposta come succedeva al cane di Pavlov. Gli alunni leggono poco e scrivono ancora meno, troppa fatica. In Finlandia da tempo è stato abolito l’uso del corsivo e si scrive solo usando i tablet: vediamo di non cadere nello stesso errore. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’incontro e della socializzazione, dello stare insieme: ripeto – e mi scuso- la metafora del Prof. Lombardi Vallauri che paragona la classe ad un’astronave degli assorti, intenti ad imparare sotto la guida maieutica e istruttiva di un insegnante.

A poco a poco il nostro sistema scolastico prende le distanze dalla tradizione e dimentica la cultura letteraria, artistica, musicale, scientifica che ci ha resi famosi nel mondo. Parlare solo in italiano è arcaico, leggere un libro una cosa fuori dal tempo, studiare storia e geografia una perdita di tempo, usare un quaderno e una penna per scrivere una roba da lista della spesa. Ci avviamo verso un nuovo analfabetismo culturale, semantico e sintattico, persino grammaticale e ortografico, disdegnando la conoscenza acquisita attraverso lo studio dei classici, per i numeri ci sono le calcolatrici, al posto della creatività subentrano gli algoritmi. E dunque la scuola che dovrebbe coltivare la bellezza e i buoni sentimenti finisce per essere un archivio docimologico di cui tener conto per promuovere o bocciare. Come concludere dunque questo cahiers del doléances, che menziona delusioni e disappunti raccolti specialmente tra gli insegnanti? Con le parole del Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, pronunciate al Convegno “Scuola digitale: il valore imprescindibile di carta e penna” organizzato il 18/7 u.s. dalla Fondazione Einaudi. “La rete non può né deve spazzare via la carta e la penna perché lettura su carta e scrittura a mano sono insostituibili. L’apprendimento attraverso i libri non è rimovibile dal sistema dell’istruzione” …… “Il digitale non è rinunciabile ma va governato: alla logica dell’aut-aut preferisco la logica dell’et-et, valorizzare al massimo entrambe le opportunità”.  E l’invito a riflettere su questi temi che sta nell’incipit del mio scritto non potrebbe trovare sostenitore più autorevole poiché il Ministro rappresenta l’unitarietà del sistema scolastico nazionale e gli compete per questo una linea di indirizzo.

Speriamo che venga raccolto da coloro che disdegnano i libri come strumento di formazione culturale e magari li manderebbero al rogo per far posto al coding digitale.

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Sat, 23 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Il gioco pericoloso con la questione europea]]> Una volta di più la questione dei flussi migratori scuote la politica italiana e quella europea. C’è la solita guerra di numeri, in cui ciascuno gioca a dir poco disinvoltamente. Il ministro francese degli interni Darmanin (un giovane leone che sembra punti a correre alle prossime presidenziali per succedere a Macron) dice che la Francia non può farsi carico di parte degli sbarcati a Lampedusa perché ha già accolto più dell’Italia: secondo Eurostat 93mila persone contro le 62mila presenti in Italia. Prontamente si accodano Germania ed Austria, ma anche tutti gli altri stati che evitano però di dirlo.

Facciamo qualche piccolo raffronto semplicemente preso da Internet ed è quello delle dimensioni. L’Italia secondo i dati ufficiali 2021 ha un territorio di 302.068 kmq, e 59,11 milioni di abitanti; la Francia occupa 551.695 kmq ed ha 67,75 milioni di abitanti; la Germania 357.592 kmq e 83,2 milioni di abitanti. Dunque i problemi non sono quelli della capienza per l’accoglienza.

Il problema è chiaramente quello del rapporto che ogni paese ha con le proprie opinioni pubbliche interne che sono poco disponibili a vedere incrementi nel numero di immigrati sul loro territorio. Del resto il Front National in Francia è forte, in grande crescita AfD in Germania e via elencando. Per scaricarsi la coscienza adesso i paesi europei affermano di essere pronti ad impegnarsi direttamente con l’Italia per impedire gli sbarchi. Peccato che sia un’impresa difficilissima, tanto più oggi che i trafficanti non operano più con navi o barche stipate, ma con precari barchini con poche decine di persone ciascuno. Come si possano rimandare indietro questi piccoli natanti non è affatto chiaro (non si può certo affondarli se non obbediscono…).

Si dovrebbe premere duramente sui governi della sponda africana perché blocchino loro le partenze, però non solo questi non hanno un reale controllo su territori dove dominano corruzione ed economie malavitose, ma ancor più i paesi europei sono in qualche concorrenza tra loro nei rapporti con paesi che hanno risorse interessanti (si pensi al petrolio libico, tanto per fare un esempio noto a tutti) e c’è il problema di Russia e Cina pronte a presentarsi come interessate tutrici della loro sovranità nazionale.

Il governo italiano si muove in questo complicatissimo ginepraio, a sua volta pressato da esigenze elettorali che fra l’altro impediscono qualsiasi approccio di solidarietà nazionale a fronte di una situazione molto preoccupante (le opposizioni sono, ben che vada, iper ideologiche nell’affrontare il tema e quanto a populismo neppure loro scherzano). In più è indebolito nella sua azione a livello europeo da questioni non piccole. Abbiamo un deficit di bilancio molto alto, per cui deve combattere per evitare il ritorno alle regole di austerità che lo penalizzerebbero (e lo fa nel più sciocco dei modi, impuntandosi a non approvare il MES, cosa che, ammesso che porti a qualche risultato, ci verrà rinfacciata per anni). Siamo per forza di cose sotto esame per la nostra gestione dei fondi europei del PNRR e anche qui scontiamo che per questa ragione abbiamo dato al mondo la prova provata di avere un sistema amministrativo e politico più che scassato. Si è cercato di guadagnare uno spazio di protagonismo proponendosi come pivot per una politica africana di un certo spessore (il cosiddetto piano Mattei): operazione senz’altro intelligente, ma che non ha tenuto conto che i nostri partner l’avrebbero interpretata come un inserimento nei loro affari a nostro vantaggio, per cui non ci agevolano per dirla in maniera soft (del resto è quel che accadde a Mattei quando sfidò il potere delle grandi compagnie petrolifere aprendo ad accordi di compartecipazione coi paesi produttori).

Su questo quadro già complicatissimo di suo si inserisce l’insipienza politica di Salvini che per raccattare un possibile allargamento del suo consenso (a spese del partito della premier) cavalca l’antieuropeismo. Nella sua miopia politica pensa che tanto questa roba è demagogia elettorale, poi a livello di relazioni fra i governi ci si muoverà diversamente, o meglio Meloni potrà fare il suo gioco in qualche modo per tutta la destra. Non è proprio così. Delle polemiche elettorali poi ci si ricorda e nei rapporti inter-governativi se ne chiederà conto alla nostra premier (magari per ragioni strumentali, ma non importa) e lo si farà per tagliare le ali ad una politica che vorrebbe contare di più.

Adesso Meloni può vantare il buon rapporto con la von der Leyen, fingendo di non sapere che da parte della presidente della Commissione gioca la voglia di ottenere il maggior numero di sostegni possibili per una sua riconferma. Ma lei non è una personalità così forte da poter tenere a bada i leader dei paesi europei, anzi in questo momento non è neppure in grado di contrastare l’immobilismo e la palude che secondo più di un qualificato osservatore sta dominando nelle burocrazie di Bruxelles.

Insomma quel che vediamo in scena è il classico gioco proibito (e pericoloso) in atto in sistemi politici che non sono solidissimi e che si sentono insidiati dal vento del populismo reazionario in crescita. Non ci sono solo le di difficoltà del sistema italiano: la scena europea mostra che di leader in grado di imporsi contro le fibrillazioni attuali non è che ce ne siano molti. Delors in anni non semplici seppe mettere relativamente in angolo la Tatcher, oggi di gente così non ce n’è, almeno ai vertici decisionali della UE (qualcuno può sperare in Draghi, noi applaudiremmo, ma temiamo di essere pochi e privi di qualunque potere per supportare un’operazione del genere).

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Wed, 20 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[L'equivoco culturale che sta rovinando l'autonomia scolastica]]> In un articolo comparso su  Il Messaggero del 27/8 u.s., il presidente della Consob Giuseppe Vegas esordisce con un breve escursus storico che partendo dalla legge Casati del 1859 e passando attraverso la Costituzione Repubblicana del 1948 fino a giungere all’istituzione della Scuola media unica nel 1963 intende rendere ragione dei progressi che il sistema scolastico italiano ha registrato in tema di estensione a tutta la popolazione in età scolastica del diritto all’accesso agli studi e l’innalzamento dell’obbligo, come grandi conquiste  sociali che hanno accompagnato la crescita del Paese. La sintesi è efficace: mancano tuttavia almeno la Riforma Gentile, i programmi della scuola elementare del 1955, la legge 820/1971 sul tempo pieno, i decreti delegati del 1974 (che compiranno 50 anni l’anno prossimo), la legge 517/1977 sul diritto allo studio e l’integrazione degli alunni disabili e con difficoltà, il DPR 275/1999 sulla cd autonomia scolastica. Per soffermarsi brevemente sui passaggi più significativi che ci hanno portato al presente. Non volendo scrivere un trattato sulla storia del sistema scolastico nazionale l’analisi di Vegas si sofferma tuttavia con particolare efficacia sulla crescente discrasia tra programmi scolastici e loro attualità, nonostante (e forse anzi a cagione) della crescente e pervasiva introduzione delle nuove tecnologie nelle metodologie dell’insegnamento-apprendimento, anche a motivo di una non corrispondente preparazione da parte del corpo docente.

Ma anche alla concorrenza sleale dei social che indirizzano verso una cultura dell’omologazione e del riduzionismo, proponendo temi e linguaggi e purtroppo anche modelli etici che con la buona educazione nulla hanno a che fare. Particolarmente interessante è la riflessione che l’autorevole estensore dell’articolo fa quando rileva ad esempio il progressivo ed ingiustificato decadimento di insegnamenti fondamentali come la storia e la geografia, indispensabili per consolidare una consapevolezza spazio-temporale che metta ordine agli altri apprendimenti, per inquadrarli in un contesto localizzato e cronologico dei fatti e dell’evoluzione della cultura. Ciò per far posto a discipline nuove, estemporanee e spesso non sorrette da un adeguato supporto epistemologico: è la scuola dei ‘progettifici’, effimeri e transeunti che radicano nel vuoto della cultura trasmessa e vivono di neologismi, anglicismi, sigle, formule che si confondono in un mare magnum di apprendimenti posticci e subito obsoleti. Resta fondamentale il radicamento agli apprendimenti tradizionali: molti alunni escono dai vari gradi scolastici senza saper localizzare un evento, distinguere l’opera d’arte di un autore, senza aver letto i classici della letteratura mentre l’ingolfamento nozionistico prevale sul metodo dell’uso del pensiero critico. Sovente anche alle superiori abbiamo alunni che commettono errori madornali di tipo ortografico, grammaticale, sintattico, non sanno leggere un testo e attribuirgli un senso, non sanno scrivere un tema che renda loro merito della capacità espositivo-narrativa, del riuscire a restituire un componimento che abbia capo e coda e un senso compiuto. Già il compianto Tullio De Mauro aveva evidenziato come questo impoverimento culturale finisse per inglobare la società adulta dove il 70% delle persone non è in grado di padroneggiare i meccanismi della letto-scrittura. Vegas attribuisce a tale confusione culturale la sovrabbondanza dei controlli sui risultati in termini di apprendimento: che ci sia un’enfasi irrituale sull’uso e l’abuso dei test è di tutta evidenza.

Tuttavia chi lavora nella scuola sa bene che non vi è qualità senza controllo. La cultura della verifica viene meno e si finisce per legittimare tutto ciò che si fa sulla base di un giudizio sommario ed autoreferenziale. Controllo non significa imposizione o negazione dell’autonomia ma rispetto dell’ortodossia. Va di moda scimmiottare in questi anni i sistemi scolastici di cultura anglosassone, nell’uso della lingua, nei metodi, nella formazione. Non mi stancherò mai di ribadire che ciò risponde più ad una moda passeggera (legata anche alla terminologia delle nuove tecnologie): chi studia sistematicamente la pedagogia comparativa sa che in quei Paesi ci si sta muovendo nella direzione di un curricolo comune, il cd. “common core”, e che le scuole gestite a livello locale hanno mostrato tutti i limiti di modelli organizzativi e formativi dell’autonomia portata agli eccessi.

Il Presidente Vegas sa che le scuole autonome fanno campagna acquisti di iscrizione di studenti e propone che esse siano messe in concorrenza tra loro per verificare quale istituto offre all’utenza un servizio formativo migliore. Dimenticando tuttavia che senza un organismo di controllo interno ogni risultato diventa opinabile. L’eccesso di autonomia nel sistema scolastico paradossalmente non stimola ma limita libertà di insegnamento, creatività, apprendimenti solidi e convincenti. Essendo svincolata da un sistema nazionale di istruzione-formazione che eviti diseguaglianze e disparità di trattamento, legate alla capacità e competenza della dirigenza scolastica, l’autonomia diventa riduttivo localismo.

Quanto all’abolizione dei titoli di studio – citando Einaudi come primo propugnatore - non farebbe altro che rinviare il controllo dei livelli di istruzione raggiunti: meglio che sia la scuola a selezionare, indirizzare, emendarsi, correggersi nel quadro di un indirizzo programmatico nazionale.

Il contrario sarebbe come dire: promossi dalla scuola ma bocciati nella vita.

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Sat, 16 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[È finita la luna di miele del governo]]> In queste ultime settimane il governo di Giorgia Meloni ha iniziato a perdere dei colpi. Sia in politica internazionale, un campo in cui aveva collezionato buone performance, sia in politica interna, dove da tempo non era andata così bene, si registrano difficoltà, ma soprattutto un certo raffreddamento nella considerazione di commentatori e analisti che pure fino a poco tempo fa avevano valutato positivamente il lavoro della attuale premier (e almeno di alcuni fra i suoi ministri).

La prova di Meloni e dei nostri governativi al G 20 in India non ha brillato, ma ad onor del vero in quel contesto era difficilissimo fare di più. Piuttosto ha suscitato molte giuste critiche l’attacco della premier al commissario europeo Gentiloni accusato di non fare gli interessi dell’Italia. Va detto che l’intervento seguiva a ruota quello, al solito sopra le righe, di Salvini che per primo aveva attaccato il commissario europeo all’economia bollandolo come un politico che non giocava con la maglia della nostra nazionale. Probabilmente Meloni, preoccupata delle iniziative del leader leghista per sottrarle voti con argomenti bassamente populisti, non ha voluto lasciargli il privilegio di essere l’unico a proporre argomenti da bar.

Ovviamente il più modesto dei consiglieri politico-diplomatici avrebbe fatto notare al suo premier che il lamentarsi in quel modo di un commissario non era mai stato fatto da nessun altro leader politico, perché sarebbe come lamentarsi perché un arbitro non favorisce la propria squadra del cuore. La secca replica di Bruxelles lo ha messo in luce ricordando che i commissari devono muoversi nell’interesse dell’intera comunità europea e non del proprio stato di appartenenza. Che poi qualcuno di essi abbia agito con un occhio più benevolo per il proprio paese è anche successo, ma se si vuole che ciò possa avvenire non lo si deve rendere noto.

In questo momento, con una situazione impantanata negli uffici di Bruxelles e con l’Italia che ha bisogno di molta “comprensione”, è stato proprio sciocco mettere Gentiloni nelle condizioni di non potere neppure dare una qualche mano con la dovuta discrezione. Ma il fatto è che statisti non ci si improvvisa e per di più quando si deve quotidianamente fare i conti con un alleato che ti pugnala alle spalle tutto diventa più difficile. La scelta di Salvini di esibire la sua vicinanza alla Le Pen non aiuta certo i piani di Meloni per il suo futuro in Europa, ma neppure quelli per risolvere i problemi aperti con gli uffici della UE (tanto più se, come nel caso delle lamentele per la mancata presa in considerazione dell’accordo ITA-Lufthansa, ci si sente rinfacciare che non abbiamo mandato neppure la documentazione necessaria).

La scelta di alimentare tensioni con la UE non pare molto perspicace, anche se evidentemente il fatto che anche il ministro Tajani si sia accodato ai critici di Gentiloni lascia supporre che a destra si valuti elettoralmente vantaggioso fare qualche puntata antieuropeista, probabilmente per crearsi coperture a giustificazione delle nostre difficoltà finanziarie.

La situazione della finanza pubblica rimane più che complicata, mentre il governo è di fatto spaccato fra l’impegno al sostegno dei redditi più bassi e la concessione di misure clientelari che soddisfino i partiti che lo sostengono. Entrambe le cose non si possono fare, ma al primo obiettivo non si può rinunciare perché azzopperebbe la credibilità della Meloni, mentre bloccare il secondo significa entrare in conflitto con gli alleati (ma concedergli comunque qualcosa vuol poi dire dare un qualche contraccambio, sia pure in misura minore, alle opposizioni: un disastro per la credibilità della tenuta del nostro sistema finanziario).

Gli interventi contro emergenze sociali, come il caso della legge contro la delinquenza giovanile, non sono sufficienti a recuperare credibilità. Non perché come dicono le opposizioni non si deve fare repressione, ma prevenzione (quando una casa brucia si fanno intervenire i pompieri, non si dice che non ci saranno più incendi quando tutte le case avranno sistemi per non farli scoppiare), bensì perché il fenomeno è così complesso che l’opinione pubblica stenta a credere che sarà messo sotto controllo. Così è più o meno per moltissime altre emergenze. Si promette che la sanità sarà rimessa in piedi pagando di più medici e infermieri, ma, anche ammesso che si trovino i soldi, questo è solo un aspetto di un sistema che avrebbe bisogno di una radicale nuova impostazione.

Sembra incredibile, ma non ci si rende conto che in un paese in cui da decenni si promettono interventi capaci di rimettere in sesto questa o quella situazione disastrata senza che si concluda molto (spesso quasi nulla) la gente non si lascia convincere più da nessun annuncio. Il ministro dell’istruzione dice che arrivano un gran numero di professori tutor per seguire i ragazzi, ma l’opinione pubblica non vede dove si possano trovare le professionalità giuste e teme che come sempre sarà l’ennesima occasione per sistemare un po’ di persone appiccicando loro per legge una qualifica che non si sa né se abbastanza appropriata, né se sarà accettata dal sistema scolastico.

Come sempre succede quando c’è un deciso cambio di maggioranze e di orientamenti politici si finisce per chiedersi alla prova dei primi fatti se poi “i nuovi” non si limitino a rubare i vestiti ai “vecchi”: cosa non sempre difficile da riscontrare, nonostante i vecchi, che denunciano adesso le deviazioni, si guardino bene dal riconoscere che si tratta di sistemi e di attitudini che proprio loro hanno lasciato in eredità ai nuovi.

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Wed, 13 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Omicidi, prima i coltelli poi i palloncini. Qualcosa non va]]> Quando sento parlare della nostalgia del passato, dei tempi di una volta, sempre migliori e più rassicuranti e vivibili mi sovvengono le periferie delle città in crescita demografica, polverose e buie, le strade non asfaltate e piene di pozzanghere, i malandrini nascosti nei luoghi dello squallore e del degrado, stanziali o itineranti nelle campagne, dediti al brigantaggio, alle violenze, ai furti, agli omicidi e agli occultamenti dei cadaveri. Ogni tanto si scoprono fosse comuni di infanti e minori violentati e uccisi negli orfanotrofi o negli educandati, anche negli Stati ora definiti più evoluti e civili. Si può risalire alla notte dei tempi o girare l’urbe terracqueo alla ricerca di un posto o di un tempo felice ma si scopre che essendo la malvagità e la cattiveria una componente dell’animo umano la storia è sempre stata un mix altalenante di fatti e misfatti. Certo seguendo i media e frequentando i social si ha in questo periodo – manco a dirlo - impastato di criticità di ogni tipo (guerre, pandemia, catastrofi climatiche, migrazioni disperate ecc.)  l’impressione di una montante escalation della violenza, trasversale ai target sociali, sempre più emergente tra i giovani, in special modo perpetrata verso le donne, con azioni criminali che si superano per efferatezza e crudeltà. Non passa giorno che la cronaca non ci renda conto di delitti mostruosi, spesso messi in atto con agghiacciante premeditazione, la distruzione dei corpi spolpati a coltellate, freddati a colpi di revolver, mutilati della testa e degli arti, messi in valigia per essere dispersi e disintegrati con una disinibita scaltrezza che lascia sbigottiti.

Non vorrei trovarmi nei panni di un avvocato difensore di un assassino colto in flagranza di reato o immortalato dalle telecamere: bisogna arrampicarsi sugli specchi per trovare attenuanti o trucchi procedurali che rallentino il corso della giustizia. O invocare il rituale dell’incapacità di intendere e di volere, un alibi sovente inesistente ma inevitabilmente da verificare: siamo tutti potenzialmente portatori sani di latenti pazzie. Per non parlare della possibilità di avvalersi della ‘facoltà di non rispondere’: tutto questo accresce il già diffuso senso di impunità e la quasi certezza di cavarsela con una pena irrisoria. Ho l’impressione che si stia passando un solco che può separarci per sempre dalla conquistata civiltà per farci ripiombare alla truculenza della vita nelle caverne. L’ho già scritto e lo ripeto: certe indecisioni della giustizia sull’applicazione delle misure cautelari trasmettono un segnale di debolezza strutturale, non solo nella magistratura ma nella società intera. Ormai il fatto che delitti orribili facciano parte del quotidiano ci sta portando a credere che si tratti di una deriva inevitabile, infatti la violenza montante si trasforma in delirio distruttivo e si espande di caso in caso fino a diventare un fenomeno sociale diffusivamente emergente, come il rialzo dei prezzi e dei mutui, le code in autostrada, le liti condominiali, il declino della scuola, la scomparsa della famiglia.

Nell’epoca del negazionismo e del relativo la vita stessa diventa uno scherzo con cui giocare d’azzardo o un accidente biologico succube delle tecnologie, un trastullo dei social, un challenge estremo immortalato come diritto a provare tutto il possibile per non cedere alle regole dei doveri individuali e collettivi. Ma poiché quel solco che separa la vita e la morte diventa sempre più uno strumento nelle mani dell’uomo, più dipendente dalla libera scelta e dalla crudele, spietata determinazione che dal caso fortuito, in pratica un esercizio di volontà, sono convinto che sarà sempre più sottile e opinabile la scelta tra il bene e il male. Alcuni criminali avevano precedenti eloquenti che sono stati colpevolmente tollerati, altri erano solo “brave persone” che si sono trasformate in efferati assassini. Gente della porta accanto, che suscitano stupore quando si rendono protagonisti di azioni delittuose. Ma nessuno di costoro, nessuno di noi viene da un altro pianeta, siamo tutti impastati in un vortice di incontri, amicizie, relazioni, infatuazioni, amori che ci rendono potenzialmente virtuosi o terribilmente capaci del peggio. Nessuno scende di notte da Marte per trasformarsi in un killer spietato. Per questo il rituale delle fiaccolate e dei palloncini liberati al cielo dopo i delitti nasconde una intrinseca ipocrisia. Il male, l’istinto criminale serpeggia nel corpo sociale ed è difficile distinguere chi sarà Caino e chi sarà Abele.

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Sat, 09 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Una contingenza difficile]]> Non è un momento facile per la politica italiana. Innanzitutto perché il bilancio dello stato non è messo bene: arrivano al pettine i nodi di politiche avventurose (bonus più o meno super dispensati alla leggera), la situazione economica dei nostri partner essenziali per le esportazioni non è buona (a cominciare dalla Germania), l’inflazione non è ancora sotto controllo né si capisce quando e come lo sarà. Tutto questo mentre ci sarebbe bisogno di interventi di sostegno al welfare: al di là del pur grave tema della povertà in espansione, c’è un sistema sanitario che funziona a macchie di leopardo (in piccola parte ottimo, in un’altra parte accettabile, in una grande porzione non funziona affatto) e c’è il tema del basso livello di troppi salari, in parte insufficienti per vivere adeguatamente, in parte comunque contratti tanto da non poter permettere la ripresa della domanda interna.

Sarebbe sbagliato sostenere che il governo non si renda conto della situazione: almeno una parte dei ministri (dalla premier a Giorgetti e a qualcun altro) ha davanti il quadro e se ne preoccupa. Che poi da questo riesca a trarre indicazioni su come uscirne, è un altro paio di maniche.

Come si è detto molte volte gli appetiti elettorali dei partiti, specie di quelli della attuale maggioranza, non si riescono a tenere completamente sotto controllo. Certamente l’assenza di risorse disponibili obbligherà a rinunciare a qualche progetto avventato (riforma delle pensioni, flat tax generalizzata, investimenti faraonici, ecc.), ma al prezzo di lasciar correre ulteriore demagogia, che è lo strumento con cui i partiti, privati della possibilità di realizzare tante promesse elettorali, distrarranno l’opinione pubblica orientandola su temi più o meno scandalistici (immigrazione, ma non solo).

Il governo ha dalla sua il fatto di non avere una opposizione credibile come sorgente di una alternativa. Le tensioni sociali non sembra possano confluire in un sostegno a partiti che per lo più sono a loro volta demagogici e incapaci di raccogliere consenso attorno a proposte con credibilità (e tali non sono le sparate massimaliste della maggior parte dei loro vertici). La situazione abbastanza strana è che il malessere sociale, che è anche abbastanza ampio sebbene per ora non di natura “incendiaria” come taluni vorrebbero far credere, scompagina la maggioranza senza offrire spazi di allargamento alle opposizioni. Quelle componenti che sono insoddisfatte del cosiddetto “moderatismo” della Meloni (in realtà una presa di coscienza di una situazione difficile) o si spostano sulle frange demagogiche alla Salvini e compagni o vanno ad ingrossare l’astensionismo. Questa gente alla capacità della sinistra di offrire un’alternativa non crede.

Del resto basta guardare alla situazione per capire questo fenomeno. L’insoddisfazione sociale, se non addirittura la rabbia che in anni passati aveva ingrossato a dismisura il consenso al grillismo dei Cinque Stelle ha perso fiducia in quell’alternativa che alla prova dei fatti si è dimostrata incapace di governare e produttrice di un bel numero di disastri i cui effetti si stanno pagando ora. Il PD ha perso la capacità di presentarsi come il partito della nuova classe dirigente. Si è dissolto in un movimentismo senza prospettive che insegue più o meno le mode di un presunto cambiamento sociale che avrebbe mutato ogni nostro quadro di riferimento (generando una nuova forma di propaganda reazionaria contro il cosiddetto mondo alla rovescia) e per il resto ripropone un massimalismo utopico che non trova consensi se non nei sognatori.

Per di più alle opposizioni mancano figure dotate della dialettica necessaria a sostenere questi sguardi alternativi. Sia Conte che la Schlein come “tribuni” sono fallimentari, e come veri leader politici mancano di carisma e personalità in proprio, ma non è che nelle altre fila ci siano politici in crescita.

Così il sistema è fortemente squilibrato: non c’è una dialettica vera e ragionata tra diversi orientamenti nell’analisi del presente e del futuro, perché tale non può essere considerato il cozzare delle demagogie e l’inseguirsi degli slogan di maniera. È particolarmente grave che ciò accada in una congiuntura in cui il quadro internazionale si fa ogni giorno più complicato. La nostra opinione pubblica non è molto sensibile a questo aspetto che invece è e sarà sempre più determinante.

Gli equilibri geopolitici scricchiolano. Gli USA stanno entrando in una fase elettorale molto controversa, la Cina alle prese con un indebolimento della sua potenza economica sembra rincorrere rivincite sul piano internazionale, la domanda di creare nuove aggregazioni rispetto alle sistemazioni intorno ad un certo predominio dell’Occidente appare sulla scena per quanto in modo ancora confuso (la vicenda dei BRICS col loro discutibile allargamento va valutata attentamente). L’incognita russa è emersa drammaticamente. L’Europa è quanto mai incerta sul suo futuro, alle prese con il problema di riprendere o meno la abbastanza miope politica di austerità di bilancio, ma altrettanto col tema di un problematico allargamento che secondo certe stime nel giro di sei-sette anni potrebbe portarla ad aggregare 35 paesi con problematica espansione ad Est. Come farà a governare un coacervo di così tanti stati piuttosto dissimili fra loro è una incognita di non poco peso, visto che anche il tenere insieme gli attuali 27 non è che sia così facile.

Il nostro paese avrebbe bisogno di una opinione pubblica e di una classe dirigente che si concentrassero a progettare come noi potremo stare in un mondo che presumibilmente sarà piuttosto diverso da quello che ha forgiato le nostre culture politiche. Certamente dovrà farlo mentre in contemporanea affronta tutte le debolezze, per non dire di peggio, che abbiamo accumulato negli ultimi decenni, ma per riuscirci deve far crescere la consapevolezza che si è esaurito lo spazio per giocare con le vecchie bandierine e con le muove demagogie.

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Wed, 06 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Dalla partitocrazia all'oligocrazia]]> Il progresso sta allontanando i rappresentanti dai rappresentati. La disintermediazione sta trasformando il rapporto fra cittadini ed eletti in quello fra followers e leader. Durante la Prima Repubblica, fino alle prime Tribune politiche (1960) nessuno aveva mai potuto vedere un personaggio politico se non guardando le foto sui giornali o partecipando ai comizi. I partiti "entravano in casa", o quasi: avevano sezioni dovunque, erano presenti in alcuni casi persino sui posti di lavoro o comunque si facevano vivi attraverso associazioni di categoria o sindacati collaterali ai principali soggetti politici. Il rapporto fra leader e cittadini era dunque quasi "fisico", almeno per il primo ventennio della Repubblica, ma anche in seguito, fino alla metà degli anni Novanta, era ancora basato su una rete di contatti e di relazioni che passavano per strutture di partito (un po' meno per i comizi, perché la televisione cominciava a far conoscere meglio i leader, che iniziavano a partecipare negli anni '76-'80 - da "Bontà loro" in poi - ai primi talk show). Il numero degli iscritti ai partiti, sebbene in costante calo, restava a quote comunque ragguardevoli. Il crollo della Prima Repubblica ha - di fatto - portato allo smantellamento di questo sistema (tranne che per pochissimi partiti). La Seconda Repubblica è nata sotto il segno di quelli che Berlusconi chiamava "clubs", cioè comitati elettorali col compito di portare il Verbo del Cavaliere al popolo (o, meglio, di vendere metaforicamente il prodotto Forza Italia ad una massa il più possibile ampia di consumatori, già sedotti e indirizzati verso modelli subculturali appropriati allo scopo durante dieci anni di azione delle televisioni private). Dalla Repubblica della "partitocrazia" (che sullo strapotere dei partiti si fondò e finì per morirne, abusandone) si passò alla Repubblica dei leader (il "partito del capo") nella quale - in costanza di un regime parlamentare - si arrivava ad un premierato elettivo di fatto, con due leader (Berlusconi e Prodi) che incarnavano i maggiori schieramenti. Si finiva per scegliere l'uno o l'altro. In questo, il Cavaliere era più abile, anche perché - a differenza di Prodi - era proprietario del partito di gran lunga più votato della sua coalizione. Votare Berlusconi voleva dire scegliere il centrodestra e solo dopo Forza Italia e i suoi alleati; il "patto con gli italiani", che voleva essere l'apice del rapporto diretto con gli elettori, diventò di fatto un contratto fittizio con tanto di grancassa mediatica col quale si illudevano i cittadini che il Cavaliere avrebbe davvero lasciato la politica se non avesse adempiuto ai suoi impegni. Non essendoci ancora i social network, non c'era neanche modo di leggere i post o i twitt di chi forse si sentiva preso in giro da una comunicazione che fingeva di essere orizzontale e partecipativa ma era in realtà verticistica e unilaterale, per non parlare degli opuscoli inviati per posta che esaltavano il Capo alimentandone il culto. Il centrosinistra, da par suo, seppe reagire debolmente; quando poi decise di scendere sullo stesso piano dell'accentuazione della figura del leader - al tempo di Renzi - finì per ritrovarsi nel 2018 al minimo storico dei voti. La crisi economica, che nel 1992 aveva contribuito ad abbattere la Prima Repubblica e nel 2008-'11 aveva mostrato le limitazioni di un governo (quello di centrodestra) ampiamente inadeguato nel gestire i conti pubblici del Paese, travolse i partiti nel biennio 2011-'13, facendo arrivare al 25% dei voti un soggetto politico populista che esaltava il dilettantismo dei propri eletti (un leaderismo al contrario, quello dell'"uno vale uno") accompagnato però dall'accentramento in Grillo della linea politica. Il modello della Seconda Repubblica che crollò fra il 2011 e il 2018 era una via di mezzo fra un modello neo-partitocratico e l'affermazione dei leader come dominatori indiscussi dei propri soggetti politici (questi ultimi ridotti a figure serventi, anche grazie a sistemi elettorali utili per forgiare gruppi parlamentari ad immagine e somiglianza dei capipartito). Avevamo, dunque, un'oligarchia temperata, nella quale c'erano sovrani assoluti (quelli del "partito del leader") insieme a soggetti politici ancora "plurali" (in quanto a classe dirigente) e (più o meno) contendibili. Le elezioni del 2022 ci hanno fatti entrare in una terza fase, quella che potremmo definire dell'"oligocrazia" nella quale quattro o cinque leader controllano i principali partiti del Paese e la premier ha in pugno contemporaneamente il governo, la sua coalizione, il suo partito, le nomine nelle partecipate di Stato e soprattutto alla Rai (un potere che Berlusconi ebbe, in effetti, ma che non impedì alla Lega di far cadere il governo nel '94, ai centristi di fare altrettanto nel 2005 e alla crisi economica - oltre che alla defezione dei finiani - di provocare la fine dell'ultimo governo del Cavaliere nel 2011). Oggi la Meloni è il prototipo della disintermediazione assoluta: non si concede quasi mai alle conferenze stampa (almeno Berlusconi lo faceva), usa gli "appunti di Giorgia" per imporre la sua "narrazione", gestisce il potere nel Paese, nel governo e nel suo partito dimostrando di non avere cedimenti o debolezze (peraltro, non ha un passato o un presente che la rendano ricattabile o indagabile, mentre il Cavaliere passava molto tempo a difendersi dai processi). La comunicazione della Meloni è unidirezionale, non c'è contraddittorio, è direttamente calata dall'alto. E' come se avessimo già attuato l'elezione diretta del premier (a costituzione invariata, segno che il sistema è molto più flessibile di quanto sembri) perché se un provvedimento come la tassazione degli extraprofitti delle banche passa senza che un vicepresidente del Consiglio ne sappia qualcosa e con un ministro dell'Economia più o meno coinvolto nella scelta, è evidente che abbiamo una persona sola al comando (e Salvini che lo sa, ne soffre). Berlusconi e Renzi, che attuarono anch'essi un misto di disintermediazione e di "partito del capo", sapevano però confrontarsi con la stampa e talvolta anche con i followers (al fiorentino Twitter piaceva e non si risparmiava quando si trattava di rispondere ad alcuni utenti critici); ciò nonostante, finirono entrambi male: il Cavaliere perse nel 2018 la leadership (in voti) del centrodestra, dovendo persino vedere il nuovo capo Salvini fare un governo senza FI e FdI (senza poter dire nulla in contrario, perché la Lega era il primo partito dell'ex Cdl) mentre il fiorentino, dopo il successo alle europee, perse di fila il referendum costituzionale, la presidenza del Consiglio e (pesantemente) le elezioni del 2018, uscendo dal Pd per fondare un partitino personale. Tutta archeologia, ormai. Il presente è il potere "monarchico" della Meloni, ma anche l'impossibilità del M5s di avere una linea senza Conte o la ferrea presa di Salvini su una Lega più - a tratti - mugugnante che realmente riottosa, per finire con un Pd ormai in mano alla Schlein (ne sanno qualcosa i presidenti di regione che cercano un terzo mandato ma dipendono dal suo volere). Tutti questi protagonisti della scena, più Calenda e Renzi nei propri partiti centristi, hanno il controllo ferreo dei soggetti politici principali del Paese. Sono leader che hanno solo followers: ascoltano spesso - almeno pare - più i sondaggi che la voce della "base", forse perché è più facile e non comporta contestazioni od obiezioni. La nuova Repubblica è fatta di "cerchi magici", di leader assoluti, di accentramento del potere in pochissime mani, di disintermediazione: in sintesi, è un'oligocrazia. Che però, dal punto di vista formale e in parte anche materiale, rispetta tutti i canoni democratici.

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Sat, 02 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Adolescenti in balia della violenza, una questione sociale urgente]]> Abbiamo quasi esaurito il lessico delle esecrazioni utili per commentare le vicende di violenza di cui quotidianamente abbiamo notizia. Colpiscono la reiterazione dei fatti, lo scatenarsi delle pulsioni a sfondo sessuale fino allo stupro e i femminicidi, senza riguardo all’età, lo sfociare di queste azioni criminose e di sopraffazione in gesti di deliberato e predeterminato annientamento delle vite umane, l’associazione a delinquere di giovani e giovanissimi- molti ancora minorenni- il senso di impunità che spiega la ripetizione di questi fatti di cronaca.

I più recenti avvenimenti sono accaduti in questi giorni a Palermo e nel napoletano, ma veramente uno sovviene all’altro e rimuove dalla memoria quelli precedenti, è stata un’estate calda e distruttiva, come se un morbo inguaribile avesse soverchiato le regole del vivere civile: ma mettendo in fila tutti gli omicidi, i femminicidi, gli stupri solitari e di gruppo la linea del tempo ci porta molto indietro, contarli dall’inizio di ogni anno è solo un fatto statistico. Quando la violenza diventa inarrestabile deriva sociale, quando gli istinti e le pulsioni accecano la coscienza fino ad annullarla qualche interrogativo va posto. Che cosa sta succedendo in noi e intorno a noi?  Certamente il coinvolgimento dei minori come attori di questa rimozione dei limiti e protagonisti di comportamenti disgustosi, ingiustificabili, terrificanti  ci invita a riconsiderare l’adolescenza come età della crescita e degli apprendimenti, evidentemente non esistono più buoni maestri per coloro che si macchiano della scelta di fare del male, non ci sono più né a casa né a scuola: oppure bisogna ammettere che giovani e giovanissimi, pur istruiti al bene e all’applicazione di buone regole di vita disdegnano spesso gli insegnamenti tradizionali per assumere le sembianze di una generazione che attraverso i social e l’emulazione collettiva, sta perdendo il senso del limite.  Qualcuno ha scritto che i gruppi di ragazzi che si uniscono per compiere gesti di teppismo, distruggere le auto in sosta nel girovagare notturno, che allagano le scuole, che vedono nelle loro coetanee facili prede si cui sfogare le proprie pulsioni sessuali senza freni inibitori, che picchiano i disabili e uccidono i clochard,  indifferenti ai concetti di rispetto umano, di dignità della persona ma consapevoli di realizzare una concezione strumentale e distruttiva del corpo e dei sentimenti altrui, lasciando ferite indelebili, macchie che vanno oltre l’accertamento del DNA,  questi gruppi che si accorpano e si ‘gasano’ per progettare azioni senza limiti fisici e morali non devono essere definiti come quelli del “branco” o delle “baby gang”. Forse sono definizioni azzardate, forse chi si macchia di questi reati non ha ricevuto educazione alcuna, buoni esempi, raccomandazioni cogenti. Anche se esprimono comportamenti predatori tipici di chi si aggrega per delinquere. Non facciamone una questione nominalistica.

I social stanno alla base di questi meccanismi distruttivi o autolesionistici: non siamo stati capaci- noi adulti- a limitarne l’uso, non controlliamo in quali meandri paludosi ‘navigano’ in rete i nostri figli.

C’è poi la diffusione dello sballo come rifiuto di una quotidianità noiosa e castrante. Girano droghe di ogni tipo, ovunque. A scuola, per la strada, nelle discoteche: i pusher sono volti noti e non sempre hanno le sembianze del lupo mannaro. Accanto a questa diffusione massiva di stupefacenti, alcool, pasticche dello stupro ci sono molte armi che girano tra giovani e giovanissimi. Auto di grossa cilindrata a disposizione per challenge estremi.

Che cosa sanno i padri e le madri di questi adolescenti? Quasi nulla, certa fiducia senza controlli è più scellerata dei comportamenti dei figli. Sono gli adulti che hanno impartito in questi anni la didattica dei diritti e delle libertà sfrenate, crescendo una prole fondamentalmente viziata, dicendo sempre e solo dei “sì”. Che cosa ci fanno ragazzini e ragazzine in giro alle tre di notte? Dove sono i loro genitori? Queste domande sono propedeutiche ad ogni spiegazioni postume, in molti casi li vanno a raccattare sui luoghi dei delitti, nei postriboli del sesso libero, nei meandri dello stordimento, tra i rottami degli incidenti stradali.

Questi giovani sono artefici del male e ne sono vittime.

Viene da chiedersi se sia proprio deprecabile ritornare ad esercitare le proprie responsabilità di padri e di madri, se non sia giusto imporre dei limiti, ripristinare il verbo “ubbidire”, reintrodurre il concetto di castigo a fronte di comportamenti devianti e pericolosi, fino alla vera e propria delinquenza vissuta come passatempo perché “le cose belle si fanno tra amici”.

Ricordano i protagonisti del libro di Gilbert Cesbron “Cani perduti senza collare”, una generazione di ragazzi allo sbando, lasciati soli davanti all’impatto con le difficoltà della vita, e chiamati a costruire da sé il proprio futuro attraverso gli errori e le incertezze della giovane età. La deriva pervasiva del male emulato come comportamento normale va fermata e corretta.

E tocca a quello che resta di scuola e famiglia farlo senza indugio.

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Sat, 02 Sep 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Un autunno impegnativo]]> L’estate sta finendo e la politica riprende il suo lavoro, si spera quello vero, non le diatribe a vanvera su chiacchiere da bar di un generale, su estati più o meno militanti, su egemonie televisive da imporre e via di questo passo. La riunione del consiglio dei ministri di lunedì 28 agosto dovrebbe riportare tutti al confronto con la realtà: il governo e la maggioranza per la sua parte, l’opposizione per la propria.

I principali problemi sono tre: l’ondata eccezionale di immigrazioni, la crescita dei prezzi e la connessa inflazione, l’elaborazione di una legge di bilancio che non faccia perdere al nostro paese il suo equilibrio insieme al suo credito internazionale. Sono tre aspetti profondamente interconnessi che sicuramente non possono essere risolti nella prima seduta post ferie del Consiglio dei ministri. Si inizia a discutere, si saggiano reciprocamente le posizioni, poi ci vorrà tempo per avviare una vera progettazione politica (sperando che le tensioni presenti nella maggioranza e la voglia di fare agitazione da parte delle opposizioni consentano un confronto costruttivo).

Iniziamo dalla questione della legge di bilancio, che è molto delicata. Non si tratta solo di far quadrare gli appetiti di partiti e fazioni che vogliono ottenere vantaggi per il proprio elettorato: un lavoro improbo, ma che alla fine può contare sul fatto che i soldi per tutto quel che vorrebbero i partiti non ci sono e che non si può fare nuovo debito in maniera rilevante. Se però le varie componenti saranno costrette a farsi bastare le magre disponibilità presenti, non è detto che questo le convinca a lasciar perdere con la demagogia non più delle promesse, ma adesso delle accuse fasulle a chi, brutto e cattivo, ha impedito di distribuire ricche prebende. Ora quel genere di demagogia è pericoloso, non da ultimo perché cerca di scaricare la “colpa” del mancato festino sull’Europa e, da parte di componenti neppure troppo marginali, sulla politica estera filo-Ucraina e filo Nato del nostro paese.

Ora va ricordato che noi abbiamo bisogno dell’Europa da molti punti di vista: per una collaborazione sul fronte PNRR (dove bisogna evitare che ci facciano troppo le pulci), per non far passare un ritorno ottuso ai vincoli di bilancio pre-Covid, per avere alleati sia sul fronte della gestione dell’immigrazione che su quello della politica africana, che è una opportunità per consolidare il nostro ruolo di protagonisti nel gioco internazionale. Purtroppo c’è scarsa consapevolezza del delicato momento. Salvini pensa solo a far demagogia elettorale per non vedersi marginalizzato dalla Meloni, FI non sa bene che profilo prendere, FdI è in tensione fra una larga parte dell’elettorato che la vorrebbe sempre più sulla via del partito conservatore e una parte minore, ma di cui fanno parte quasi tutti i quadri che vengono dall’epoca dell’estremismo di destra, la quale è restia a rinunciare al vecchio immaginario della sua passata stagione.

Meloni appare indecisa nell’affrontare queste tensioni, anche perché non dispone di molto personale che abbia una formazione estranea a quella fase che ha connotato i quadri del suo partito. Nei fatti si tiene abbastanza alla larga da quei revanchismi, ma nella comunicazione per non perdere il contatto con essi oscilla fra silenzi che naturalmente le vengono imputati dalle opposizioni e ambiguità verbali per mostrare che lei è poi sempre quella di una volta.

Si può capire che anche per la premier la prospettiva della prova elettorale delle europee sia dirimente, ma la indebolisce nella ricerca di quell’accreditamento decisivo sia a livello internazionale che livello interno, dove si ha l’impressione che quote delle classi dirigenti non siano contrarie a darle un certo credito, ma vengano costantemente tenute sulle spine dal riscontro di un contorno che non ispira fiducia. Eppure proprio in alcune battaglie chiave la fiducia sarà un elemento decisivo. Si pensi alla questione dell’inflazione legata in massima parte all’incremento dei prezzi al consumo. Ora in questo c’è una larga componente di speculazione, perché tutti gli attori che incidono su questi comparti (produttori, trasportatori, intermediari, venditori) sono alla ricerca di recuperare i guadagni perduti nei due anni di pandemia. Lo si vede benissimo se si analizza l’impennata dei prezzi nel settore del turismo e del tempo libero.

Non si può certo pretendere che le opposizioni accorrano in soccorso del governo, ma il soffiare sul fuoco delle contraddizioni, il fare demagogia finto progressista non giova neppure a loro. Anche qui la prova è nella questione dell’incremento esponenziale dell’immigrazione irregolare. Si tratta di un fenomeno epocale che cadrebbe sulle spalle di qualsiasi governo fosse al potere, senza che ci siano strumenti per mettere sotto controllo il fenomeno. Si può capire una certa soddisfazione delle opposizioni a denunciare la verificata inconsistenza delle sparate delle destre quando preannunciavano che una volta al potere avrebbero fermato gli sbarchi, ma a non riconoscere la grave problematicità di una situazione che non si può controllare se non in misura più che modesta si alimenta solo la fortuna delle demagogie estremiste, che non risolvono nulla, ma che a tanti danno la soddisfazione di spararla grossa.

Poiché siamo convinti che è appena iniziata una stagione difficile per il nostro paese, crediamo che sarebbe bene che si accentuassero le occasioni di confronto e di dialogo al più largo raggio possibile. La maggior parte dei politici pensano che così si perdono voti, perché nella loro visione la gente ama le contrapposizioni e gli scontri e se mancano si convince che in fondo non val la pena di votare. Non è così: nelle situazioni difficili, e quella verso cui andiamo lo sarà, vincono i coraggiosi incontri intorno alle piattaforme delle cose da fare per risolvere i problemi in campo.

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Wed, 30 Aug 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Il massacro dell'Ucraina, tra impliciti ed evidenze]]> Il 24 febbraio 2022 iniziava l’invasione su larga scala dell’Ucraina, definita eufemisticamente da Putin “operazione militare speciale”. Se quest’ultimo l’avesse presentata per ciò che realmente è, cioè una guerra, quello stesso giorno sarebbe stato smascherato in primis davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU facendone espellere la Federazione Russa –che ne è discutibilmente membro permanente con diritto di veto- per dichiarazione unilaterale di guerra. Nei salotti televisivi e domestici italiani, sui social media e da certa stampa negazionista la realtà è sempre stata posta in forma dubitativa, quasi come se quell’aggressione militare punitiva e vigliacca fosse in qualche modo stata provocata. Ciò che Putin confidava essere un ‘blitzkrieg’ che in tre giorni gli avrebbe consentito di prendere Kyiv defenestrando Zelensky, s’è rivelata essere l’operazione fallimentare speciale più insensata della Storia moderna. Tuttavia, sospinta da un forte antiamericanismo latente e da un filoputinismo implicito, quella pletora di pacifinti ha proseguito sui media compiacenti la più mendace e vergognosa campagna di mistificazione storica dei fatti. A sinistra si sono posizionati gli intellettuali più cogitanti, che con fare più o meno accondiscendente hanno invitato a comprendere le presunte ragioni dell’aggressore rispolverando immaginifiche realtà storiche inesistenti, annessioni volontarie che non ci sono mai state e violando il principio dell’autodeterminazione dei popoli. All’estrema destra populista e sovranista si sono posizionati invece complottisti, cospirazionisti, trumpiani e gli stessi negazionisti che pochi mesi prima confutavano l’efficacia dei vaccini per il Covid e l’esistenza stessa della malattia.

La resistenza ucraina ci ricorda – e lo dovremmo menzionare più spesso - la militanza dei nostri partigiani contro fascisti nostrani e nazisti invasori.      

Certamente tutti vorremmo che la guerra finisse presto: gli effetti catastrofici di quella scellerata e rovinosa iniziativa si sono materializzati nei raid quotidiani che hanno comportato la distruzione di villaggi e intere città in cui sono stati rasi al suolo ospedali, scuole, asili, centri commerciali e abitazioni; col massacro di civili inermi, la deportazione forzata di 17mila bambini (spesso resi orfani dagli stessi criminali che li hanno poi rapiti) nelle aree più lontane della Russia. I russi hanno torturato e violentato donne e bambini d’ogni età; hanno usato la minaccia nucleare diretta e indiretta prendendo in ostaggio centrali atomiche, hanno provocato il peggiore disastro ambientale causato intenzionalmente dall’uomo negli ultimi decenni distruggendo la diga di Nova Kakhovka. Hanno ricattato i più poveri e indifesi con la fame, distruggendo tonnellate di grano. Hanno usato il freddo e il buio per piegare un popolo che hanno già provato a sradicare 90 anni fa con l’holodomor, ripetendo uno dei peggiori genocidi della Storia. Ciascuno degli aspetti dell’essenza rascista è stato tanto evidente e ben documentato da indurre la Corte Penale Internazionale a spiccare per la prima volta nella Storia un mandato d’arresto nei confronti del Presidente d’una Potenza nucleare. Giunti a questo punto è necessario un approfondimento storico dei fatti -numeri alla mano- su iniziativa dei governi degli Stati liberi e soprattutto dell’ONU e di tutte le organizzazioni umanitarie. Le immagini dei palazzi bombardati, dei prigionieri torturati, bruciati e mutilati, delle donne violentate, degli anziani coperti di stracci che raccattano quel poco cibo che riescono a procurarsi seduti tra le macerie di quel che resta delle loro case, cancellata ogni intimità e ogni ricordo domestico nella miseria del presente, fatta delle cianfrusaglie che rimangono sono sotto gli occhi di tutti, e pongono ciascuno di noi dinnanzi alla propria coscienza. Vivere -o meglio, sopravvivere- sotto la minaccia continua delle bombe e del ricorso alle armi atomiche è indescrivibile: proviamo ad immedesimarci nei sentimenti di quel popolo massacrato, della “martoriata Ucraina” -come incessantemente Papa Francesco la ricorda e la presenta agli occhi del mondo

S’è perso il conto dei bambini morti sotto il fuoco russo: pare che siano finora oltre 500 i minori a cui è stata tolta la vita in nome di un’invasione che il regime e persino il Patriarca della Chiesa Ortodossa hanno giustificato come sacra e foriera di beatificazioni per i militari che si fossero distinti semmai con maggior ferocia in una guerra  che non aprirà loro le porte di alcun paradiso -come al contrario gli è stato fatto credere- ed è ora che il mondo occidentale e le religioni pacifiche prendano le distanze da questo massacro del genere umano, dei più deboli e indifesi, perpetrato in nome di Dio accusando d’estremismo chi dissente e d’immoralità chi si discosta dal concetto di una vita sessuale diversa da quella prescritta dallo Stato. Incommensurabilmente più alto e grave è il numero dei piccoli sottratti alle loro famiglie e portati nella lontana steppa o in Siberia, di cui non si ha più notizia o traccia. Piccoli russificati, cioè cresciuti e ‘rieducati’ secondo i principi del regime a cominciare dall’inocular loro l’odio per una Patria lontana che viene dipinta come una realtà geografica e storica inesistente e “nazista”.

Vien da chiedersi in cosa eticamente si distingua questa dottrina che ispira il sacro furore contro le debolezze e le “immoralità” dell’Occidente dalle condizioni in cui vivono gli uomini e soprattutto le donne, private d’ogni più elementare dignità personale, del rispetto che si deve a ogni essere umano, della gioia e del desiderio di vivere, come accade in Afghanistan e in Iran.

Le evidenze sono palesi e gli impliciti vanno messi a nudo: dobbiamo inforcare occhiali che ci svelino la realtà del dolore della miseria, della sopraffazione e della morte per ciò che sono.

Gli estremismi politici, ideologici e religiosi sono una piaga devastante di cui dobbiamo capacitarci senza mistificazioni retrospettive e giustificazioni di qualsivoglia natura.

La guerra, le guerre devono finire senza che le vittime – gli Stati aggrediti, i popoli, i civili – siano costretti a rassegnarsi ad un’inaccettabile sottomissione. I tiranni non conoscono la Storia perché dimostrano di non averne imparato alcuna lezione.

Forse il sacrificio dei martiri porta prima o poi ad un riscatto ma il prezzo che si paga è quello di rinnovati, silenti olocausti. È ora che tutto finisca, certo ma non con la soccombenza.

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Wed, 30 Aug 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Una Autonomia oltre i confini. De Gasperi e il primato del bene comune]]> Organizzato dalla Fondazione Trentina “Alcide De Gasperi” .si è tenuto a Pieve Tesino (TN) l’annuale Seminario di Studi sulla figura del grande Statista. L’autorevole relatrice incaricata di esporre la ventesima lectio degasperiana si è soffermata in modo magistrale sul significato del concetto di confine nella vita di De Gasperi, entro il tema dell’autonomia. Il senso di confine e quello di autonomia si sono intrecciati in una storia comune. De Gasperi non visse mail il confine come un muro da abbattere o un recinto entro cui serrare un hortus conclusus ma come linea di collegamento, una cerniera per unire. Rispetto ad un popolo che aspirava ad autogovernarsi è stata in lui centrale l’idea concreta dell’autonomia: non di quella astratta, parlata o ideologica ma di quella legata alle azioni politiche da compiere, per realizzare il buon governo, il bene comune, relazioni positive, la buona amministrazione, l’interesse generale. la pacifica convivenza. Non si rinvengono molte definizioni di autonomia negli scritti degasperiani. Uomo di confine accomunato ad altri grandi protagonisti che con lui hanno fatto l’Europa si misurò nelle situazioni in cui si trovò ad operare come uomo politico, facendo pratica costante in rapporto a situazioni di confine sempre decise altrove che traevano origine dalla storia dei popoli: la frontiera dell’impero, quella italiana ridefinita al termine della prima guerra mondiale, quella scaturita dal confronto con gli alleati al termine della seconda, nella consapevolezza del carattere relativo di quei confini, e della necessità di trovare soluzioni che garantissero pacifica convivenza e relazioni positive.

Non idee astratte o autoreferenziali ma “una serie di invenzioni pratiche” che traevano origine dalla storia dei popoli per decisioni da assumere dentro una realtà concreta da affrontare e governare.

De Gasperi – nato nel Trentino asburgico ed eletto nel Parlamento austriaco - non fu un irredentista: si occupò in tempo di pace e di guerra, dall’Università alla cura e attenzione verso la minoranza italiana che rappresentava. Cura e attenzione più che rivendicazioni: la ricerca di un equilibrio possibile, in una logica che non fu mai di rottura ma di ricomposizione, in una visione universalistica.

Con la fine della prima guerra il confine si sposta: la condizione della componente linguistica tedesca nel sud Tirolo corrispondeva a quella della minoranza italiana prima della guerra stessa. Autonomia come strumento per realizzare la democrazia e realizzare il buon governo: il centralismo livellatore è nemico di tutti. Non solo nelle relazioni tra Italia e Trentino, il suo pensiero supera la dimensione localistica e diventa visione nazionale, nel suo primo discorso al Parlamento nel giugno 1921, essa diventa metodo generale di organizzazione dello Stato, come proposta politica nazionale del PPI per tutto il Regno. La riforma della burocrazia non deve applicarsi solo alle nuove province ma deve diventare un “laboratorio sperimentale di autogoverno e coesistenza fruttuosa”. Dopo la seconda guerra mondiale, l’accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 che teneva conto di realtà complesse, comprendeva i capisaldi fondamentali di un assetto che tenesse conto del confine del Brennero riconfermato, quello della Regione Autonoma, quello delle due province di Trento e Bolzano. Il quadro giuridico iniziale ha recepito successivamente esigenze ad adattamenti progressivi via via emergenti, tenendo conto delle due popolazioni linguistiche ad autogovernarsi.

La vicenda dell’Euregio, Tirolo, Alto Adige, Trentino è una realtà che ha dimostrato di dare i suoi frutti, a partire dagli accordi e dalle cooperazioni tra le Università.

Lo spirito di apertura e la lungimiranza di De Gasperi veniva confermata nel suo discorso di Trento del 1948: “dobbiamo dare una risposta che vada oltre le nostre montagne…..siamo in cammino, siamo ai primi passi verso gli stati uniti d’Europa, non guardiamo le cose da un punto di vista piccolo”.

La metafora del “confine” ci consente oggi di andare oltre i recinti delle realtà autoreferenziali, mentre nascono nuove paure e tendenze, nei confini immateriali che si fondano su sterili nostalgie del passato, tendenze polarizzanti, e bisogni identitari. Ci sono giuste aspirazioni che specularmente paventano rischi assolutizzanti.

L’autonomia è tipicamente una posizione di relazioni “con”, non può non riguardare rapporti con gli altri. Il suo contrario è la sovranità i cui caratteri essenziali solo assolutezza ed esclusività.

L’autonomia è partecipazione, dialogo, confronto che va oltre i confini. Occorre un approccio sempre attento alla sostanza delle cose piuttosto che alle loro forme. “Autonomia è fiducia nel popolo ad amministrarsi da sé”. Separatezza, autoreferenzialità e autosufficienza sono i confini e i limiti dell’autonomia stigmatizzati nella concezione degasperiana. La cooperazione è il modello identitario che può tendere a rafforzare il senso più autentico dell’autonomia: in queste valutazioni sta la grandezza dell’intuizione degasperiana. La società secondo De Gasperi è un concetto che non si esaurisce in una lingua, in una storia, in un destino ma in principi e valori condivisi, in una identità comunitaria, in una integrazione istituzionale che guarda all’Europa come insieme di cittadini associati che si riconoscono nei principi di dignità umana, libertà, uguaglianza e rispetto dei diritti umani. Laddove i confini diventano cerniere.

Da soli non si va lontani, specie in epoca di intelligenza artificiale e delle sue incognite implicite.

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Sat, 26 Aug 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Piano con le parole]]> Un tempo l’estate era il momento del libero sfogo delle provocazioni politiche: li chiamavano “ballon d’essai” e si pensava servissero a buttare dei sassi nello stagno di un’estate in cui la gente, sotto l’ombrellone o sui monti, lasciava correre dando a quelle parole il peso inconsistente che avevano.

Non è più così, un po’ perché i periodi di ferie si sono ridotti anche per i politici, un po’ perché nella pubblica opinione le preoccupazioni per il futuro crescono: sia quelle dipendenti dalle angosce esagerate a cui indulge la comunicazione, sia quelle che nascono da analisi più serie su una contingenza che non si capisce ancora come potrà evolversi.

Proprio per questo sarebbe bene che i politici imparassero a misurare le parole in vista delle scadenze che ci attendono. Un esercizio certo non facile con la pressione dei talk show e con la convinzione che se non si sta costantemente sotto i riflettori non si guadagnano voti. Eppure, come si è visto più volte, il buttarsi in spericolati esercizi retorici porta poi a vedersi chiedere conto di quel che si è promesso e delle intemerate sui più diversi argomenti propalate a piene mani.

Sarebbe bene che tutti iniziassero a prendere in considerazione il fatto che in autunno dovranno misurarsi innanzitutto con la predisposizione del bilancio per il 2024. Tutti gli osservatori economici degni di questo nome avvertono di una banale verità: non ci sono risorse per distribuire mance elettorali e per tentare manovre populiste per guadagnare consenso. La nostra finanza pubblica ha margini di manovra più che limitati e il fatto è accresciuto dalla necessità di affrontare i costi delle catastrofi alluvionali che si sono abbattute sul centro Italia, nonché della congiuntura non certo favorevole determinata dal caldo eccezionale di luglio. Non possiamo certo permetterci di fare nuovo debito pubblico sia per i vincoli europei (e con la vicenda del PNRR abbiamo molti riflettori puntati su di noi) sia per un’inflazione che ancora non è domata e che ha riflessi pesanti sui tassi dei prestiti.

La situazione della guerra in Ucraina è piuttosto confusa. La Russia rafforza la sua strategia distruttiva con un evidente obiettivo di forzare la situazione: cosa comprensibile dal punto di vista di Putin che ha bisogno di affermare la sua “potenza”, ma estremamente pericolosa perché non è chiaro fin dove vorrà spingersi. E si dovrà anche tenere conto delle contromosse di Kiev che non può certo accettare passivamente questa escalation. Significa che si potrebbe avere anziché la ipotesi tante volte ventilata di una specie di stanca guerra che si trascina senza che nessuno dei contendenti forzi la situazione, una nuova fase di ricerca del colpo finale, da una parte e dall’altra, e si sa che quando le guerre prendono questi precipizi c’è poco da stare allegri. Del resto l’invocare fantasiose iniziative di pace non porta da nessuna parte, per la semplice ragione che anche quelle hanno bisogno di una “forza” che in questo momento nessuno ha. Dunque dobbiamo attenderci una fase molto tesa su quel fronte, il che, come si è visto, ha ricadute tutt’altro che trascurabili sulle vicende del mondo.

Molti invocano iniziative europee, ma queste richiederebbero un quadro più stabile nelle leadership dei 27 paesi aderenti, soprattutto nei principali. Non è tanto questione di come andranno le elezioni per il parlamento europeo il prossimo giugno: ha naturalmente la sua importanza, ma non così decisiva come si tende a far credere (l’interesse dei partiti, concorrendo ciascuno in proprio col conteggio proporzionale dei voti, è drammatizzare la situazione, ma non è esattamente così). Il pallino, per usare una metafora frusta, è nelle mani dei due organismi controllati dai governi, il Consiglio europeo e il Consiglio d’Europa: è in quel contesto che, per esempio, si scelgono il presidente della Commissione e il presidente europeo (i successori di von der Leyen e di Michelle), che poi certo devono essere ratificati dal nuovo parlamento, ma è una seconda battuta.

Ora la situazione a livello di governi non è proprio stabilizzata: Macron e Scholz hanno le loro difficoltà, la Spagna non si capisce ancora come uscirà dalla prova elettorale, ci sono le incognite delle votazioni autunnali in Polonia, terreno al momento non in mano esattamente a forze illuminate, e in Olanda dove si dà in crescita un movimento populista radicale di destra. Fare i conti con questa fase non sarà una passeggiata anche per una leader come Giorgia Meloni che pure sinora si è mossa con una certa abilità sulla scena internazionale.

A casa nostra la situazione non è delle più tranquillizzanti. La coalizione di destra-centro al governo è percorsa da tensioni fra le sue componenti, il che spinge tutti ad accentuare le fughe in avanti nella demagogia. L’opposizione di sinistra non trova pace per le spinte del massimalismo che è, se possiamo parafrasare una celebre formula, la malattia senile del progressismo in crisi di creatività. Una variante di centro riformatore non riesce a decollare per mancanza di leader che sappiano anche fare squadra.

Manca una opinione pubblica capace di costringere tutti i partiti a misurarsi con quello scenario che abbiamo tentato, sia pure sommariamente, di descrivere all’inizio. Certo quando si parla di cose serie in maniera seria si è contemporaneamente attaccati dai massimalisti che vedono messa in pericolo la loro posizione sulla scena e dagli ultra-realisti che amano sempre ricordare che i problemi profondi sarebbero ben altri (per dire che solo loro capiscono davvero i misteri del mondo).

Eppure di un bagno di realtà e non di parole al vento, per eccitanti che possano essere, ha bisogno il nostro paese che non potrà sfuggire all’appuntamento con la complessità che si va delineando nel quadro generale. Per questo ci permettiamo di suggerire sommessamente a tutti di stare attenti a come si parla.

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Wed, 26 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Le regole realizzano e custodiscono i valori]]> Come diceva Georges Bernanos “non siamo noi che custodiamo le regole ma sono le regole che custodiscono noi”.

Dimentichiamo spesso – infatti – che il rispetto delle buone regole non costituisce solo un vincolo, magari fastidioso, a cui non possiamo sottrarci perché prevede obblighi e sanzioni ma anche una preziosa risorsa per essere gratificati da protezioni individuali e certezze sociali.

In un contesto esistenziale dove prevalgono la fragilità interiore e lo sbandamento emotivo ci accorgiamo quanto sia rassicurante poter contare sulla socializzazione dei valori.

Le tradizioni, le consuetudini, le istituzioni in cui la società si riconosce sono involucri che contengono la sedimentazione del pensiero e delle azioni, quello che resta dei vissuti, il deposito delle esperienze, la convenzione condivisa dei comportamenti che ci permette sia di vivere in una rete di relazioni che hanno un significato, in cui possiamo identificarci, sia di scambiarci messaggi reciprocamente comprensibili.

Il frettoloso elogio del cambiamento fine a sé stesso, oggi tante volte ricorrente nelle aspettative sociali e nelle aspirazioni individuali ma spesso imperativo categorico della globalizzazione e metafora perdente della progettualità, non può privarci della ineguagliabile, rassicurante condizione mentale di stabilità che ci deriva dalla certezza di possedere i punti di riferimento che ci siamo dati.

La vita è una continua ricerca di situazioni di equilibrio e il progresso consiste nel fare un passo avanti avendo ben presente da dove si arriva.

In una società attraversata da tensioni e spinte contrapposte, dove trionfa il relativo dei singoli punti di osservazione e di interesse è invece importante sapere che ci sono diritti e doveri da rispettare, norme e principi da non infrangere, tutele per tutti, specie per i più deboli e indifesi.

Alla definizione delle regole risulta perciò determinante l’apporto dato dalla scelta dei valori che le sostengono, affinché siano comprensibili, eque, giuste, condivisibili e sostenibili.

Le regole stabilite da una dittatura violano i principi di libertà e democrazia, si tratta quindi di norme che più che suggerite sono imposte, più che accettate sono subite.

In una società fondata sull’odio razziale, sulla xenofobia, la regola della discriminazione nega il valore dell’uguaglianza: le norme si uniformano a consuetudini sbagliate e allora più che rispettate vanno combattute per essere cambiate.

Ma anche in un contesto dove i valori trovano solo formale ossequio e retorica ostentazione, dove il trionfalismo della parola nasconde invece insidie, ingiustizie e sofferenze viene messa in mostra solo la parte più teorica e superficiale dei riferimenti ideali.

I valori costituiscono la parte migliore della nostra tradizione culturale, l’espressione materializzata delle scelte morali di una società, il punto di approdo di una civiltà che possa definirsi tale: sono le radici che ci legano alla nostra storia affinché si faccia tesoro del passato per costruire un mondo migliore.

Solo se sono sostenute da valori condivisi ed eticamente ispirati le norme del vivere sociale ci aiutano a darci degli ordinamenti dove le regole custodiscono e proteggono la nostra libertà.

Attingendo a piene mani dalla tradizione riceviamo insegnamenti di vita quanto mai preziosi per il presente e il futuro.

Occorre avere i piedi ben piantati prima di spiccare il volo.

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Wed, 26 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Elogio della moderazione]]> Nella società dei localismi e della globalizzazione, attraversata da contrasti, sovrapposizioni di identità, difetto di motivazione partecipativa ma caratterizzata da soggettività radicate e polarizzazioni “forti”, spetterebbe soprattutto alla politica il ruolo del dialogo, della mediazione e della ricomposizione.

Il condizionale è d’obbligo visto che proprio la politica è invece molto spesso il luogo della differenziazione, delle diaspore e della inconciliabilità.

La stessa parcellizzazione interna del quadro politico, così come si è configurata nella lunga deriva di riposizionamento ideologico successiva alla fine della cosiddetta “prima Repubblica” (e ai suoi immaginifici derivati: seconda, terza e persino quarta…), esprime un’evidente difficoltà di rappresentazione e aggregazione del contesto sociale di cui pure è espressione.

Una sorta di riproposizione in chiave sociologica della contrapposizione tra paese legale e paese reale, anche se la vocazione autentica della politica è quella di stabilire le regole per il governo della società. C’è un quadro d’insieme caratterizzato da instabilità, disaffezione, debolezza sistemica.

Dove sono finite le ideologie che hanno attraversato il secolo scorso consegnando il declino dei partiti al sistema bipolare?

Certamente molta parte della loro ragion d’essere si è spenta, oltre la crisi del sistema, in una società complessa dove la differenziazione ideologica non è più la chiave d’accesso, di lettura e di spiegazione dei fenomeni sociali via via emergenti.

Nelle sue “aggiornate” sfumature di identità sempre più impercettibili e variegate, a volte indecifrabili, la partitocrazia – giubilata troppo in fretta con un processo sommario ma riemersa rinvigorita sotto mentite spoglie - è succeduta a se stessa senza riuscire a spiegare quali sono le ragioni “politiche” che possono far battere il cuore (mi si perdoni il nonsenso “fisiologico”) a destra o a sinistra. Il fenomeno dei partiti personali prende corpo insieme all’ipotesi di un ritorno al sistema elettorale proporzionale puro. Una verticalizzazione del potere che unita alla scelta dei candidati secondo criteri di fedeltà prona e supina configura un quadro persino sconcertante di democrazia ‘rappresentativa’.

Ci sono forze politiche che hanno giurato e scommesso tutto sul maggioritario e ora si convertono sulla via di Damasco, anzi di Roma, alla strenua difesa del proporzionale, pur di avere uno spicchio pur minimo di rappresentanza parlamentare.

Aspirazione che imbocca una via stretta e tortuosa dopo il taglio dei parlamentari.

Dopo la corsa alle differenziazioni estreme dovrebbe in teoria aprirsi uno scenario caratterizzato dal recupero dei valori dell’equilibrio, della concertazione, della mediazione e della moderazione.

C’è bisogno tuttavia di una concezione popolare, moderata e “mite” della politica, nel senso che deve corrispondere agli interessi di chi ha più bisogno e nel senso che deve entrare con moderazione nella nostra vita.

In via generale, occorre se mai ricalibrare la progettualità, gli indirizzi e le scelte sulla base delle attese e dei bisogni della gente, nell’ottica della politica come servizio e non della politica come mestiere. Anche questa prospettiva postula moderazione, mitezza, capacità di rappresentazione degli interessi della collettività senza cadere nelle derive autoreferenziali di una presenza politica totalizzante e pervasiva: proprio ciò che il Presidente Mattarella pone al centro dei suoi richiami.

Dar voce alla moderazione significa proporre le ragioni della pacatezza nei modi e del dialogo rispetto ai contenuti, del buon senso condiviso, della tolleranza e della solidarietà, della correttezza e della temperanza che è capacità di esprimere una passione politica nel rispetto delle opinioni altrui.

Non un pensiero debole, perché esercitato con mitezza, ma un pensiero forte perché ricco di idee e di valori, lontano dalla politica urlata e dei luoghi comuni.

Mi piace ricordare le parole che mi disse un grande democratico popolare come Mino Martinazzoli nel corso della sua intervista: “Il moderatismo sta alla moderazione come l’impotenza sta alla castità”. Per questo essere moderati non significa rinunciare ad avere idee chiare e forti, intuizione, lungimiranza.

Rendere credibile un progetto politico, avvicinare i contesti delle decisioni a quelli delle azioni, agire con onestà intellettuale, equilibrio, rettitudine.

Questo dovrebbe essere il vero fulcro aggregante e solidale, cui non mancano certo i riferimenti di senso e di valore nelle idee della nostra tradizione culturale.

Soprattutto restituire dignità alla politica, nell’interesse della politica e nell’interesse del Paese.

Perché una politica senza dignità non ha consenso ma una società senza dignità non ha futuro.

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Sat, 22 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Demagogia Fiscale]]> La riproposizione da parte di Matteo Salvini dell’usurato slogan della pace fiscale ho suscitato un coro di critiche non solo da parte delle opposizioni, ma anche da ogni commentatore che non voglia svendersi all’adulazione della maggioranza in carica. Il leader della Lega è un demagogo sperimentato e quindi intuisce temi che gli consentono di allargare il suo spazio: non tanto conquistando elettori, quanto consolidando una sua posizione all’interno del blocco della destra-centro.

Nessuno dei tre partiti che lo compongono è alieno dal predicare il mantra di uno stato oppressore che succhia il sangue del povero contribuente: si tratta di un argomento classico, specie nel nostro paese abituato storicamente a considerare lo stato come un potere esterno ed estraneo. Se era relativamente comprensibile in epoche assai lontane in cui le tasse servivano più che altro a sostenere spese che magari una parte dei cittadini non rilevava come incisive nella sua vita (difesa, amministrazione, comunicazioni, ecc.), lo dovrebbe essere molto meno oggi quando prevale la domanda di servizi gratuiti (sanità, istruzione, previdenza), anzi questa si allarga a dismisura con continue richieste di accollare alle casse dello Stato e dei poteri locali la soddisfazione delle più diverse esigenze (dal ristoro nelle calamità, ai bonus, al sostegno al tempo libero, ecc.).

Non crediamo sia difficile spiegare ai cittadini che se le casse dello stato sono in sofferenza bisognerà rinunciare a molti diritti sociali (sia quelli veri sia quelli discutibilmente pretesi come tali). Eppure la demagogia del meno tasse è difficile da contrastare. Bisogna chiedersi il perché.

La riflessione su questo punto è importante. Il primo dato da prendere in considerazione è che si è diffusa l’illusione che le casse dello stato non siano mai in sofferenza perché possono spendere a debito. Lo stanno facendo almeno da quarant’anni e nonostante proteste e messe in guardia dei tecnici e degli osservatori responsabili il cittadino comune non vede alcuna drammaticità in questo. Sbaglia, ovviamente, perché prima o poi il sistema salterà se non ci si mette mano, ma il tema è sospeso nel fatalismo delle cose futuribili che si spera sempre arrivino dopo di noi.

Il secondo dato è che il deficit della finanza pubblica è in parte coperto sia da un sistema di tassazione indiretta che non viene facilmente percepito (tipico il caso delle accise sulla benzina), sia da un sistema di riscossione coatta sul reddito dei dipendenti che è tassato “alla fonte” senza che sia possibile evadere. Tutte le riforme della demagogia fiscale si guardano bene dal prendere in considerazione questa platea di contribuenti “obbligati”, limitandosi a promettere ad essi piccoli vantaggi che non incidono veramente su quanto versano. L’attenzione si concentra sui contribuenti che non hanno prelievo alla fonte, i cosiddetti “autonomi” di varia tipologia. A questi si offrono continuamente rimodulazioni delle regole di prelievo (da qualche forma di flat tax ai concordati preventivi col fisco). Quel che è peggio, ci si aggiunge la promessa, e in più casi la realtà, di condoni quando essi non abbiano versato il dovuto.

Accantoniamo per un momento il tema dell’equità e del messaggio morale che questo modo di procedere manda ai cittadini nonostante sia un aspetto su cui non si dovrebbe transigere. Cerchiamo di capire le ragioni, per quanto perverse, che ispirano queste demagogie. Il primo aspetto è che continua a prevalere la tesi, non dimostrata, che l’evasione fiscale sia determinata dalla gravosità dell’imposizione: se si dovesse pagare meno, converrebbe a tutti pagare e tutti lo farebbero volentieri. Come dimostra anche solo l’esperienza non accade affatto così: chi è abituato a lavorare “in nero” continua a farlo se può anche quando le tasse sono ridotte in dimensioni ragionevoli. Molte professioni appetite perché portano un buon guadagno sono quelle le cui contribuzioni medie all’Agenzia delle Entrate sono pari o addirittura al di sotto di quelle dei lavoratori dipendenti di medio o basso livello.

Il secondo aspetto è che i demagoghi continuano a diffondere la leggenda di contribuenti che non hanno pagato il dovuto perché erano nell’impossibilità di farlo, sicché meriterebbero se non proprio una cancellazione del loro debito, una sua drastica riduzione. Nessuno può spiegare come questo possa accadere solo a chi ha un reddito autonomo, mentre è impossibile per chi ha un reddito tassato alla fonte. Il secondo se non ce la fa con quanto gli resta dopo aver subito il prelievo, come si dice tira la cinghia, il primo vive come sempre e non paga le tasse.

Una questione estremamente delicata come è la gestione del sistema fiscale non può essere lasciata nelle mani delle demagogie elettorali delle diverse forze politiche, soprattutto se si tiene conto che siamo ormai in presenza di un continuo ricorso alle urne sotto le più varie ragioni. Non si può consentire che si spacchi il paese accentuando il divario fra redditi da lavoro dipendente e redditi da lavoro autonomo, specie quando per i primi il mitico vantaggio del posto fisso a vita ormai non esiste se non in maniera molto limitata. Diffondere l’ideologia per cui ognuno può sentirsi uno “sfruttato”, risorsa che si può impiegare con retoriche tanto di destra quanto di sinistra, significa spingere per una radicalizzazione delle relazioni sociali che è pericolosa tanto in senso assoluto, quanto in senso relativo, perché nello scontro fra le varie categorie di sfruttati immaginari a finire stritolate saranno le fasce più deboli della popolazione: quelle componenti svantaggiate, per dirla tutta, che non trarranno nessun giovamento da politiche fiscali corporative, perché le tasse non le pagano o ne pagano pochissime avendo redditi inconsistenti, mentre non potranno più godere di una adeguata assistenza sociale e servizi connessi, perché la mano pubblica (statale, regionale o comunale che sia) non avrà le risorse per finanziarla, visto che quelle derivano proprio dalle entrate fiscali.

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Wed, 19 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Droga e armi alimentano la violenza giovanile]]> La cronaca è ormai dominata da episodi di violenza agìta da giovani e giovanissimi con l’uso di armi. Contemporaneamente si allarga la diffusione di ogni tipo di droga senza limiti di target di ceto o di età, dal consumo allo spaccio, come epifenomeno di un cancro sociale radicato.

Tutti i casi sono emblematici e la loro crescita è stata esponenziale e drammatica.

Inoltre il connubio armi-droga è tanto devastante quanto pervasivo, c’è un nesso di causa effetto sull’azione violenta ma anche un rapporto di interesse economico che unisce i due fenomeni: a diversi livelli di incidenza con il denaro si vende la vita e si compra la morte.

Quali strategie sono necessarie per arrestare questo coinvolgimento?

Dalla più grande democrazia occidentale ai Paesi delle guerre la risposta è una sola: investire nella scuola, nell’istruzione, nell’educazione. Perseguire le vie della pace, della tolleranza, della legalità. Questo implica una radicale e profonda riflessione sulla modernizzazione dei sistemi scolastici, dagli investimenti sulla ricerca educativa, alle risorse umane e alle dotazioni organiche e strumentali di cui fornire gli istituti scolastici.

L’esponenziale disponibilità di armi usate dai giovani è alimentata da interessi commerciali, da consuetudini importate da altri Paesi ma ci sono tuttavia diversi indicatori che confermano una deriva di sovraesposizione verso il pericolo di comportamenti individuali ma ‘orientanti’ anche nel gruppo, indirizzati alla violenza o da essa condizionati. I social ne sono diventati l’archivio e il megafono.

Pistole giocattolo, giochi militari, coltelli, abbigliamenti bellici, oggetti di uso offensivo costituiscono materia di aspirazioni prevalenti, fin dalla più tenera età.

L’influenza dei programmi televisivi improntati alla violenza come prassi abituale e trama di comportamenti ricorrenti è pressante, pervasiva, pedagogicamente negativa: l’utenza di questi programmi – dai cartoni animati ai talk-show ai film d’azione, di guerra, di narrazione di profili criminali spazia per età e genere, dai bambini e le bambine della scuola dell’infanzia agli adolescenti delle scuole secondarie di secondo grado.

L’introduzione delle fasce protette non è deterrente sufficientemente dissuasivo poiché il leit-motiv è sempre quello della violenza come prevalente modello antropologico-comportamentale: un modello idealizzato e reso vincente, nella ostentazione della forza come strumento di emergenza sociale, di successo tra i pari, di risoluzione di problemi esistenziali aggravati da stati confusivi o da alterazioni che sfociano in una violenza distruttiva.

La ricaduta di questi modelli, specialmente attraverso i social è devastante: nelle relazioni affettive che esprimono una desolante anaffettività, nella guida su strada, nella ribellione verso l’autorità scolastica, nelle pulsioni dovute a stati di allucinazione: il connubio armi-droga e l’utilizzo di mezzi tecnologici o strumenti informatici esprimono il venir meno della capacità di dominio di sé.

Afferrare un coltello e colpire la vittima ‘fino a non sentirla più respirare’ (è l’agghiacciante confessione del delitto di Primavalle a Roma) o massacrarla di calci e pugni fino alla morte.

Si ricorre all’uso della forza, senza pregiudizialmente considerare azioni che passano dalle relazioni pacifiche e positive, dall’interlocuzione, al dialogo: la droga porta allo sballo estremo, offusca la mente, induce uno stato di alterità incontrollabile.

Una immedesimazione negativa che genera peraltro solitudini siderali tra le giovani generazioni.

Una dittatura può imporre il deterrente di una ‘pedagogia sociale ’coercitiva, una democrazia non lo può fare.

Non è difficile immaginare l’influenza degli interessi commerciali e industriali che sottende e ispira questi filoni e queste trame narrative, dove il prossimo è sempre antagonista, nemico da battere, fino alla sua eliminazione fisica, con una reiterazione ed una disinvoltura veramente raccapriccianti.

Per non parlare delle insidie del web e di tutta quella cultura virtuale, libera e disinvolta (nei temi e nei linguaggi) che vi circola e che coinvolge i minori con una crescita esponenziale e drammatica.

Non c’è più tempo da perdere: occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, bisogna che qualcuno abbia il coraggio di spezzare queste spirali perverse, ricominciando a parlare di senso del dovere, di rispetto, di dignità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita e formazione individuale, ripristinando il concetto del “limite invalicabile”.

Per contrastare la violenza minorile bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività. L'esperienza giudiziaria insegna che gran parte dei minori che esplicitano comportamenti aggressivi assistono direttamente a violenze in famiglia.

Questo è un compito che deve passare attraverso la scuola come principale “agenzia” di educazione alla pace, a cominciare dai rapporti ‘con’ e ‘tra’ gli alunni e dalle relazioni con le famiglie.

Una scuola che sappia risolutamente indicare modelli educativi che portino al bene comune, al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla legalità dovrebbe impostare – accanto al compito della trasmissione dei saperi e alla sollecitazione verso la cultura come fattore generativo di crescita intellettiva, cognitiva e comportamentale – una solida educazione sentimentale. È necessario far leva sul controllo e sul corretto indirizzo dell’emotività, sull’uso del pensiero critico, sull’abitudine alla riflessione come premessa di ogni azione o comportamento, specie in ambito relazionale. Occorre per questo una stretta collaborazione e una solidale condivisione di intenti tra famiglia e scuola.

Istruzione e poi ancora istruzione, educazione, scuola pubblica come investimento a favore delle giovani generazioni, garanzia del diritto allo studio, uguaglianza delle opportunità di partenza e compensazione delle difficoltà in itinere, percorsi formativi individualizzati per favorire la massimizzazione delle potenzialità di ciascuno, affinché vengano rimosse le cause di rischio educativo e di disagio scolastico. Crescere in cultura per un Paese significa sviluppare la potenzialità insite in ciascun individuo, non lasciare che nessuno si perda per strada o ne imbocchi una sbagliata, mettere la persona al centro dei propri interessi, emancipare i valori del confronto, della condivisione e della solidarietà. Queste sono le armi pacifiche con cui combattere e auspicabilmente sconfiggere i mali dell’emarginazione, della solitudine, della povertà materiale e spirituale, della violenza che affliggono gli adolescenti del nostro tempo, siano essi vittime o purtroppo – sempre più spesso - carnefici.

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Sat, 15 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Giustizia: un nodo da sciogliere]]> Non dovrebbe essere vittima di una coazione a ripetere lo scontro del sistema giudiziario con il mondo politico: come hanno autorevolmente detto alcuni commentatori responsabili non giova a nessuna delle due parti e nuoce gravemente al paese. Tangentopoli non ha migliorato il nostro sistema, anzi lo ha inutilmente avvelenato. Andare oltre quella fase sarebbe un bene per tutti.

Il punto centrale è che bisogna superare una reciproca delegittimazione. Da un lato il sistema giudiziario è pesantemente gravato dall’accusa di essere in mano ad una corporazione che cerca di salvare le sue abitudini di lavoro e che cede non di rado alla volontà di guadagnare spazi usando a sproposito i suoi poteri inquisitori. Dal lato opposto il sistema politico è presentato come profondamente corrotto, una casta rinserrata nei propri fortilizi che vorrebbe porsi al di riparo dalle incursioni dei magistrati che puntano a costituirsi arbitrariamente come un tribunale di salute pubblica.

Non è certo difficile trovare casi che portino l’acqua al mulino tanto dell’una quanto dell’altra parte. Che però questo riguardi il funzionamento dell’intero sistema giudiziario e dell’intero sistema politico è sostanzialmente falso. Come sempre nell’uno e nell’altro campo tendono ad occupare gli spazi della comunicazione pubblica coloro che approfittano degli opposti stereotipi per consolidare il rispettivo potere.

Un sistema democratico deve fare ogni sforzo per uscire da questo impasse. Gli schemi semplicistici non risolvono nessuna questione: dire che il parlamento fa le leggi e i giudici le applicano è abbastanza astratto, così come il sostenere che l’indipendenza della magistratura significhi che essa è un potere separato, sovrano rispetto agli altri. La realtà è ben più complicata.

Il primo nodo che andrebbe sciolto è quello che fissa i limiti dell’azione inquisitoriale in un sistema democratico. Non è che la magistratura possa usare qualsiasi metodo per ricercare una verità giudiziale nel contrasto ai reati: si mettono sotto esame cittadini e più in generale persone che vanno rispettate nei loro diritti fondamentali. Su questo terreno vanno superate le pigrizie che derivano dall’abitudine di poter utilizzare senza limiti strumenti delicati. È il caso delle intercettazioni che violando il diritto costituzionale alla libertà di comunicazione possono essere consentite solo in casi limitati. Non è vero che senza di esse non si possono più perseguire i reati: è un’argomentazione che ricorda, in tempi fortunatamente molto lontani, la convinzione che senza la tortura non si sarebbero ottenute confessioni. La storia ha dimostrato che non è così.

Altrettanto si dica per fattispecie di reato che sono configurate in maniera così generica da rivelare che hanno radici più in convincimenti a priori che in analisi di comportamenti effettivamente delittuosi. Il caso dell’abuso di potere è tipico dell’idea che il detentore di un potere pubblico sia portato ad usarlo male. Peraltro questo concetto non si applica a giudici e pubblici ministeri che anche quando è conclamato che hanno usato disinvoltamente il loro potere non vengono quasi mai sanzionati.

Per converso per superare i pregiudizi verso la classe politica accusata di ricercare sempre l’impunità, sarebbe necessario che essa mettesse in campo strumenti propri per sanzionare quei membri che deviano da un corretto impiego delle loro posizioni e dei loro poteri. Ciò dovrebbe essere fatto prima e fuori della sfera della giustizia penale. Quando si riscontra la presenza della denuncia di un comportamento che si discosta dai doveri di chi ha accettato di servire in politica la comunità (nazionale o locale che sia) ci deve essere modo di esaminare subito quel caso e di eventualmente sanzionarlo sul piano appunto politico-morale.

Ci rendiamo conto che il punto è molto delicato, perché i partiti temono le vendette reciproche, perché le sanzioni su quel piano sono molto più dure di quelle della magistratura, perché consentono meno di ricorrere a garbugli procedurali e interpretativi. Il fatto è che se si riuscisse ad agire su questo piano da un lato si potrebbero avere tempi molto più rapidi nella emissione dei giudizi e dall’altro si avrebbe un effetto ben più deterrente per chi ha facilità a scivolare nelle commistioni fra politica ed affari, fra politica e interessi personali e quant’altro. Non si tratta certo di costruire un “foro privilegiato” per chi fa politica: nel nostro sistema costituzionale, così come in tutti quelli democratici nessuno può essere sottratto al suo giudice naturale stabilito per legge. Ma non si tratterebbe di anticipare un giudizio penale, ma di esercitare un controllo, con tutte le doverose garanzie, perché “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” corrispondano al “dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54 della Costituzione).

Individuare gli strumenti per garantire una giustizia che sia funzione della coesione comunitaria della nazione e una sfera politica che non si consideri rappresentante assoluta del proprio potere invece che di quello della sfera pubblica governato dal consenso dei cittadini deve essere un obiettivo primario per chiudere definitivamente con una stagione che, per tante e complesse ragioni, ha indebolito la tenuta di legittimità dell’intera sfera pubblica.

È un percorso complesso che richiede molto più che riforme e difese corporative. Richiede cultura politica, materia che in natura non si trova esattamente in abbondanza, ma che va ricostruita con determinazione e pazienza.

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Wed, 12 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Insidie metropolitane]]> Gli agglomerati urbani sono giganteschi contenitori di polveri sottili, reticoli senza identità, luoghi di addensamento e solitudine.

Ma sono anche affascinanti barnum di contaminazioni etniche, crocevia di incontri cosmopoliti, multiproprietà dei sentimenti condivisi, contesti di vita vera.

Qui uno spazio, pur minimo, quasi rubato, è pur sempre appannaggio di chi arriva primo: uno può sostare e osservare, passeggiare e indugiare, il palcoscenico è grande, ci sono tante comparse e non si paga il biglietto.

Nel suo genere ogni città sa ospitare democraticamente.

Le città e le metropoli assomigliano a enormi mantici che ogni giorno aspirano e soffiano i mille indistinti rivoli di varia e colorata umanità.

Uno esce al mattino ed è subito inghiottito da questi flussi che ondeggiano come serpenti ubriachi.

In città non ci si muove mai da soli.

È come se ci si sentisse trasportati da un invisibile tappeto volante con infinite code svolazzanti: tutti al bar, tutti, in autobus, tutti in metropolitana, tutti in coda.

Finché non si arriva alla meta – il luogo di lavoro, l’ambulatorio, la scuola, il negozio – si è come mescolati in un impasto di gambe che corrono, di mani che gesticolano, di voci che si coprono, di rumori che si sovrastano.

Senza contare i pensieri, che non si leggono ma che pesano più delle persone che li portano con sè.

A volte in questo traballante caravanserraglio si prova la sensazione di sentirsi in compagnia, si osservano i volti, si scrutano gli stati d’animo, si mischiano le ansie, si percepiscono i pericoli.

Le città non sono mai mute, ti parlano con il brusio del vociferare senza trama, con il chiacchiericcio colto al volo, con le frasi lasciate a metà, con le storie rubate a chi ti sta accanto, con i saluti furtivi, con le stizzite imprecazioni di chi vuole segnare i confini della propria presenza.

Le parole metropolitane sono curiose, gettate lì per caso, raccolte ora con indifferenza ora con malcelata attenzione: raccontano la vita, la quotidianità, le ricchezze e le povertà, l’ieri, l’oggi e il domani, le speranze e la rassegnazione.

Le voci della città corrono lungo i marciapiedi e si alzano fino ai trenta piani dei similgrattacieli, salgono e scendono i gradini del metrò, entrano ed escono dai portoni che inghiottiscono i passanti distratti e frettolosi, come imbuti grigi e uguali.

Sono distratte ma insidiose, rapide e insinuanti, composite e disvelatrici.

Sono motivo di intrattenimento e a volte di fastidio, ora si ascoltano con sufficienza e disinvoltura, ora si eludono con irritazione, ora si cacciano in malo modo nei rifiuti della giornata.

Riaffiorano - insieme ai gesti e alle azioni, ai dettagli al momento trascurati, ai rumori del proscenio - nel viaggio di ritorno, nelle occasioni di stacco, al rientro a casa.

Abbiamo atteso tutto il giorno il momento del commiato dalla città, ci mancavano i nostri rituali nascosti, le nostre intimità, i cantucci domestici.

Ripartiremo domattina per affrontare ancora le insidie urbane.

Ogni sera è davvero speciale a casa nostra: le pulizie arretrate, la bolletta del telefono, la lettera dell’avvocato, la convocazione condominiale, i voti dei figli, le analisi da prenotare, il cane da portare dal veterinario.

Sfogliamo distrattamente i depliant per le prossime vacanze, siamo in genere troppo stanchi per tracciare bilanci e poi c’è poco da stare allegri: il carovita, le bollette, le violenze, i fatti di cronaca, la pandemia, la guerra, la politica, l’età della pensione.

La città è lontana, dimenticata.

Meno male che c’è la televisione: l’annunciatrice ha appena detto che è in programma “una serata tutta all’insegna del crimine”, era ora, che bellezza! Violenze di ogni genere, omicidi, armi a go-go.

Finalmente un po’ di relax.

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Sat, 08 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Centrosinistra: ripartire dai territori]]> I risultati delle ultime elezioni amministrative e regionali segnano una difficoltà del centrosinistra nel guadagnare posizioni. Per essere più precisi, nei capoluoghi di provincia la partita con la destra è finita male, tranne che in alcuni casi (come Vicenza) dove il candidato si connotava come civico e aperto alla società civile. Eppure, l'analisi della sconfitta fatta dal Pd - Molise compreso, dove l'abbraccio col M5s si è dimostrato come sempre letale - non è esaustiva. Sembra che, in fin dei conti, tutte le energie e le prospettive siano volte verso la "battaglia finale" delle europee del 2024, quando si voterà con la proporzionale. È come andare a giocare alla roulette e puntare tutta la posta su un singolo numero. Bisognerebbe invece considerare che i capoluoghi di provincia, le grandi città (anche le piccole e medie che non sono state ancora perse) e le poche regioni rimaste (Toscana, Emilia-Romagna, Campania e Puglia: al prossimo turno il Pd è certo di riconquistarle?) sono l'unico patrimonio di un partito in crisi di identità e di risultati. Quando il centrosinistra (anche prima della nascita del Pd) ha dovuto affrontare lunghe "traversate nel deserto", durante i governi di centrodestra guidati da Berlusconi, c'era una forte presenza sul territorio. Il controllo della stragrande maggioranza dei capoluoghi e della maggioranza delle regioni (o almeno della metà) dava all'alleanza sia il radicamento necessario, sia la spinta a selezionare classe dirigente che potesse essere protagonista a livello nazionale, sia l'importanza di mantenere un dialogo con gli elettori (in un rapporto nel quale "il partito dei sindaci" - che pure non piaceva a D'Alema - era però fondamentale per collegare centro e periferia). Quando affrontava le campagne elettorali nazionali il centrosinistra non era mai "solo", ma aveva una robusta retrovia di amministrazioni comunali, provinciali e regionali: una classe dirigente di "riserva" e un rapporto capillare con gli elettori. Tutto questo si è perso gradualmente, ma più rapidamente dopo il 2014, quando si è pensato che fossero soltanto le fortune del capo a produrre quelle del partito. Se vogliamo, non fu così solo con Renzi, ma anche un po' adesso: la Schlein è stata eletta con una funzione "salvifica" dai partecipanti alle primarie (smentendo il voto di chi nel partito si impegna tutti i giorni per tenere vivo il contatto con le persone, cioè gli iscritti). Frattanto, il retroterra si assottiglia: non basta governare Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna per pensare di ripartire dai territori. L'esito delle ultime comunali e regionali può ripetersi, moltiplicarsi, desertificando ciò che ha dato spesso al centrosinistra e al Pd la spinta per ripartire sul piano nazionale. Nel 2005, l'anno prima delle elezioni che diedero l'ultima delle due vittorie a Prodi, le regionali regalarono al centrosinistra il controllo di tutte le regioni a statuto ordinario tranne due (Lombardia e Veneto). Sul piano dei voti di lista, si superò con l'Unione il 50%, che poi divenne poco più del 49% alle politiche (record assoluto). Nel 2013, invece, a livello nazionale centrodestra e centrosinistra finirono quasi pari alle politiche, entrambi sotto il 30%. Il centrodestra ebbe le sue difficoltà, ma già nel 2019 aveva recuperato i voti persi verso il M5s; il centrosinistra ha avuto grandi exploit (2014, 2015) ma i voti del 2008 (non parliamo di quelli del 2006) non li ha più ripresi. Il centrodestra non ha mai potuto contare molto sul territorio (tranne i casi importantissimi del Veneto e della Lombardia, vere roccaforti inespugnabili e granai di consensi) quindi ha puntato sull'unità della coalizione e sulla duttilità degli elettori (i quali hanno sopportato che la Lega facesse un governo col M5s senza FI e FdI, poi che Lega e FI ne facessero uno con Draghi senza FdI). Per contro, il centrosinistra ha scelto la via di un leaderismo non suo, ha sottovalutato l'importanza della presenza locale (proprio mentre tanti amministratori davano prova di buon governo e si impegnavano a restare in sintonia con gli elettori) e non ha recuperato voti dai Cinquestelle (forse perché il modo migliore è competere con loro, non odiarli e neppure blandirli, come si è fatto errando nei due casi estremi del 2014 e di oggi). Se oggi il centrosinistra e in particolare il Pd vogliono avere una speranza, consegnino lo scettro ai tanti amministratori locali che sanno come si vince e come si dialoga col territorio (e che, soprattutto, sono a contatto con i veri problemi delle persone). Ricominciare dal basso, non dal partito dei sindaci ma da una "costituente civica per il centrosinistra" (centro e sinistra, non solo sinistra) può essere la via per riprendere il cammino e guardare con fiducia al futuro.

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Wed, 05 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Due destre e mezzo]]> Come hanno già detto tutti, e noi con loro, le elezioni europee costituiscono una prova piuttosto impegnativa per le forze politiche: non solo per le variegate opposizioni di sinistra che si vedranno fotografate nel loro consenso (anche se non quello vero per le competizioni italiane, ma quello più o meno di opinione), ma anche per la coalizione di destra-centro che si rivelerà meno solida di quanto vuole apparire.

I temi unificanti nelle contese elettorali sono pur sempre la conquista di posizioni di potere. Nel caso delle urne europee, stante il peso limitato che ha quel parlamento, il più si risolve, almeno in prima battuta, nella designazione del presidente della Commissione europea. Da come si chiuderà quella partita dipendono poi in piccola parte gli equilibri nell’intera commissione (ma in questo caso i singoli membri vengono principalmente designati dagli stati, semmai c’è qualche spazio per negoziare su vicepresidenti e altre cariche), ma soprattutto dipenderà la presidenza dell’europarlamento. Non sono posizioni di scarso significato e questo spiega i calcoli e le tattiche che si stanno mettendo in campo anche in Italia.

Ridotta in termini semplici la questione è se la precedente maggioranza che faceva perno sull’accordo PPE+PSE sia riproponibile dopo i risultati delle urne del giugno 2024. Nell’elezione di Ursula von der Leyen (del PPE) già si era dovuti ricorrere ad una maggioranza più ampia includendo qualche frangia tipo M5S, per cui si era favoleggiato su una “maggioranza Ursula” anche per il nostro paese. In verità non ci sembra che poi quella maggioranza abbia prodotto gran che, salvo l’accordo di alternanza alla presidenza del parlamento, prima Sassoli (PSE), poi Metsola (PPE) nonché qualche frattaglia per i partiti minori.

Oggi si sta cercando di presentare come possibile un futuro deciso cambio di quadro politico, in quanto il gruppo dei socialisti sarebbe dato in calo più o meno consistente, i popolari sono accreditati al massimo di una certa tenuta e dunque potrebbero optare per un accordo col gruppo dei conservatori. Si tratta di un calcolo abbastanza azzardato, visto che per la convalida del presidente della Commissione occorre la maggioranza assoluta (metà più uno dei membri del parlamento) e ben pochi pensano che possano raggiungerla da soli PPE + Conservatori. Semmai occorrerà mettere insieme anche il gruppo dei liberali, ma forse anche questo può non essere sufficiente e allora magari si potrebbero ripescare un po’ di socialisti.

Come si riverbera questa faccenda, abbastanza da alchimisti medievali più che da politici, sulla politica di casa nostra? La questione riguarda il ruolo che potrà giocare Giorgia Meloni come riconfermata presidente del gruppo dei conservatori europei. Per la attuale coalizione di governo c’è il problema che FI fa parte del PPE, ma soprattutto che la Lega siede in un altro gruppo, Identità e Democrazia, assieme al partito della Le Pen e ai tedeschi di AfD: detto in buona sostanza un gruppo della destra molto demagogica e assai poco democratica. 

Una adesione dei conservatori alla nuova maggioranza che reggerà la UE aumenterebbe il peso della Meloni e di FdI, creerebbe qualche piccolo spazio per FI che potrebbe presentarsi come la forza che ha aiutato l’ingresso di FdI nel salotto buono (Tajani ha una buona posizione nel PPE) e lascerebbe Salvini in una posizione del tutto marginale. Questo, è banale dirlo, non aiuterebbe le fortune della Lega che già non riesce a risollevarsi dalla crisi in cui è precipitata per le brillanti trovate del suo cosiddetto “Capitano”.

Ecco allora che il leader leghista prova a giocare d’anticipo e dichiara che la destra italiana deve essere compatta nel suo gioco europeo rifiutando a priori qualsiasi accordo coi socialisti. Ciò significherebbe in pratica rendere impossibile una crescita di ruolo della Meloni nel mondo UE, perché da un lato è difficile immaginare una maggioranza PPE-Conservatori senza qualche accordo con i socialisti, e dall’altro lo è pensare che il PPE e i suoi alleati possano accogliere nella compagine la Lega salviniana (neppure, crediamo, se questa abbandonasse il rapporto con Le Pen e soci, cosa che del resto il leader non vuol fare e infatti festeggia a Roma l’amicizia con lei).

Non si tratta però solo di una questione di tattiche nel parlamento di Bruxelles, quanto piuttosto del contrasto alla svolta in senso “istituzionale” (moderata non ci sembra il termine adatto) che Meloni di fatto è portata ad imprimere al suo partito consolidato al governo. Il successo di questa svolta ha già tolto un bel po’ di voti alla Lega e altri ne toglierà se la strategia della attuale premier avrà successo. Ecco la ragione per cui Salvini riprende ad agitare la bandierina dell’identità di destra, evocando il rigetto di accordi coi socialisti e rilanciando un po’ della solita demagogia leghista (immigrati e quant’altro).

In tutto questo FI, ormai costretta dopo la scomparsa di Berlusconi a fare i conti con la sua natura di medio partito, deve decidersi se continuare a fare la “mezza destra” in supporto alla svolta della Meloni o ritrovare una dimensione “centrista” che però non sa in cosa far consistere.

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Wed, 05 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Le challenge estreme, una sfida assurda tra la vita e la morte]]> Se Ulisse fosse rimasto accanto al telaio di Penelope anziché partire alla ricerca di itinerari mitologici l’Odissea non sarebbe mai stata scritta e Omero si sarebbe soffermato a descrivere l’intimità della quiete domestica anziché il fascino dell’avventura e l’angoscia dell’attesa.

Le Odissee della post-modernità si caricano di pulsioni narcisistiche e di brividi dell’azzardo, immersi come siamo in una confusione indecifrabile tra virtuale e reale, le dimensioni umane nascoste soccombono di fronte al trionfalismo degli effetti speciali. Stockton Rush, A.D. di OceanGate il gestore di Titan aveva minimizzato i rischi dell’immersione: “La sicurezza è un puro spreco. Se vuoi rimanere al sicuro non ti devi alzare da letto, non devi andare in auto, non devi fare niente”: abbiamo visto in questi giorni come è andata a finire negli abissi dell’Atlantico l’esplorazione dei resti del Titanic. Da quando tecnologia e dotazione di mezzi informatici ci consentono di fare azioni un tempo impensabili siamo usciti dalle categorie fisiche spazio-temporali e da quelle razionali del controllo di sé e del dominio del mondo.

Non si può fermare il vento con le mani, cosi come non si può arrestare la corsa verso l’ignoto imperscrutabile dell’I.A., del metaverso, del web e di tutto ciò che crea situazioni imponderabili, incontrollabili, imprevedibili e irrazionali che superano la gestibile sostenibilità dell’insieme.

La cartina di tornasole per leggere i fatti e le loro conseguenze è la crescita esponenziale della violenza che – secondo Vittorino Andreoli- finisce spesso per diventare sfuggente e inarrestabile distruzione. Influencer e creator sarebbero le nuove professioni che risolvono il problema dei giovani NEET: vendono il nulla e raccolgono milioni di follower coinvolgendoli con un effetto domino non solo come spettatori ma come attori dell’azzardo, la vita e la morte si giocano sul rimbalzo di una moneta, testa o croce. Sono i profeti, coloro che invitano a compiere determinate azioni. Ma chi li chiama in TV a spiegare le loro idiozie si rende complice della loro popolarità e dell’effetto emulazione che si diffonde: sono questi i nuovi eroi, gli Ulisse del terzo millennio? Direi decisamente il contrario: in genere si tratta di ragazzi viziati da genitori più immaturi di loro, che non hanno mai avuto il coraggio di dire un secco “no”, di educarli al senso della misura.

In genere soggetti privi di cultura ma depositari di luoghi comuni e suggestioni emotive irrazionali.

Si sale su un tetto e si salta giù, ci si sdraia sui binari mentre passa un treno, ci si ubriaca o ci si droga fino allo sfinimento spesso in modo irreversibile perché si ingoia di tutto, per due gusci di noccioline o una macchia caduta su una scarpa si ammazza di botte un uomo, senza contare la caccia grossa ai clochard massacrati a calci e pugni, si spara in classe all’insegnante e ci si merita un bel nove in condotta, se invece la si pugnala e si è sospesi e bocciati monta l’indignazione parentale, con il challenge automobilistico si pone fine alla vita di un bambino – ma si tratta solo di una bravata, tutto poi si risolve- mentre su Tik Tok prende quota tra le ragazze il “sex roulette” che consiste nell’avere rapporti non protetti dal rischio dell’HIV/Aids: perde chi resta incinta.

Ma sarebbe ingiusto farne solo una questione generazionale: i delitti più efferati li compiono gli adulti, in genere si tratta di femminicidi, vere e proprie esecuzioni crudeli e premeditate, una vicenda rimuove mentalmente l’altra mentre si ripete il rituale di una magistratura spesso incerta sulle misure cautelari e la gente comune tacita la coscienza con le fiaccolate e le marce della pace. Come nel caso atroce di mamma Giulia e del piccolo Thiago che portava in grembo.

Negli USA nel giro di due giorni rispettivamente un bambino di due anni nell’Ohio ha sparato uccidendo la mamma incinta mentre nel Kentucky un bimbo di 7 anni ha fatto altrettanto con il fratellino di 5. Si tratta dell’ennesimo episodio: piccole creature innocenti che maneggiano armi incustodite e lasciate cariche in giro per la casa da genitori incoscienti. D’altra parte ricordo che da quelle parti a Natale i minori, in media a 7/10 anni, ricevono in dono “il primo fucile”. La diffusione delle armi è ormai inarrestabile ovunque, per latitudine e target di età e una domanda sorge spontanea: in via preventiva cosa deve fare la politica? La gente confonde il MES con il MEF, non ha molta fiducia nel PNRR ma è strabiliata, stordita, annichilita dal montare dell’odio sociale e del rancore.

I social stanno diventando la fogna virtuale che trasforma la vita reale in una gigantesca e confusa finzione.  Con un anno come questo a ottobre il CENSIS avrà il suo bel daffare per tracciare un quadro sociale che comprenda la molteplicità dei fenomeni delittuosi, nella macroanalisi di cui è maestro sarà difficile ricomporre e spiegare le iperboliche allucinazioni a larga diffusione.  Intanto, non c’è solo la ritrazione silenziosa dei cittadini dimenticati dalla Repubblica: c’è gente disperata per la povertà, la solitudine, l’indifferenza, l’ignavia di chi ci sta accanto. Tutto si decide in un attimo: farla finita risolve tutto, basta un ponte, un cavalcavia, una manciata di pastiglie. Nel mondo dei miraggi e degli effetti speciali, dominato dal dio-denaro e dal successo, si diffonde la psicosi del fallimento esistenziale. Eppure gira l’icona della famiglia felice intorno al desco o nei momenti di svago, sull’auto nuova, rigorosamente elettrica. Siamo ecologisti ma infelici, ci tagliano il cuneo fiscale ma non ce ne accorgiamo, il dissesto idrogeologico distrugge il lavoro di generazioni ma noi puntiamo sulla digitalizzazione senza accorgerci che abbiamo perso l’antico abc del vivere insieme.

Anche a scuola si commette il grave errore di pensare di educare i giovani all’uso degli algoritmi, ai test che non valutano, ai tablet che sostituiscono i libri, ai neologismi criptici che prendono il posto delle parole. Gli alunni di oggi sono candidati a diventare creator e influencer per alimentare nuove challenge. Ma a nessuno viene in mente che bisogna ripartire dai fondamentali?

Urge recuperare il culto della bellezza, la gioia di stare insieme, l’immersione nel gusto di imparare, la reciproca educazione sentimentale.

Per adesso siamo ancora persone, non avatar.

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Sat, 01 Jul 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Tempeste e stabilizzazioni]]> Siamo di fronte ad un quadro molto mosso sia sul piano internazionale che su quello interno. Sul primo fronte l’attenzione è concentrata su quanto sta accadendo in Russia, ma anche in Europa non mancano movimenti (successo dei conservatori in Grecia, qualche impennata locale dell’estrema destra in Germania). Sul secondo fronte c’è un quadro più che mosso nella maggioranza al governo (tensioni Salvini-Meloni, incertezze sulle decisioni da prendere), mentre nell’opposizione di sinistra frana una volta di più l’alleanza PD-M5S.

Sono tutti fattori che non andrebbero sottovalutati. Il contesto internazionale ha ricadute inevitabili sugli equilibri geopolitici e la difficoltà di capire cosa stia accadendo a Mosca complica le cose. Si intuisce che potrebbe esserci in atto uno scontro di Palazzo all’interno del sistema oligarchico del Cremlino, ma per ora i contorni di quanto sta accadendo non sono chiari. Le lotte intestine hanno tempi in genere non brevi e nelle dittature (tale è il sistema russo) sono giochi al massacro. Naturalmente il fatto che ciò avvenga in un paese che ha 7mila testate nucleari non consente di liquidare il tutto come un loro affare interno che non ci riguarda.

Anche la situazione europea va osservata con attenzione. Da un lato perché è un versante della questione ucraina e dunque della gestione della crisi russa, dall’altro perché sconta sempre più il nervosismo per il quadro futuro degli equilibri nella gestione della UE, con la difficoltà di ridurre tutto al duplice riferimento dell’asse franco-tedesco e dell’alleanza fra popolari e socialisti (che era stata un po’ l’altra faccia di quell’asse).

L’Italia non si trova in condizioni tranquille a gestire questo contesto. Nella “grande politica internazionale” non ha figure capaci di sopperire con il proprio carisma la debolezza di un sistema come il nostro che ha problemi di fragilità nei bilanci e di difficile gestione dei meccanismi dirigenti. Nella politica europea è indebolita dalla assurda ostinazione a non voler ratificare il MES, una battaglia di bandierine che serve solo a fare un po’ di propaganda.

Si potrebbe dire che però il nostro paese ha trovato una sua stabilizzazione politica con un consenso alla destra-centro che le opposizioni non riescono a scalfire. Lo dimostrano anche le recenti elezioni in Molise dove il cosiddetto campo-largo delle opposizioni di sinistra ha registrato l’ennesimo insuccesso. Non è prendendo limonate e caffè insieme, né correndo a marciare in tutti i pride e le manifestazioni di piazza che si recupera il consenso perduto. I vari grilletti parlanti che girano per i talk show a ripetere che la destra-centro governa col voto di un elettore su quattro si raccontano la favola di un astensionismo che è fatto di gente che sogna solo di tornare a votare la sinistra dura e pura. Ma è una favola della buona notte, a cui segue immancabilmente un risveglio amaro.

Il fatto è che le due componenti della sinistra non vogliono accettare che il mondo è cambiato, che sono finiti sia gli entusiasmi per la politica del “vaffa” sia quelli per le intemerate degli utopismi dell’individualismo irresponsabile. Quella roba può ancora fare folclore, ma a quel livello rimane. Ci sarebbe bisogno di mettere in campo proposte di soluzione per i molti problemi che affliggono la nostra realtà quotidiana: proposte realizzabili, che pur se non possono cancellare di un colpo i disastri accumulati in vari decenni, possono avviare miglioramenti anche significativi.

Certo occorrerebbe il coraggio di sporcarsi le mani. Proviamo a dare un esempio banale. È vergognoso come il governo sta gestendo l’emergenza post-alluvione: è in ritardo enorme nel nominare il commissario governativo per le stupidissime impuntature di Salvini (e di un po’ di personaggi di FdI) ed ha lasciato la gestione di questa fase intermedia al ministro Musumeci che si è dimostrato sostanzialmente inetto. Cosa fa l’opposizione? Si bea nel denunciare lo scandalo, insiste sulla nomina a commissario del governatore Bonaccini pur sapendo che non l’otterrà. Se fosse capace sfiderebbe invece il governo nel fare lei dei nomi di personalità di alto livello e non ascrivibili ad alcuna forza politica e accettabili dalla maggioranza: metterebbe nell’imbarazzo le componenti realiste e capaci dell’esecutivo e si co-intesterebbe una soluzione di buon senso guadagnandoci in prestigio presso l’opinione pubblica.

Così si fa politica, così si crea alternativa e si spostano voti. Ma per farlo occorrerebbero in politica classi dirigenti formate all’azione pubblica e non alle sceneggiate sui media e alla rincorsa all’applauso dei vari fan-club che abbondano in questo paese. Naturalmente il discorso vale anche per la destra centro che però gode del vantaggio di non doversi confrontare con una opposizione in grado di metterla alle strette: fin che questa fa demagogia, la destra non è corto di contro-demagogia da opporle.

Qui dobbiamo però tornare al discorso iniziale. I tempi sono troppo difficili per consentire che la politica si faccia sventolando bandierine per l’elettorato, mentre i dirigenti negoziano più o meno sottobanco (anzi a volte senza neppure preoccuparsi di nasconderlo) distribuzioni senza regole di posti agli amici e sprezzo per le regole del sistema giuridico (la giustificazione che questo è non di rado mal gestito e piegato ad interessi di parte è una scusa per infrangerlo nei molti casi in cui ciò non avviene). Per ora c’è una fuga nell’astensione dalla partecipazione elettorale e una resistenza delle persone migliori a mettersi a disposizione di un servizio alla collettività.

Ma non durerà ancora a lungo e quando questo incantesimo si romperà non vivranno un passaggio felice né la destra, né la sinistra e, purtroppo, neppure noi gente normale.

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Wed, 28 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[L'incidenza delle tecnologie nei passaggi generazionali]]> Dopo la rivoluzione industriale dell’800 e quella tecnologica del ‘900, il nostro secolo appare caratterizzato dalla digitalizzazione informatica, come processo pervasivo che per dimensioni  spazio –temporali e target di fruizione si configura sempre più come un derivato della globalizzazione, in quanto legato a modi di essere e di fare che si esprimono ad ogni latitudine comprimendo gli spazi angusti della quotidianità e finendo per condizionare i comportamenti individuali e collettivi di tutti.

La diffusione ubiquitaria delle tecnologie di ultima generazione non conosce ostacoli o confini e si manifesta come un fenomeno ormai irreversibile con cui siamo costretti a fare i conti. La stessa alternanza generazionale non è un fatto ciclico che si avvicenda secondo paradigmi ripetibili, poiché ciò avviene mentre mutano il contesto, la vita sociale, i diritti e i doveri, le aspettative, le logiche dei mercati e quelle della competizione: possiamo affermare che la dimensione economica e quella del pensiero computazionale hanno sovvertito il concetto stesso di cultura come processo di lunga metabolizzazione del sapere e gli apprendimenti scolastici, quelli del tempo libero, la lettura e la scrittura sono stati condizionati dall’incessante e a volte tumultuoso entrare in scena di informazioni e comunicazioni disparate che hanno rotto gli schemi di un sapere prevalentemente tramandato a favore di un avvicendamento di dati, notizie, modalità comunicative che spesso riesce difficile discernere e padroneggiare.

Sul piano demografico l’allungamento della vita e l’invecchiamento della popolazione creano un surplus di percipienti rispetto all’area della produttività: la società aperta e multiculturale (pur con alcune discrasie implicite come la perdita del “genius loci”, che poi sono le radici dell’appartenenza) produce un incessante interscambio di contatti e relazioni, anche se il gap generazionale permane, come acutamente osservato dal sociologo Luca Ricolfi nel suo libro “La società signorile di massa” che vive delle rendite degli anziani mentre la precarietà del lavoro tiene i giovani, terminati gli studi, in uno stato di latenza e di attesa.

Peraltro sussiste un problema della terza e perfino della quarta età, come acutamente osservato negli studi di Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia accademia per la vita e incaricato prima dal Ministro Speranza e poi dallo stesso Mario Draghi di presiedere una commissione interistituzionale che affrontasse il tema della compatibilità e della sostenibilità generazionale nei processi di inclusione ovvero di emarginazione degli anziani dalla fruizione e dall’uso delle nuove tecnologie e con esse da una presenza attiva e fattiva alla vita sociale e culturale del nostro tempo, per spezzare le derive di isolamento e solitudine.

Innovazione tecnologica e digitalizzazione hanno una funzione eminentemente facilitativa rispetto alla congerie infinita di azioni, contatti, scambi di informazioni, apprendimenti e all’organizzazione della nostra stessa vita. Tuttavia si evidenziano difficoltà oggettive sotto diversi profili, interessanti sono gli studi  del Prof Ruben Razzante docente della Cattolica di Milano e della Lusma di Roma e anche le ricerche del CENSIS non solo sull’uso e il padroneggiamento degli strumenti sempre più sofisticati a disposizione ma persino rispetto all’etica della comunicazione e dell’informazione: poiché in rete mancano spesso filtri e controlli sulla veridicità dei flussi di dati e notizie occorre possedere abilità e competenza nell’uso degli apparati e capacità di discernimento e di pensiero critico nel vaglio di ciò con cui entriamo in contatto in modo pervasivo e diffusivo.

Questo crea problemi ad ogni età: si pensi ai fenomeni del cyberbullismo, del revenge porn, alle mistificazioni virtuali che occultano le evidenze del reale a quella forma di violenza simbolica che usa i mezzi tecnologici per aggirare i confini dell’etica. E questo riguarda soprattutto le giovani generazioni al punto che i reati a sfondo tecnologico, nel buio del web, superano in percentuale quelli agiti fisicamente e paradossalmente finiscono – pur con una dotazione straordinaria di apparati- per inibire e frustrare i processi comunicativi: prevale infatti tra i giovani un uso solipsistico della fruizione digitale e tecnologica.

Ma anche per le persone più avanti negli anni, coloro che hanno vissuto processi di alfabetizzazione e acculturazione verbale o scritta, tramandata e consolidata negli anni, il fatto che l’uso del cellulare o del computer siano entrati a far parte delle abitudini quotidiane crea fenomeni adattivi sul piano non solo della manualità ma anche della logica di pensiero: applicare alla propria età un approccio di conoscenza-comunicazione-informazione basato sull’uso sistematico delle tecnologie, l’ingresso in internet per scambi relazionali, acquisti, accesso alla rete della pubblica amministrazione, degli uffici, delle istituzioni comporta un cambio di passo e di mentalità.

Sullo sfondo resta l’intendimento facilitativo e il processo di semplificazione che sta legittimandosi anche a livello di volontà politica attraverso la gestione del PNRR ma nella fruizione quotidiana del singolo, per le sue necessità o per la volontà di adeguarsi all’innovazione in atto permane il nodo dell’assumere modelli di comunicazione e di presenza: per inoltrare una domanda, chiedere lumi su una pratica, accedere al cedolino della pensione, scaricare il proprio CU per la dichiarazione dei redditi, o semplicemente per leggere un quotidiano on line, scrivere ad un nipote , depositare una memoria per la riunione condominiale …. insomma per rapportarsi con il mondo è necessario acquisire una mentalità decisamente diversa da quella praticata nella (più lunga) prima parte della vita.

Per questo appare necessaria un’azione di guida e counseling da parte delle istituzioni: siano i servizi sociali, il CAF, il patronato, il sindacato, le reti associative territoriali che si formano elettivamente per creare sinergie e favorire un atteggiamento positivo/propositivo e una partecipazione solidaristica.

Sarebbe un grave errore se gli anziani, come spesso purtroppo accade per ottusità e scarsa comprensione degli interlocutori (siano essi uffici pubblici o enti, aziende private, compagnie telefoniche, fornitori di beni e servizi) fossero emarginati o peggio espunti ove non fatti oggetto di tentativi di estorsione o di truffa, dalla comunicazione on line e dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

Per questo – come acutamente osservato dal Presidente del CENSIS Prof De Rita – i processi di semplificazione non devono essere nominalistici, virtuali o complicati, nemmeno frettolosi e con trabocchetti che inducano all’errore: parlare di “riconversione ecologica e digitale” comporta processi di metabolizzazione lenti, consapevoli e partecipati.

C’è un tempo diverso per ogni età e sono gli apparati, la rete, le istituzioni, i network e o provider che devono adattarsi e commisurarsi al target di una utenza complessa e diversificata.

Sarebbe tuttavia – infine – un errore di metodo chiudersi nelle consuetudini del passato, anche se più rassicuranti forse sul piano emotivo: certo non è facile e viene un momento nella vita in cui si vive più di ricordi che di progetti. Tuttavia esser parte di una comunità che usa l’innovazione tecnologica come strumento di promozione della condizione umana può restituire anche nella parte che resta della vita la sensazione di sentirsi utili, di esserlo per gli altri senza dimenticare il valore aggiunto che deriva dall’esperienza, che non è solo – come scrisse Oscar Wilde – il nome con cui chiamiamo i nostri errori ma una fonte inesauribile di valori e insegnamenti a cui le giovani generazioni hanno il dovere di attingere per conservare la memoria di chi ci ha preceduto e contribuire a valorizzare la storia nella sua continua ripetibilità.

E i fatti di questo tempo conflittuale e doloroso ci ammoniscono a ricordarlo.

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Sat, 24 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La politica sopra le righe]]> Finita l’orgia di panegirici su Berlusconi (un eccesso che non crediamo abbia giovato davvero al suo profilo), spentosi rapidamente per fortuna il tentativo di trasformare la tragedia che ha colpito Romano Prodi in un poco serio controcanto di maniera, la politica ha ripreso il suo corso “normale” con il ritorno al vizio di giocare sul “sopra le righe” come un tratto identitario che dovrebbe compattare i rispettivi fan club.

Ogni parte cerca di puntare il dito censorio su quel che fa l’avversario, ma il costume è purtroppo largamente condiviso. Schlein e la sua corte puntano a magnificare battaglie di schieramento i cui contenuti reali sono a dir poco evanescenti. Meloni non riesce a tenere a freno i suoi pasdaran che ha portato al governo e che continuano ad esprimersi come polemisti da comizio (o da twitter, adesso i comizi non si usano più) senza mostrare alcuna maturità da uomini delle istituzioni.

I comportamenti sono poi ondivaghi a dir poco. Schlein prima va ad una manifestazione dei Cinque Stelle per sentire Moni Ovadia che dal palco presenta una teoria più che strampalata oltre che filo putiniana sulla guerra in Ucraina, ma anziché denunciare la trappola un minuto dopo esserci caduta dentro aspetta un giorno per dire che il PD continua ad essere per il sostegno all’Ucraina anche con l’invio di armi, salvo a far dire per il giorno dopo che farà votare contro l’uso parziale di fondi del PNRR per produrre armi e munizioni (in contrasto con i socialisti europei). Meloni che ha dato esempio di coinvolgimento solidale nella tragedia della alluvione in Emilia Romagna, lascia poi che due sprovveduti, il ministro Musumeci e il vice ministro Bignami, si lancino in frasi da bar su una vicenda gravissima.

Perché succede tutto questo? Perché i partiti guardano solo alle elezioni europee, convinti che tanto in quel genere di competizione votano solo quelli “militanti”, che pertanto bisogna tenere insieme lisciando il pelo alle leggende metropolitane di cui si nutrono (con il concorso ciascuno di un proprio sistema mediatico di cui più che utilizzatori finiscono per essere se non schiavi pesanti debitori). Tutti, ma proprio tutti sono convinti che alle europee, dove ogni partito correrà da solo e col sistema proporzionale sia necessario apparire al massimo possibile “duri e puri”. Certo nella maggioranza di governo come nelle opposizioni si dà un po’ di spazio al problema delle coalizioni da mantenere o da costruire, ma sono discorsi vaghi, fatti giusto per evitare che ci siano incursioni nel proprio campo da parte degli alleati-avversari (incursioni che invece inevitabilmente ci saranno).

Chiedersi come noi nel nostro piccolo facciamo da qualche tempo se si possa andare avanti così per un anno è una domanda di buon senso. Nel lasso di tempo che ci separa dalle europee ci saranno elezioni amministrative di un certo significato in Molise e in Trentino Alto Adige, territori dove non sappiamo se questa politica del sopra le righe potrà portare buoni frutti, ma non ci sembra che l’argomento appassioni i gruppi dirigenti dei principali partiti, che per esempio ignorano bellamente il fenomeno in crescita delle liste civiche. A dire il vero la dispersione di voti in liste minori non preoccupa, se è vero che si sta dibattendo per abbassare il quorum per il diritto a partecipare alla ripartizione dei seggi alle elezioni europee dal 4% al 3%.

Anche a voler prescindere da questi passaggi, ci sarebbe la questione delle riforme politiche cui il governo vuol mettere mano. Anziché cercare terreni di serio confronto si continua nello scontro a base di bandierine da sventolare. In astratto far passare delle riforme su aspetti importanti in un clima di confronto costruttivo gioverebbe alla destra-centro per consolidare la sua immagine di affidabilità e alla sinistra per potere credibilmente resistere su alcuni punti specifici senza essere etichettata come quelli che dicono sempre no a prescindere.

L’esempio delle riforme in materia di giustizia è emblematico. Che bisogno aveva il ministro Nordio di intitolare delle riforme di cui si discute da tempo alla memoria divisiva di Berlusconi, non proprio un faro della scienza giuridica? E che necessità ha Elly Schlein di impuntarsi a difendere una norma sull’abuso d’ufficio che è criticata ampiamente, anche da membri del suo partito (persino da Bertinotti che non crediamo possa essere additato come destrorso), solo per tenere viva la contrapposizione contro la destra al potere? Naturalmente possiamo notare che la battaglia fra i due campi a colpi di bandierine è ben sostenuta da una stampa e da un sistema di talk show che sono felici di offrirsi per mettere in scena questa commedia.

Resta il fatto che una politica fatta in questa maniera fa disamorare i cittadini e quando questo non accade li incita a ragionare per slogan e per atti di fede, cioè con modalità che recano pregiudizio ad una corretta vita democratica.

Di questa ci sarà grande bisogno nei mesi futuri, per fronteggiare la sfida dell’inflazione, per affrontare i cambiamenti che si intravvedono sulla scena internazionale, per gestire il PNRR, ma non solo visto anche che alcuni indicatori economici sembrano far presagire un indebolimento del nostro quadro di riferimento.

In questo contesto abbiamo bisogno di gente abituata a ragionare di politica fattiva e non a proporci sceneggiate, slogan, manifestazioni di piazza e quant’altro. C’è bisogno della tenuta del sistema-paese, cioè di un quadro in cui le forze si compongono e si integrano pur nel confronto anche deciso fra loro. Fuori di questo ci sarebbe solo un indebolimento della nostra struttura di cui tutti pagheremmo le conseguenze.

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Wed, 21 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La pandemia della solitudine]]> In una società multietnica e globalizzata i contagi si diffondono rapidamente: così è stato per il Covid-19, così pare che sia per una pandemia che non ha origine da un virus ma nasce e dilaga in modo esponenzialmente crescente, specie nei contesti umani più avanzati: si tratta dell’epidemia della solitudine. Tanto crescente e pervasiva che l’Economist l’ha definita “la lebbra del XXI secolo”.

Recentemente Vivek Murthy – la massima autorità sanitaria degli USA quale Surgeon general of the United States, cioè "Chirurgo generale", nominato dal Presidente Biden, capo operativo del Public Health Service Commissioned Corps e quindi il principale portavoce in materia di sanità pubblica del governo federale degli Stati Uniti, infine rappresentante americano nell’OMS, ha messo in guardia sulla crescite e gli effetti del fenomeno negli stili di vita degli yankee, che condividono con gli abitanti del Regno Unito il triste primato di un 50% della popolazione affetto da questa condizione esistenziale epidemiologica di ‘solitudine e di isolamento’. Ma pare che Finlandia, Danimarca e Norvegia lamentino da tempo questa situazione che affligge i rispettivi abitanti mentre la ‘Fondation de France’ ha evidenziato come siano milioni i francesi che soffrono di isolamento, solitudine ed emarginazione sociale. Il fenomeno diventa a un tempo massivo ed apicale in Giappone, dove la solitudine esistenziale ha raggiunto livelli drammatici ed è ben descritta da allegorie estreme come il fenomeno del kodokushi, il morire in modo completamente solitario e spesso ignoto agli altri.

Pare che anche in casa nostra le cose non vadano meglio, tra sindromi depressive e vere e proprie patologie da chiusura e incomunicabilità. Ricordo peraltro ciò che mi disse Umberto Galimberti nel corso di una intervista sulle derive comportamentali del nostro tempo e sulle difficoltà relazionali: “Viviamo in una cultura che ha aumentato in modo esponenziale i livelli di comunicazione, accade però che non abbiamo più niente da dire. Una volta le persone per sapere qualcosa del mondo uscivano di casa, oggi rientrano in casa e si mettono davanti allo schermo, dove tutto è allestito per presentare le cose in un certo modo, da un certo punto di vista. Il dramma consiste nel fatto di non disporne di altri. I giovani vivono una cultura di riflesso, prevalentemente non elaborata su modelli dialogici e di ascolto ma preconfezionata e trasmessa dai social, omologata ma a prevalente fruizione solipsistica, mentre nei contesti metropolitani odierni vivere negli appartamenti significa ‘appartarsi’. Si tratta dunque di un fenomeno sociale di deriva e rilevanza psicologica ma sono gli effetti sugli stili di vita che preoccupano poiché riguardano le condizioni mentali ed emotive, gli stati d’animo, i sentimenti, una progettualità esistenziale asfittica, il decadimento cognitivo in assenza di rapporti con gli altri, le relazioni personali e sessuali, l’insonnia, la bulimia o l’anoressia, l’assenza di una misura di autostima, l’ansia, la depressione, le sindromi compulsive, l’assunzione di sostanze o di alcool fino al pensiero suicidario come unico mezzo di rimozione di uno stato di sofferenza insopportabile. Risuonano davvero emblematiche e paradossali le parole di Galimberti: pur disponendo come mai prima d’ora di ogni potenzialità comunicativa grazie alle nuove tecnologie finisce che viviamo in una sorta di “Fortezza Bastiani”, in attesa di un nemico che non esiste, non siamo in pace con noi stessi, siamo spesso sopraffatti da nostalgie per un tempo migliore che in realtà non è mai esistito e non siamo capaci di elaborare strategie relazionali stabili e rassicuranti per il presente e il futuro: abbiamo persino paura di amare e – come mi ha detto Vittorino Andreoli- le turbe identitarie e affettive che ne derivano sono il pane quotidiano di psicologi, psichiatri e psicoterapeuti. Inseguiamo una felicità che non raggiungeremo mai poiché dovrebbe coincidere con uno stato di grazia e di pienezza esistenziale incoerenti con il nostro malessere. La vita diventa un luogo di transito possibilmente ricercato e silenzioso, incolore e privo di utopie, la creatività si arresta sull’uscio di casa poiché abbiamo paura di incontrare il mondo. Colpisce la trasversalità dei target sociali di questo fenomeno e la sua distribuzione generazionale: qui si va oltre Tolstoj che parlava di famiglie infelici in modo diverso, poiché infelicità e solitudini sono rappresentazioni legate ad una dimensione personale e soggettiva. D’altra parte ilarità e pienezza di vivere, gioia e spensieratezza – che stanno agli antipodi della solitudine come malattia del nostro tempo – sono categorie esistenziali di difficile e incerta ricognizione, oggi. “Navigare necesse est, vivere non est necesse: è vero ma questo si scontra con le allegorie quotidiane dei naufragi e degli approdi. Più che essere soli conta il “sentirsi soli”: qualcosa di struggente, inspiegabile, insuperabile e che si finisce con il tacitare con la solita pastiglietta. Gottfried Wilhelm von Leibniz – filosofo vissuto tra la fine del 600 e i primi del 700 – è arcinoto per la sua teoria delle “monadi”: epistemologia della conoscenza della realtà ma anche condizione umana di isolamento. Le monadi non hanno porte né finestre, Hanno un'attività interna, ma non possono essere fisicamente influenzate da elementi esterni. In questo senso sono indipendenti, isolate tra loro. Non avrebbe certo immaginato a quel tempo – Leibniz – che la sua monadologia sarebbe diventata la più potente metafora esplicativa della solitudine nell’era della post-modernità.

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Sat, 17 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Ei fu]]> Sarebbe eccessivo paragonare Silvio Berlusconi con Napoleone Bonaparte, ma la reminiscenza manzoniana ci è venuta in mente perché anche in questo caso la sua scomparsa segna simbolicamente il passaggio fra due secoli “l’un contro l’altro armati”: quello della politica come ideologia che interpreta il futuro e quello della politica come narrazione che risolve i problemi a parole.

Siccome ci consideriamo come il grande scrittore milanese vergini di servo encomio e di codardo oltraggio, ci permettiamo di interrogarci sul significato di una presenza politica che ha segnato una stagione della nostra storia. Potrebbe essere stata la stagione della transizione da una prima ad una terza repubblica dopo i sussulti di una seconda che non è mai veramente riuscita a prendere forma, ingabbiata com’era fra la voglia di continuare con le vecchie categorie travestite da nuove e la pulsione a buttare ogni cosa in una novità che era fatta solo di nuovi “costumi” (scenici) sotto i quali c’era ben poco.

Bisogna essere cauti nel dare per esaurita una fase di transizione: quella che abbiamo definito terza repubblica potrebbe stare per nascere, ma se sarà una creatura ben formata o se arriverà condizionata dagli acciacchi precedenti è tutto da vedere.

Proviamo a ragionare su qualche passaggio. Innanzitutto il rapporto tra narrazione ed azione politica che ha caratterizzato la fase berlusconiana. Non che prima la narrazione non avesse un suo ruolo, ma era ancillare rispetto alla gestione di una presenza pubblica impegnata a confrontarsi colle sfide che si presentavano sulla scena. Magari poi lo faceva malamente, usava strumenti analitici obsoleti, non riusciva a cogliere gli snodi decisivi, ma non riduceva tutto ad annuncio. Berlusconi si è imposto da subito sulla scena con un annuncio (scendo in campo) ed ha trovato come risposta annunci contrari (vincerà la nostra gioiosa macchina da guerra).

Il dramma è che si è andati avanti così sostanzialmente fino ad oggi, anche se l’angelos, cioè colui che annuncia, non era più né il vecchio signore di Arcore, né gli esorcisti storici che gli si erano contrapposti. Come spesso succede il dramma si era trasformato in commedia, e talora in farsa.

Per continuare nella reminiscenza manzoniana Berlusconi aveva conosciuto sia la polvere sia la gloria degli altari, ma questo aveva contribuito alla radicalizzazione della politica in un confronto stereotipato fra angeli e demoni. Si riusciva ad uscirne, e non ci è mai parsa una gran soluzione, solo affidandosi a dei “tecnici” che peraltro non potevano che fare la minestra con gli ingredienti che gli passavano gli eterni contendenti impegnati nello scontro fra loro.

Napoleone a suo tempo si era lamentato che la sua politica fosse stata contrastata dagli “ideologi”, gente che non sapeva operare nella realtà perché credeva che fosse quella delle loro fantasie. Nell’era della politica spettacolo che non a caso ha visto un grande imprenditore televisivo tenere a lungo i fili del confronto politico, agli ideologi si sono sostituiti gli opinionisti incoronati dai talk show. Una evoluzione della sfera della pubblica opinione che è sfuggita a molti osservatori: al più ampio dibattito nelle sedi in cui si poteva riflettere è succeduto un confronto circoscritto ad un numero ristretto e fisso di “personaggi” che, come i gladiatori nei loro spettacoli, rimettono continuamente in scena un duello: fra persone e non fra idee, del tutto disinteressati a sfruttare un dibattito politico che pure continua a svolgersi nel paese.

Berlusconi è vissuto non solo in questo contesto, ma di esso, così come più o meno i suoi avversari. Ha insegnato a tutti un metodo ed ha dovuto accettare che gli altri ne approfittassero spingendolo ai margini della scena. Ha avuto “visioni”, ma non è stato capace di trasformarle in prassi, soprattutto non ha accettato che ciò comportasse nel suo partito la creazione di altre leadership accanto alla sua. Per un vero capo politico è una mancanza non piccola, anche se rientra nella quasi generalità dei casi.

Gli attacchi che ha dovuto sopportare, specie un poco spiegabile accanimento giudiziario nei suoi confronti, non sono tra le pagine migliori della nostra storia politica, tuttavia sarebbe ipocrita tacere che in una certa fase della sua vita si lasciò andare ad un comportamento da satrapo che non fu esattamente un bel vedere (perché esibì spregiudicatamente la “eccezionalità” della sua satrapia e questo in politica andrebbe sempre evitato).

Con la scomparsa di Berlusconi probabilmente finisce l’epoca dell’ottimismo a buon mercato e vedremo se si porterà dietro la fine del suo competitore storico, il pessimismo apocalittico a prescindere. Lui aveva chiuso la fase della repubblica dei partiti come componenti che davano forma a delle articolazioni antropologiche della nostra società: il mondo del comune sentire cattolico, quello delle elite tradizionali legate in vario modo al controllo dell’economia, quello del “mondo del lavoro” che si era strutturato nella tradizione della sinistra dei diversi socialismi. Li aveva sostituiti con partiti “inventati” per quanto sulle ceneri dei vecchi: quello dello status quo dove nessuno voleva perdere i vantaggi acquisiti e quello dei promotori di un mondo che si sarebbe fondato sul riconoscimento di nuovi vantaggi parcellizzati al massimo possibile in un sogno di sfuggente eguaglianza.

Se il venir meno dell’icona che aveva incarnato il confuso passaggio fra la fine del Novecento e il XXI secolo avrà come conseguenza la costruzione di un quadro politico più aderente alla sfida del cambiamento storico che stiamo vivendo, lo vedremo. Non domani mattina, ma nei tempi complessi e lenti che sono propri di ogni transizione storica.

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Wed, 14 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Il futuro tra fascinazione e rischio di estinzione della vita sul pianeta]]> La fascinazione del futuro ha sempre esercitato una forza di attrazione irresistibile per la scienza, non solo per gli addetti ai lavori ma anche nel campo dell’immaginazione descrittiva che si ritrova ad esempio nelle narrazioni distopiche di George Orwell, Stanley Kubrick, Isaac Asimov e Aldous Huxley. Possiamo ora affermare che le nuove tecnologie e la digitalizzazione pervasiva stanno imprimendo una vistosa accelerazione ai processi di innovazione che cambiano in modo radicale la nostra vita, spesso in modo ubiquitario e imprevedibile, tanto da modificare nell’immaginario collettivo le stesse nozioni di spazio e di tempo.

Si tratta di una deriva inarrestabile ma osservandola e riflettendo sulle conseguenze e gli effetti non sempre potenzialmente positivi si è indotti a più di una riflessione che investe nella sua interezza lo stato attuale del mondo.

Da anni seguiamo con apprensione i moniti delle organizzazioni internazionali che si occupano di sostenibilità ambientale, a cominciare dai Rapporti dell’ONU e dell’Ipbes (la piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici) l’ultimo dei quali ha drammaticamente annunciato la possibilità della sesta estinzione della vita sulla Terra, la prima per mano dell’uomo). Basti ricordare gli studi del biologo Edward Osborne Wilson che faceva due conti sulla crescita demografica: abbiamo superato gli 8 miliardi di umani ma a 6 miliardi e mezzo era già suonato il campanello della sostenibilità ambientale. Pandemia e guerra (guerre) ci hanno proposto altri temi di grande criticità che sommano il loro peso sul grande piano inclinato che sta facendo scivolare l’umanità e la vita stessa verso il baratro. Inquinamento, disboscamenti, innalzamento dei mari e delle temperature, scioglimento dei ghiacciai in montagna e ai Poli, dissesto idrogeologico, infrastrutture pervasive, cementificazione selvaggia, sono solo alcuni macro-temi di cui ci occupiamo o sentiamo parlare con crescente intensità e allarmismo. Per questo specialmente in Europa – (teniamo presente questo tema in vista delle elezioni del prossimo anno) - ha preso l’abbrivio una campagna di progettazione nel contesto del Green Deal, quale manifesto della Grande Transizione digitale, energetica ed ecologica partendo dal Recovery plan e fino al PNRR, per un rilancio su nuovi paradigmi degli standard di sostenibilità e qualità della vita.

Le nuove tecnologie e le potenzialità scientifiche sono una componente essenziale di ogni prospettiva di crescita, mentre l’innovazione è a un tempo metodo e finalità di ogni auspicabile percorso di miglioramento. Tutti tocchiamo con mano l’incidenza di questi fattori nella nostra vita. Ci sono potenzialità evolutive enormi ma anche rischi impliciti ad esse connessi. Il tema del momento riguarda le applicazioni dell’I.A. e la via immersiva nel metaverso la cui frequentazione potrebbe facilitare e implementare la dimensione spazio-temporale della conoscenza, lasciando aperta la porta della riconversione dal mondo virtuale a quello reale. La platea dei potenziali fruitori dell’I.A. e del metaverso ingloba di fatto l’intera umanità, a livello di fruizione individuale e comunicativa.

Tuttavia dopo lo slancio iniziale viviamo una fase di ripensamento: ha cominciato Geoffry Hinton (ne abbiamo già trattato) che si è dimesso da Google paventando rischi incalcolabili dall’abuso dell’I.A. per il futuro dell’uomo, cui ha fatto seguito Elon Musk che- nel presentare il progetto Neuralink che prevede l’impianto cerebrale di microchip con finalità terapeutiche e medicali- non si è sottratto al dubbio che un utilizzo distorto e concentrato nelle mani di persone senza scrupoli di questa epocale innovazione (per la prima volta si entra nel cervello con la tecnologia)  possa alterare il pensiero e strumentalizzare la mente umana per finalità non etiche. Chiedendo una moratoria di almeno 6 mesi per riflettere sullo sviluppo di modelli più potenti del GPT-4 di OpenAI, al fine di elaborare protocolli di sicurezza condivisi. 

La fascinazione per il futuro non deve prenderci la mano e portarci verso esiti nefasti e irreversibili. Anche in questo contesto tecnologico – segnatamente in tema di I.A.- alcuni scienziati come Sam Altman a.d. di Opena A1 che ha creato ChatGPT, Yoshua Bengio uno dei padri dell’I.A, Demis Assabis a.d di Google DeepMind, Yann LeCunn docente alla NYU, Jaan Tallinn co-fondatore di Skype e altri 350 colleghi hanno sottoscritto una lettera indirizzata al Center for al Safety in cui mettono in guardia da potenziali distorsioni applicative delle applicazioni che loro stessi hanno creato.

Mitigare il rischio di estinzione derivante dall'intelligenza artificiale dovrebbe essere una priorità globale insieme ad altri rischi su scala sociale come le pandemie e la guerra nucleare".

Questo sta scritto nel testo condiviso e per noi che siamo spettatori affacciati al balcone ad osservare gli sviluppi imprevedibili delle evoluzioni applicative di I.A. più azzardate ed iperboliche è una rassicurazione e un campanello d’allarme. Qualcosa potrebbe sfuggire di mano e l’uomo-robot diventare l’artefice del “cupio dissolvi”. Detto da “loro” … “l’I.A. potrebbe portare all’estinzione dell’umanità”. Dovremmo essere noi, allora, usando il nostro senso critico (finchè ne possiamo disporre) a chiedere una moratoria su I.A., metaverso e digitalizzazione pervasiva, sottraendoci ad una forsennata rincorsa verso l’ignoto.

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Sat, 10 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Bilancio delle diciotto "comunali" nei capoluoghi]]> Il secondo turno delle elezioni comunali (che però è stato il primo in Sicilia) ha chiarito che la destra non ha bisogno di ritoccare al ribasso (al 40%) la quota del 50% più uno dei voti indispensabile per eleggere il sindaco al primo turno: quasi dappertutto, chi era in testa la prima volta si è confermato al ballottaggio. Le alchimie sul sistema elettorale per annichilire il centrosinistra non servono, anche perché ad affossare i candidati progressisti ci hanno già pensato gli elettori (tranne che a Vicenza, rondine che non fa primavera: Possamai ha vinto accentuando al massimo il suo profilo "civico", un po' come Tommasi l'anno scorso a Verona; per di più, il neosindaco ha chiesto alla Schlein di non fare campagna elettorale in città). Dopo il primo turno avevamo scritto su questa rivista che sarebbero stati i ballottaggi a dare un significato e un colore a questa competizione: è uscito il nero, su tutte le ruote di questa estrazione tranne due (Vicenza e Trapani, dove però nella coalizione del candidato sindaco di centrosinistra c'era una lista con esponenti della Lega) e Terni. Liquidare il voto in diciotto capoluoghi di provincia (c'è stata prima Udine, poi questi tredici, poi i quattro siciliani dei quali uno va al ballottaggio) come un semplice trionfo della destra è riduttivo. È vero, però, che aggregando ai voti di lista anche quelli siciliani abbiamo che la destra sale dal 44,5% delle scorse comunali e dal 40% delle politiche al 51,6%, mentre il centrosinistra passa dal 35% delle scorse comunali al 31,2%, il centro e le civiche dal 4,2% al 7,9%, il M5s dal 10,7% al 3,7%. Il vantaggio della destra (oggi il 21,4%, contro il 13,4% delle politiche e il 9,5% delle comunali precedenti) non è una semplice "onda lunga", ma la replica amplificata di quanto era già accaduto nel 2018, quando il centrosinistra era andato in difficoltà soprattutto nelle ex zone rosse. È un problema strutturale che si risolve solo dove (Brescia, Vicenza e la Verona dello scorso anno) ci sono radici e l'apporto di forze sociali civiche (le grandi città metropolitane sono un'altra cosa, perché il Pd resiste ancora, come si è visto a suo tempo a Roma, Torino, Napoli, Milano). Nei capoluoghi medi o piccoli (Ancona) la ztl non basta più. C'è poi da considerare che la destra ha vinto perché ha imparato ad usare il sistema elettorale che - paradossalmente - vorrebbe cambiare. Per decenni, il centrosinistra aveva candidati forti che trainavano le liste, mentre il centrodestra ne aveva di deboli, che si facevano trainare: questo faceva la differenza, unita alla solita disaffezione dell'elettorato di destra al ballottaggio. Queste condizioni, stavolta, non si sono verificate: la destra presentava sindaci uscenti e candidati considerati più credibili (in genere): nei sette capoluoghi dove c'è stato il ballottaggio gli esponenti della destra non solo hanno conservato i voti del primo turno in cinque casi, aumentando i consensi, ma la rimonta di quelli di centrosinistra è stata solo pari a complessivi 13766 voti contro i 10261 guadagnati dai rappresentanti della destra. Lo stesso Possamai, pur vincendo (perché era già avanti al primo turno) ha preso 1520 voti in più contro i 2049 conquistati dal sindaco uscente. Dove la destra ha perso voti rispetto al primo turno ci sono stati due esiti non sfavorevoli: a Terni ha vinto il civico (che però è anch'egli di destra) mentre a Brindisi il vantaggio era forte e ha permesso comunque la vittoria. Migliore scelta dei candidati, rimobilitazione dell'elettorato al secondo turno: questi sono stati gli ingredienti del successo della destra. Poi, certo, c'è stato anche il clima generale. E c'è stato il fattore M5s: se un partito prende alle politiche percentuali da Psi anni Ottanta ma alle amministrative prende quanto il Pli di allora c'è forse da farsi qualche domanda. Si può fondare un'alleanza locale con un partito il cui elettorato - per i tre o quattro quinti - defeziona e si astiene anziché votare la lista pentastellata? Alle politiche il discorso del "campo largo" può avere - a seconda dei gusti - un suo senso, ma alle amministrative allearsi col M5s non serve praticamente a niente. Nei diciotto capoluoghi, inoltre, il Pd ottiene lo stesso 14,4% delle scorse comunali (le civiche migliorano dell'1,3%, invece) mentre alle politiche aveva il 19%. Si può dire che - ricalcolando parte dei voti delle civiche, il partito democratico è sempre fermo sulla stessa quota delle politiche, circondato però da alleati numericamente deboli. La Meloni ha invece una coalizione di destra con tre soggetti medio-piccoli (FI 6,4%, Lega 7,4%, centristi 2,5%) ma FdI è al 14,8% e soprattutto le liste del sindaco e le altre civiche di area hanno il 20,4% (16,6% alle scorse comunali) contro il 13,2% (17,6%) di quelle di centrosinistra). In sintesi, le "altre liste" civiche e del sindaco di destra danno alla coalizione il 6,2% in più (2018: 1% in meno) di quelle del centrosinistra: sono sette punti persi rispetto alle scorse comunali (il divario è così passato dal 9,5 al 21,4%, in gran parte per questo motivo). La destra vince, perciò, sia perché ha imparato dopo trenta anni a usare i meccanismi delle comunali, sia per le oggettive difficoltà di un centrosinistra che non ha alleati che possano irrobustirlo (né allargandosi al centro, né allargandosi a sinistra) e che è fermo sulle sue posizioni, quando va bene.

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Wed, 07 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Le spine di un cambio di contesto]]> Non c’è soltanto il cambiamento climatico che tanta comprensibile attenzione suscita dopo gli ultimi eventi catastrofici. Anche il cambio di clima politico che si è registrato con i risultati elettorali, non solo in Italia, ma anche in Europa, porta con sé non pochi problemi. Come nel primo caso pure nel secondo abbondano gli apocalittici che vedono arrivare sciagure tremende, così come quelli che da incoscienti cercano di convincere che sia tutta retorica a buon mercato.

Siamo tra quelli, pochi o tanti non sapremmo, che cercano di esercitare un po’ di capacità critica. Lo facciamo sul fronte della politica, nel tentativo di mettere in fila un po’ di elementi per capire, perché questa è la cosa più importante.

Il quadro generale è la crescente aspettativa di un deciso cambiamento di equilibri a livello europeo. Dal risultato delle elezioni italiane dello scorso 25 settembre a quello recente delle elezioni in Grecia e poi in Spagna, per non parlare delle ultime amministrative da noi, si parla molto del cosiddetto “vento di destra” che spirerebbe con forza sul nostro continente. Questo provoca continui sussulti negli equilibri istituzionali, perché la classe dirigente burocratica che li governa nei vari contesti è frutto, come succede spesso, del clima dei decenni precedenti. Ciò implica che le sue componenti tentino di difendere i poteri e le posizioni che hanno acquisito, tranne quelli (ci sono sempre) che pensano semplicemente di traslocare armi e bagagli presso i previsti nuovi vincitori.

Un esempio curioso lo si è avuto a livello dei vertici UE a fronte di alcuni cambiamenti in Italia nel sistema burocratico di gestione dei fondi PNRR. Giovedì primo giugno esce una dichiarazione del commissario Gentiloni che specifica che Bruxelles non entra nei meccanismi di gestione e controllo interni, ma valuta documenti e progressi del governo. A ruota viene contraddetto da un evidentemente distratto portavoce della Commissione che invece agita lo spettro di un venir meno in Italia del rigore necessario e prospetta qualche intervento di Bruxelles. Immediata stizzita e motivata reazione del nostro governo che richiama alla correttezza istituzionale e poco decorosa marcia indietro del disinvolto portavoce che, immaginiamo, si sarà preso anche una reprimenda da Gentiloni.

Cosa ci dice questa commediola? Che ai vertici UE una parte non sappiamo quanto consistente della burocrazia vuole schierarsi nella lotta contro il prospettato cambio di maggioranze nel futuro parlamento, con un passaggio dalla storica alleanza PPE-PSE ad una ipotetica PPE-conservatori e forse liberali (ipotetica perché è tutt’altro che certo che un passaggio del genere avrà i numeri necessari). Al di là di questo c’è naturalmente il tema, piuttosto concreto, di un possibile cambio di orientamento nell’azione del Consiglio, cioè dell’organo che riunisce i governi dei 27 paesi aderenti, i cui membri sono per varie ragioni orientati in modo piuttosto confuso.

Questo clima si riversa sul nostro paese dove ormai le forze politiche ragionano con l’ossessione del risultato che potranno raccogliere alle elezioni europee del 9 giugno 2024. Si sta così esasperando il quadro. Da un lato la gestione del PNRR diventa sempre più una questione di accreditamento o meno dell’attuale maggioranza di governo che punta a cavare il massimo possibile da queste risorse anche con mosse a volte irrazionali e di bandiera. In contrapposizione le opposizioni di PD e M5S puntano a creare il massimo possibile di difficoltà, ad esasperare le polemiche, per intestarsi il famoso “noi ve l’avevamo detto” di fronte a fallimenti ipotizzati.

In questo contesto va inquadrata la querelle sui controlli concomitanti della Corte dei Conti in materia di PNRR. In sé è l’ennesima questione se la miglior tutela dell’interesse pubblico sia moltiplicare i controlli, più burocratici che di merito e competenza, sull’azione della pubblica amministrazione. La difesa dello status quo da parte di vari esponenti dell’opposizione con toni catastrofici sono abbastanza ridicoli, ma la scelta della maggioranza di intervenire con l’accetta infilando in un decreto una norma al riguardo non denota una buona cultura istituzionale. Un po’ preoccupante la decisione della magistratura di chiedere di essere controparte del governo nel discutere sul contenuto dei provvedimenti: se i magistrati passano dall’applicare (ed interpretare: anche troppo) le leggi, al concorrere a scriverle non si vede dove finirà il ruolo del Parlamento e la divisione dei poteri.

Un osservatore interessato più alle prospettive del bene comune che a quelle della spettacolarizzazione della politica si chiede se sia possibile passare un intero anno, che è quanto ci separa dalle elezioni europee, con forze politiche scatenate solo a sventolar bandierine pseudo-identitarie, all’ombra delle quali peraltro dibattono della ben più prosaica questione della formazione delle liste dei candidati. Ed è questa una faccenda molto complicata, perché i collegi per le europee sono enormi e con la crisi dei partiti politici, che quanto a radicamento sul territorio sono messi male, si finirà per puntare più che altro sull’effetto trascinamento della “immagine” (mediatica) dei singoli canditati e delle bandiere di parte (tanto la partecipazione di votanti è tradizionalmente bassa, figurarsi di questi tempi, per cui tutti puntano più che altro a mobilitare i rispettivi pasdaran).

Non per essere pessimisti per principio, ma i motivi di preoccupazione per i mesi che ci attendono temiamo non manchino.

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Wed, 07 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Elon Musk annuncia impianti celebrali per interconnettersi con il PC]]> Mentre il Presidente Mattarella presenziava alla Cerimonia per i 150 anni dalla scomparsa di Alessandro Manzoni, qualcuno si affannava ad auspicare meno latino e più ChatGPT nelle scuole superiori, senza dimenticare la via immersiva da tempo imboccata dal metaverso e dalle teorie del mondo virtuale inclusivo. La tecnologia “corre come una lepre” scrive Ruben Razzante nel libro “I Social media che vorrei” e “tocca il cielo con un dito” come aveva ben descritto Emanuele Severino. Penso al candore di Pascal nel distinguere l’esprit de geometrie dall’esprit de finesse e la mente guarda a ritroso nella Storia, con gratitudine per chi ha rappresentato la scienza – da Leonardo, a Newton ad Einstein – e per chi ha esaltato l’arte – come Caravaggio, Mozart, Dostoevskij, per ricordare solo l’altro ieri. Globalizzazione e post-moderno si sono imposte come derive che hanno offerto un assist alla tecnica, il pensiero ha assunto prevalenza computazionale, come lo stesso Heidegger aveva intuito e mentre l’arte vive più la stagione della riproducibilità tecnica che l’aura dell’originalità, come rimarcato da Walter Benjamin nel celebre saggio scritto tra il 1935 e il 1939, la deriva scientifica prende il sopravvento in tutti i suoi connotati teoretici ed applicativi.

Tecnica, tecnologie, algoritmi, hardware e software, cyber e web ne sono i cascami continuamente attualizzati mentre l’Intelligenza Artificiale riassume la progettualità ad alto indice innovativo, è una sorta di via tracciata per codificare la correlazione tra mente umana e sua capacità di replicarne le funzioni in modo programmato o autonomo, come spiega Luciano Floridi quando parla di “cut and paste” del digitale: la capacità di ricombinazione della realtà, una sorta di suo “copia e incolla”.

“I robot per adesso non sono più intelligenti dell’uomo ma lo possono diventare” ha detto Geoffrey Hinton, guru dimissionario di Google e gli impliciti sottesi aprono scenari impensabili. Il processo di digitalizzazione è parte integrante della più ampia deriva di riconversione ecosistemica: tutto sta ad intendersi sull’uso e il senso delle parole e sui limiti delle azioni esperibili. Finora l’approccio con l’I.A. è stato tendenzialmente negativo, prefigurando narrazioni distopiche e scenari catastrofici. Sarebbe auspicabile una connotazione diversa a condizione che l’uomo resti al centro dei cambiamenti, le cui regole siano gestite dalla scienza ma sovraordinate da codici etici, condizione non sempre traducibile sul piano del diritto tanto che in molti prevale un giustificato scetticismo.

E’ di questi giorni la notizia di Neuralink, la start-up di Elon Musk, di aver ottenuto dalla FDA (Food and Drug Administration- USA) l’autorizzazione a progettare dispositivi da impiantare nel cervello per comunicare con i computer attraverso il pensiero: un’immaginazione che ha sempre affascinato e terrorizzato, questa del comando mentale a dispositivi esterni programmati per svolgere determinate funzioni. Musk ne evidenzia le potenzialità persino medicali e terapeutiche, come help di connessione con la realtà per aiutare persone paralizzate o affette da patologie neurologiche. Per realizzare questa funzione di comando sarebbe necessario impiantare un chip nel cervello attraverso un intervento chirurgico. Non sfuggono tuttavia – quasi sintomaticamente – i pericoli di un uso distorsivo di questa funzione: per cancellare la privacy- ad esempio - o per comandare a distanza dispositivi capaci di compiere azioni criminose, per implementare l’uso preordinato del digitale, per limitare le libertà personali concentrando il potere di controllo nelle mani di trust malavitosi.

Il pericolo di un uomo robot.

Un mondo telecomandato gestito da potenziali “padroni dell’uomo che esercitano il loro dominio attraverso il cervello, direttamente con gli impianti di sensori digitali e mediatamente con l’intelligenza artificiale” come mi scrive Vittorino Andreoli, che di potenzialità ed azioni distorsive dell’uomo sull’uomo e sull’umanità se ne intende. Perché il rischio più nefasto e persino irreversibile è che ne venga deformata e distrutta la struttura ontologica della persona, il suo pensiero, le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue libertà. Facendo parte della natura anche l’uomo ne condivide i rischi distruttivi, che sono sotto gli occhi di tutti, ma anche le potenziali capacità reattive, persino di ribellione. Per questo accolgo l’invito del Prof. Andreoli, un mix di affettuoso consiglio e di prefigurazione di un futuro carico di incognite: “Si goda la vista del sole poiché tra poco lo vedrà come un enorme bitcoin”.

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Sat, 03 Jun 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Non è questione di “vento”: con l’aria non si vince, né si governa]]> Troppo facile buttarla sulla storiella del vento di destra che spira in Europa e di conseguenza anche in Italia. La destra non vince perché cambia il vento, ma perché la sinistra si è troppo ridotta a presentare come sua principale offerta l’aria fritta. Questa è la lezione che emerge anche dalle ultime amministrative e specialmente dai ballottaggi.

Al netto del tema dell’astensione, sempre molto alta (ai ballottaggi ha votato il 49,6%), cosa che mostra come l’area della politica partecipata si restringa più o meno ai “militanti”, ci sono due sconfitti in questa tornata elettorale. Il primo, come hanno detto tutti, è Elly Schlein, la cui inconsistenza è sottolineata ormai anche dai commentatori simpatetici con la sinistra (noi lo dicemmo dall’inizio e ci siamo attirati critiche feroci). Il secondo, che invece è riuscito a rimanere nell’ombra, è Matteo Salvini.

Facile rilevare che il centrosinistra ha vinto solo a Brescia e a Vicenza (e in una passata prova a Verona), cioè dove c’erano candidati lontani dalle pose che vanno di moda con la nuova segretaria (che infatti è stata tenuta alla larga da quelle campagne elettorali). Non si può dire che altrove sia andato disastrosamente perché in genere è oscillato intorno al 45% e in certo casi ad un passo dal vincitore, ma si è trattato di una coalizione molto ampia, dove i Cinque Stelle sono stati insignificanti e dove c’è stata una grande frammentazione, certamente non sotto il segno delle battaglie da gauche caviar, come dicono i francesi, che sono il tratto della nuova segreteria.

Quanto a Salvini i numeri parlano abbastanza chiaro. Nel suo Lombardo-Veneto dove si aspettava un grande successo, è stato sconfitto sia a Brescia che a Vincenza, ma soprattutto la Lega ha raccolto percentuali più che modeste in comuni di zone che dovevano essere il suo feudo: 7,5% a Brescia, 6,4% a Vicenza. Certo si dirà che parte dei suoi voti sono finiti nelle liste personali del suo candidato sindaco, ma non è un bel vedere: significa che anche fra i leghisti sono più quelli che amano un candidato locale che non il loro cosiddetto “capitano”. Nelle altre città chiave il partito dell’esuberante vice premier raccoglie risultati modesti: con l’eccezione di Pisa dove ha il 16,3%, e a Massa l’11,3, a Siena c’è il 3,8, ad Ancona il 2,9, a Terni il 4,2, a Brindisi il 3,1. Non proprio risultati brillanti soprattutto confrontati con le performance di FdI.

Come si può leggere tutto questo? Sicuramente come un consolidarsi della leadership di Giorgia Meloni, ma anche della capacità sua e dei suoi collaboratori di lavorare sui radicamenti territoriali del partito. Così sarà in buona posizione sia per quel che riguarda la gestione del governo, sia per quel che riguarda la possibilità di giocare una sua partita sul tavolo europeo. Il suo problema è non montarsi la testa, cioè non farsi attrarre nel gorgo dell’accentuazione delle sceneggiate di parte. Deve ricordarsi che proprio questo è ciò che ha fatto capitombolare Salvini che pure aveva accumulato un bel tesoro di consensi all’inizio della passata legislatura. Il potere è una cosa delicata che va gestita con prudenza ed acume: il bullismo e la bulimia da occupazione dei Palazzi non portano bene.

Da oggi Meloni può tenere sotto controllo Salvini accentuando il rapporto con FI e con Tajani: le serve per la politica europea, ma le serve anche per dar corso al suo progetto di partito conservatore che deve allontanarsi dalle demagogie del leader leghista (magari con la speranza che in quel partito alcune componenti più capaci di analisi politica lo mettano almeno un po’ ai margini).

Più complesso è il discorso per il centrosinistra. Schlein cerca di cavarsela dicendo che è arrivata solo da due mesi e che è troppo poco per cambiare il verso alle cose. Sarebbe così se non fosse che si constata la sua modestia nel gestire un discorso politico degno di questo nome. Ovviamente c’è un riscontro drammatico al proposito. Lei è stata la vicepresidente e l’assessore al clima e in parte all’ambiente della regione Emilia-Romagna, e dunque avrebbe dovuto avere competenze e conoscenze per dire qualcosa sul dramma dell’alluvione che non può essere ridotto alle chiacchiere sul cambiamento climatico in corso. Ma nessuno ricorda un suo discorso significativo o una sua presenza sulla questione.

L’altro tema complicato in questa area è la formazione del cosiddetto campo largo o comunque lo si voglia chiamare. Che i Cinque Stelle si rivelino sempre più per un gruppo poco più che folcloristico appare evidente, il che significa che da un lato discutere sulle loro modeste utopie è poco utile e che dall’altro se lo si vuol fare si dovranno poi pagare loro prezzi spropositati (in questo sono abili come si è visto nel loro rapporto col centrodestra sulla distribuzione di cariche pubbliche). Il resto è una frammentazione di piccoli gruppi, talora molto piccoli, che però hanno molte pretese. Per tenere insieme questo blocco (che non sappiamo come uscirà dalla competizione per il parlamento europeo) ci vorrebbe oltre una buona leadership un progetto politico compiuto che non si vede all’orizzonte.

Naturalmente poi in politica tutto può subire accelerazioni o rallentamenti, non sappiamo come si evolveranno passaggi cruciali (guerra d’Ucraina, elezioni negli USA, nuovi equilibri in Europa, andamento dell’inflazione, ecc. ecc.), ma certo per quel che vediamo oggi al momento la destra-centro guadagna posizioni, mentre la sinistra-centro, che paga anche reclutamenti poco felici di classe politica, arranca e non si sa quanto se ne stia accorgendo.

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Wed, 31 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Sos intelligenza artificiale e mafie digitali]]> Un paio di notizie apparse sui media in questi giorni hanno portato alla ribalta un tema di grande attualità sul quale scienziati, addetti ai lavori, esperti di etica della comunicazione e tecnici dei social esprimono da tempo opinioni e punti di vista, con analisi e valutazioni non sempre collimanti.

Si tratta di un’area vasta di argomenti che spaziano dal web, all’intelligenza artificiale, all’uso e all’abuso dei social che per vastità di utilizzo, pluralità di linguaggi, penetrazione pervasiva nei comportamenti umani, prospettive di espansione coinvolgono un target estremamente lato di utenti creando i presupposti oggettivi per una sorta di mutazione culturale profonda e incisiva determinata dall’uso massivo delle tecnologie e radicalmente slegata dai modelli tradizionali di trasmissione del sapere e di ricontestualizzazione spazio-temporale delle relazioni interpersonali.

Hanno destato vasta eco (che pare già “assorbita” come un episodio quasi emendabile) le dimissioni da GOOGLE dopo dieci anni di full-immersion di Geoffrey Hinton, 75 anni, psicologo cognitivo e scienziato informatico, considerato il padrino dell’intelligenza artificiale, pioniere della ricerca sule reti neurali e sul “deep learning”, vincitore nel 2018 del prestigioso premio ‘ Turing Award’. Ha lasciato con una motivazione che fa riflettere: “i programmi di IA hanno fatto passi da gigante e ora “sono piuttosto spaventosi. Al momento i robot non sono più intelligenti di noi ma presto potrebbero esserlo”, ha affermato alla BBC prefigurando scenari distopici impensati persino dalla fantascienza. “Il chatbot potrebbe presto superare il livello di informazioni di un cervello umano, mentre ‘cose’ come GPT-4 oscurano una persona nella quantità di conoscenza generale”. Un ripensamento così radicale per uno scienziato ha quasi il significato etico di una riconversione: il messaggio che Hinton ha lanciato è che “attori cattivi” potrebbero usare l’IA per “cose cattive”. “Potete immaginare un cattivo attore come Putin che decida di dare ai robot la capacità di creare propri sott-obiettivi, come quelli di ottenere più potere”. Un allarme che viene a ruota di quello lanciato da oltre mille dirigenti e ricercatori tra cui Elon Musk, dopo la diffusione di ChatGpt, che hanno chiesto una moratoria di almeno sei mesi nello sviluppo dell’IA e delle sue applicazioni “per i profondi rischi alla società e all’umanità”.

George Orwell e Aldous Huxley sono già preistoria sullo sfondo delle rappresentazioni distopiche.

Le dimissioni da GOOGLE di Geoffrey Hinton non devono cadere nel vuoto, così come le loro motivazioni. Toccherebbe alla politica come play maker di ‘regole del gioco efficaci’, per usare un’espressione del Commissario UE Paolo Gentiloni, occuparsi della materia e delle sue ricadute pratiche ed esistenziali nella vita di tutti noi. Ed in effetti il Parlamento Europeo ha dato il via libera all’AiAct, il documento che fissa le nuove norme europee per l’intelligenza artificiale, per favorire e guidare uno sviluppo umano-centrico ed etico dell’IA. L’incipit parte con il divieto di utilizzo di tecnologie a IA per il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici nell’UE.

Vedremo se il seguito sarà coerente.

Una seconda notizia di questi giorni desta ulteriori motivi di preoccupazioni: l’infiltrazione della malavita e segnatamente delle mafie nei social e nel web, attraverso la diffusone di contenuti e linguaggi espliciti o occultati

E’ quanto emerge dal Rapporto "Le mafie nell'era digitale", stilato dalla Fondazione Magna Grecia e presentato nella sala stampa della Camera dei Deputati, da Antonio Nicaso, docente di Storia della criminalità organizzata presso la Queen's University in Canada, Marcello Ravveduto, professore di Public and digital history alle Università di Salerno e di Modena-Reggio Emilia e responsabile della ricerca, e Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro. L’indagine ha analizzato 20mila commenti a video YouTube, 90 GB di video TikTok (per un totale di 11.500 video) e 2 milioni e mezzo di tweet: il linguaggio delle mafie si esprime attraverso la musica, le macchine extra-lusso, i gioielli kitch, il "presta libertà" dedicato a chi è in galera, affinché veda presto la luce del sole, alla mitizzazione dei grandi boss del passato, dagli emoticon a forma di cuore o di leone, di fiamma o di lucchetto per dimostrare sentimento, coraggio, e omertà, agli hashtag per inserirsi nella scia dei contenuti virali su social network come Facebook, Instagram, Twitter e oggi soprattutto Tik Tok.

Dall’uso ludico dei social si passa a vere e proprie strategie di sponsorizzazione, comunicazione esplicita e affiliazione, “fino ad arrivare, con lo sbarco in Rete della nuova generazione criminale, alla creazione dell''interreale mafioso'. Ovvero di una continuità tra quanto accade in rete e il mondo reale". I social diventano luogo di minaccia e controllo del territorio, i brand e i prodotti sponsorizzati utili indicatori in mano agli influencer che li usano per intercettare nuovi adepti o nemici da colpire.

In particolare con TikTok si crea in rete una sorta di “Grande fratello mafioso”. Un business per la malavita e una minaccia palese o sottotraccia per l’indotto diseducativo e criminale che può influenzare specialmente i giovani frequentatori del web.

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Sat, 27 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La rincorsa alla radicalizzazione (di facciata)]]> Un tempo era un pezzo fisso della satira puntare sullo sketch che presentava una stessa notizia “vista da destra e vista da sinistra”. Un modo per prendersi gioco di come si potevano manipolare i fatti, col retropensiero che in fondo tutti sapevano benissimo riconoscere le mistificazioni strumentali. Era troppo ottimistico, oppure era semplicemente la presa d’atto che tanto, in questo paese strutturalmente di guelfi e ghibellini, ognuno rimaneva attaccato alla sua tribù politica qualsiasi cosa accadesse.

Si trattava però di uno spettacolo messo in scena per le anime semplici, perché appena si saliva un poco di livello c’era consapevolezza che la politica fosse una cosa seria. Peppone e don Camillo erano due maschere che da un lato parlavano per slogan e usavano quelli per i loro duelli più o meno rituali, ma poi nella vita quotidiana finivano per trovare un’umanità comune sulla cui base dialogare. Questa almeno era la rappresentazione che ne dava Giovanni Guareschi e questa spiega il successo dei suoi libri e dei film derivati, più o meno bene, da quelli.

Da tempo non è più così e anzi le cose stanno peggiorando. Schematicamente si usa dire che molto, se non tutto comincia col famoso ’68, quando si impone il mito che fa dipendere il mancato successo delle riforme avviate col centrosinistra da una carenza di radicalità nell’azione politica. Il famoso motto “siate realisti, chiedete l’impossibile” rappresenta bene questa deriva sebbene solo dal punto di vista della fantasia: nella realtà produsse il mito della rivoluzione da riaccendere con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

Quanto sta accadendo in questi ultimi mesi rappresenta un nuovo stadio di questa deriva. I comunicatori (definirli intellettuali ci sembra troppo) puntano ormai apertamente alla radicalizzazione di ogni evento o posizione e la gran parte dei politici sembrano seguirli su questa strada. Spieghiamo subito perché abbiamo scritto “sembrano”: perché in realtà accanto all’appiattirsi su queste mode imposte dai talk show e da internet, buona parte della classe politica si muove facendo i conti con la realtà, cercando accordi, cercando di valutare i costi e i benefici delle varie azioni.

Stiamo parlando delle cose significative: politica economica, relazioni internazionali, rapporto con il tessuto sociale. Qui governi e opposizioni, al netto di episodi di superficialità e di improvvisazione che pure non sono mancati, si sono mossi e si muovono con una certa cautela.

Nella scenografia della propaganda, che ormai peraltro si fa per via come si dice subliminale (nessun partito ha un suo talk targato col suo simbolo: si fa lavorare il personaggio vicino, ma indicato come indipendente), la radicalizzazione è la regola assoluta. Quello che fanno i miei amici, o quelli che spero lo diventino, è per definizione buono (al massimo ci sarà qualche peccato veniale), quello che fanno i miei nemici è sempre subdolo e perverso.

Siccome il problema centrale è il governo e controllo del palcoscenico non stupisce che la RAI sia sempre in cima alle preoccupazioni di tutti i partiti, i quali cercano di infilarsi anche nella gestione delle TV e radio private, ma qui devono fare i conti con le scelte dei proprietari di quelle emittenti. Tutti invocano il pluralismo, ma lo intendono solo come spartizione delle sfere di influenza, insensibili al dovere di riflettere un contesto sociale che, tanto per cominciare, non è esattamente centrato sulle battaglie fra le forze politiche. Chi segue con un po’ di malizia queste operazioni vedrà poi che a pro della radicalizzazione si offrono spazi anche a personaggi e sigle che hanno una presenza modestissima nell’opinione pubblica, ma che il “medium” innalza a rappresentanti di espressioni ed idee che meritano di essere fatte circolare. Servono in realtà solo per promuovere confusione nel campo avversario: così il centrodestra dà spazio a chi può disperdere consensi rispetto alla sinistra, mentre per la verità il centrosinistra si limita per lo più a dare spazio a coloro che possono meglio agire come i “caratteristi” degli stereotipi che circolano sulla destra.

Spazi per un vero dibattito sui molti problemi seri che affliggono il nostro paese ce ne sono pochissimi. Il principio che deve passare in queste forme di comunicazione è che la colpa è sempre del diavolo, cioè del vero volto che si vuole attribuire all’avversario. Lo pseudo dibattito sulla emergenza climatica che ha flagellato specialmente Emilia-Romagna e Marche è tipico. Dall’antichità in avanti l’uomo ha cercato di spiegare gli eventi tragici di quel tipo tirando in ballo qualcosa al di fuori del comune: l’ira degli dei, la punizione divina per i peccati, l’azione di forze malvagie che sfuggono al controllo degli uomini. Questa volta è toccato alle vulgate sulle ideologie ambientaliste: gli uni per affermarne la superiorità (se non inquinassimo le piogge torrenziali non ci sarebbero), gli altri per affermare che sono i pregiudizi degli ambientalisti che ci impediscono di difenderci (i no alle installazioni dei vari manufatti ci hanno privati delle necessarie tutele).

Sono sciocchezze le une e le altre spiegazioni, perché i fenomeni naturali hanno una complessità di cause che è illusorio pensare che l’uomo possa metterle sotto controllo totale, ma dar loro spazio accende gli animi come quando si pensava che si potessero placare le presunte punizioni divine con sacrifici rituali.

Stiamo parlando dell’ultimo caso agli onori delle cronache, ma si potrebbe ampliare il discorso. Il tema fondamentale è che sarebbe necessario spingere nell’angolo i fautori della radicalizzazione degli scontri politici, consapevoli che sono tecniche che servono soltanto ai comunicatori senza idee. Il nostro paese, e più in generale l’Europa hanno bisogno di recuperare la dimensione di un serio confronto politico il cui scopo sia la ricerca di soluzioni possibili e razionali per i molti problemi che abbiamo davanti. Nella convinzione che quando ci si muove con serietà ed umiltà su questa strada si trova poi il modo di costruire condivisioni e sforzi comuni.

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Wed, 24 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Bilancio del primo turno delle comunali]]> Il primo turno delle elezioni amministrative del 2023 non ha riservato grosse sorprese. Saranno i ballottaggi a stabilire l'esito della competizione, visto che per ora siamo solo quattro a due per la destra. Il primo dato significativo riguarda l'affluenza, che nei capoluoghi di provincia è stata pari al 57,3% contro il 59,4% delle precedenti comunali (-2,1%), in linea con il dato nazionale (59,03 oggi, 61,22 la volta prima, quindi -2,19%). Poiché i protagonisti sono i sindaci, prima di occuparci delle liste vediamo il rendimento degli aspiranti primi cittadini di destra e di centrosinistra. Di solito, il centrosinistra costruisce le sue vittorie su un doppio fattore: il miglior rendimento dei propri candidati rispetto alle liste e il peggior rendimento di quelli di destra rispetto alle liste. In questo caso, i candidati di centrosinistra hanno fatto meglio dei loro partiti a Brescia (dove è arrivata la vittoria), a Sondrio (inutilmente), a Vicenza (primo posto e ballottaggio), Pisa (secondo posto e ballottaggio), a Latina (sconfitta), a Teramo (vittoria): sono solo sei casi su tredici. I candidati di destra che hanno fatto meglio dei loro partiti sono quelli di Treviso (vittoria al primo turno), Vicenza (secondo posto e ballottaggio), Massa (primo posto e ballottaggio), Siena (primo posto e ballottaggio), Ancona (primo posto e ballottaggio), per un totale di cinque su tredici. Va detto però che a Massa i candidati sindaci di destra erano due: hanno avuto in tutto il 54,41% dei voti personali e il 55,5% di lista (quindi meno dei partiti). La doppia condizione favorevole al centrosinistra, dunque, si è verificata solo a Brescia (vittoria), a Sondrio (sconfitta), a Pisa (ballottaggio), a Latina (sconfitta), a Teramo (vittoria). In pratica, nei cinque comuni nei quali si sono realizzate le due condizioni il centrosinistra ha ottenuto le uniche sue vittorie, con un ballottaggio e due sconfitte; altrove, solo ballottaggi e altre due sconfitte. Quindi è venuto meno - o si è affievolito - uno degli elementi strutturali che di solito caratterizzano il centrosinistra e lo favoriscono. Per il resto, è noto che le liste di destra vanno di solito bene, anche se stavolta hanno fatto anche meglio del previsto, ottenendo il 51,2% dei suffragi contro il 42,2% delle politiche e il 43,1% delle precedenti comunali. Il centrosinistra modello 2022 ha avuto il 35,9% contro il 29,9% delle politiche e il 37% delle scorse comunali, col Pd che è passato dal 19,2% del 2018 al 21,4% del 2022 (non c'erano liste civiche, però) al 17,3% del 2023. Aggiungendo i centristi, abbiamo: comunali 2023, 40,2%, politiche 2022, 39,5%, comunali 2018, 42%. Non abbiamo fin qui considerato il M5s, che si è alleato col Pd solo in pochi casi e senza pesare molto sui risultati. I pentastellati hanno avuto il 2,9% dei voti contro il 12,5% delle politiche e il 9,4% delle precedenti comunali; in pratica, hanno avuto almeno un punto in meno persino rispetto al rapporto politiche-comunali che si registra di solito. Il voto al M5s è legato all'astensionismo: nel passaggio 2018-2023 i pentastellati hanno perso 34mila voti, mentre gli astenuti in totale nei capoluoghi sono passati da 375mila a 395,7 mila (+20,7mila); fra il 2022 e il 2023 i voti validi totali sono scesi da 536,8 mila a 491,6 mila (-45,2mila) mentre i Cinquestelle hanno perso 53mila voti. Passiamo alle liste civiche, che hanno contato moltissimo questa volta: fra quelle di destra (20,2% contro il 12,7% delle scorse elezioni comunali), quelle di sinistra (7,8% contro 7,3%) e le altre (3,8% contro 2,9%) si arriva a un 31,8% di voto non strettamente partitico nazionale (prec.: 22,9%). Se vediamo nel dettaglio, la destra nel totale guadagna il 7,9% dei voti, di cui il 7,5% dovuto all'incremento delle civiche; il centrosinistra modello 2022 perde l'1,8% e le sue civiche guadagnano solo lo 0,5%). Una differenza che può aver influito parecchio su alcuni risultati locali. Infine, i rapporti di forza fra i partiti di governo: guardando le sole liste, Forza Italia perde l'1% sulle comunali, la Lega perde il 9,7%, Fratelli d'Italia guadagna l'11% (in pratica, la Meloni sottrae voti agli alleati). Ricalcolando i voti civici di destra e attribuendoli (arbitrariamente, in proporzione) ai partiti si vede che FdI guadagna un punto sulle politiche, mentre la Lega e FI ne guadagnano 3,5 circa ciascuno.

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Sat, 20 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Come, nello spazio, i buchi neri diventano buchi bianchi]]> Fascino, mistero e spiegazione: queste parole potrebbe accompagnare la lettura del libro del fisico Carlo Rovelli sulla trasformazione dei buchi neri in buchi bianchi, come ribaltamento di prospettiva di osservazione oltre l’orizzonte del visibile e dell’immaginabile, al di là dei confini spazio-temporali.

Sarebbe presuntuoso tentare di riassumere in termini divulgativi lo sforzo di descrizione di un fenomeno scientifico, d’altra parte tutto ciò che riguarda quanto avviene nell’Universo (o avveniva miliardi di anni fa per proiettarsi sulla linea del tempo attuale) e quanto sta accadendo o si riscontrerà e verificherà nei miliardi di anni a venire va sempre considerato e ricomposto nella fascinazione dell’immaginabile: passato, presente e futuro come categorie del tempo che solitamente usiamo per misurare e classificare i fenomeni della nostra dimensione esistenziale qui acquisiscono margini estremamente dilatati, per cui riassumere attraverso congetture, dimostrazioni e comparazioni ciò che avviene nell’Universo non può essere ridotto a poche formulette essoteriche. Le stesse equazioni di Einstein – ancorché validate – vengono messe a dura prova quando si tenta di spiegare che cosa sono questi buchi neri di cui tanto si parla tra gli scienziati e insieme allo sforzo di comprensione si tenta di capire come avvenga la loro trasformazione nei figli minori – i buchi bianchi - e cosa siano gli uni e gli altri e in quali aspetti e caratteristiche consistano analogie e differenze.

D’acchito ripenso al “panta rei” di Eraclito perché ciò che descrive Rovelli non è un fenomeno di rimozione e sostituzione ma di trasformazione ad es. sul piano dell’energia e del calore, una evoluzione-involuzione asimmetrica, come un double face che si coglie solo oltre la linea dell’orizzonte dell’epifenomeno, penetrando all’interno di questa mutazione fino agli spazi siderali più profondi per cogliere il descritto ribaltamento – dal nero al bianco – e gli impliciti connessi.

Rovelli illustra le convinzioni che si è data la scienza e lo fa con una terminologia che non potrebbe non esserle pertinente ma direi con uno slancio ed una immedesimazione emotiva che cerca analogie, metafore e rappresentazioni iconografiche in modo narrativo: chi legge ha l’impressione che persino la punteggiatura sia sacrificata al racconto incalzante perché l’autore penetra nei meandri più reconditi di ciò che spiega, tra descrizione e interpretazione.

I buchi neri sono stelle che si spengono e lo fanno con processi e tempi infiniti: hanno terminato di bruciare l’idrogeno di cui sono fatte, trasformandolo in elio. Sono così pesanti che il loro peso le schiaccerebbe su se stesse se non fossero mantenute morenti ma ancora vive per miliardi di anni dal fatto stesso di bruciare. Poiché nulla è eterno, quando l’idrogeno si è consumato e si trasforma in elio “la stella resta come un’auto senza benzina”, la temperatura scende, il peso comincia a prevalere e la stella si schiaccia sotto l’effetto della gravità e sprofonda dentro il suo orizzonte: così nasce un buco nero. Un mistero – tutto ciò che accade nello Spazio - che aveva affascinato sotto diversi profili di applicazione Copernico, Keplero, Galilei e Newton, fino a Faraday, Maxwell, Einstein, Finkelstein.

Il formarsi di un buco nero è dunque spiegabile con una caduta: una stella che ha finito di bruciare collassa su se stessa, così come un oggetto che entra nel buco nero e lo spazio medesimo che sta nel lungo cono di caduta: il buco bianco non è altro che il rimbalzo, visto dalla prospettiva opposta, come accadrebbe in un film proiettato all’incontrario, una soluzione alle equazioni di Einstein scritta con il tempo ribaltato.

“Un buco bianco è il modo in cui apparirebbe un buco nero se potessimo filmarlo e proiettare il film all’incontrario”. Nei buchi neri si può entrare ma non uscire, mentre dai buchi bianchi, al contrario, si può uscire ma non entrare: tutto ciò si spiega secondo le regole della fisica quantistica applicate ai concetti di spazio e di tempo a cui Rovelli ha dedicato gli studi di una vita.

Alla stessa stregua il principio della asimmetria del tempo spiega perché possiamo ricordare il passato ma non il futuro così come di converso possiamo scegliere il futuro, ciò che non ci è possibile fare con il passato.

Pudicamente mi fermo qui: sarebbe presuntuoso affermare di aver compreso concetti che richiedono una lunga applicazione di studio, elaborazione, messa in discussione, falsificazione, validazione.

Trovo che uno scienziato che si impegna nello spiegare ai lettori non solo le conoscenze scientifiche acquisite ma anche il pathos e lo slancio vitale della sua motivazione interiore compia un gesto di generosità. Premiato dal fatto che questo libro - appena uscito - è balzato in cima alle classifiche di vendita. Forse significa che c’è in molti il desiderio di alzare lo sguardo verso il cielo, per elevare lo spirito e il pensiero oltre le negatività del presente quotidiano.

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Sat, 20 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Evitiamo acrobazie interpretative: le comunali sono elezioni “locali”]]> La politica è tutta un test, si potrebbe dire scimmiottando una nota canzonetta. Si tratta però di capire che tipo di test di volta in volta possa essere. Ci sarà naturalmente tempo e modo per analisi dei dati e dei flussi (per noi lo farà sabato l’ottimo Luca Tentoni), ma intanto vediamo di proporre una lettura “di superfice” che non vorremmo fosse superficiale.

I media ed i numerosi fan club che circondano i partiti nella carta stampata e sulle TV sono alla perenne ricerca di conferma delle rispettive tesi: Meloni si rafforza come guida suprema della destra? La Lega di Salvini è in stasi o si riprende? Nel PD è visibile l’effetto Schlein? I Cinque Stelle come sono messi? Il terzo polo da qualche segno di vita?

Sono tutte domande legittime, ma poste ad eventi che non sono in grado di dare risposte soddisfacenti. Nelle elezioni comunali è difficile che la gran parte degli elettori scelga seguendo appartenenze di parte od orientamenti solo ideologici. La ragione è semplice: per prima cosa l’affezione ad uno schieramento a prescindere da ogni valutazione è sempre più in forte calo; in secondo luogo la scelta è condizionata da una conoscenza abbastanza prossima dei candidati in campo, specie quando come nella tornata attuale al massimo ci sono città di medie dimensioni. Poco meno della metà degli aventi diritto non si reca neppure a votare, convinta che in fondo chiunque vinca cambierà poco per quanto riguarda la sua vita di cittadino ordinario. E con queste premesse c’è da attendersi che ai ballottaggi, là dove si verificheranno, la partecipazione calerà ancora.

A Brescia ha vinto al primo turno la vicesindaca del centrosinistra, a Treviso è stato confermato il sindaco in carica del centrodestra: quando si governa in modo appropriato è difficile scalzare chi ha dato buona prova di sé. I leader dei partiti nazionali si sono anche spesi, chi più chi meno, ma non è rilevabile al momento un loro effetto di trascinamento sui candidati locali.

La conclusione che si può trarre, a meno di non avere clamorose smentite coi ballottaggi, è che la distribuzione nazionale dei consensi rimane più o meno quella che si è sedimentata nell’ultimo decennio e che naturalmente fluttua un poco, si ridistribuisce nelle grandi aree di raccolta del consenso, ma non al punto da ridisegnare la attuale geografia politica italiana. Non almeno per ora. Ciò non significa che non siano possibili rovesciamenti e riconquiste, ma saranno nelle mani delle classi politiche locali se sono capaci di occuparsi dei problemi della gente senza farsi condizionare dalle diatribe su presunti massimi sistemi, che sono roba buona per la politica spettacolo che fa un po’ di ascolti, ma sposta pochi consensi. E che i partiti abbiano effettiva capacità di selezione del loro personale politico è piuttosto dubbio.

Sarebbe saggio però considerare che i problemi del paese continuano ad essere seri e che prima o poi presenteranno il conto. Se si parte per esempio dal tema della sanità, che anche dove funziona non offre esempi costanti e generalizzati di alta efficienza (e figurarsi dove non funziona), si vede che si sta facendo pochino per metterci mano. I comuni in questo settore non hanno competenze significative, mentre ce l’hanno le regioni, che farebbero bene a mostrarsi in grado di usarle anziché arzigogolare sull’incremento o sul raffreddamento delle autonomie. Il ministro Calderoli può agitarsi fin che vuole nella sua ricerca di promozione di autonomie differenziate, ma dovrebbe prima di tutto spiegare come si può fare in modo che il sistema sanitario funzioni meglio.

Del resto le diatribe di quest’ultima fase non hanno scaldato la partecipazione elettorale dei cittadini: né la questione delle riforme istituzionali, né le battaglie a vanvera su nuovi presunti diritti civili, né i dibattiti sul lavoro, men che meno le intemerate sull’occupazione della RAI da parte della destra, che fa più o meno quel che facevano tutti i governi della repubblica, sicché non si meraviglia nessuno. Eppure il distacco dalla partecipazione elettorale, un decadimento della qualità della classe politica, la difficoltà di coinvolgere il paese nella valutazione di un passaggio epocale reso complesso dai mutamenti delle relazioni internazionali e anche dalle emergenze ambientali, dovrebbero preoccupare. Un paese non si governa agitando bandierine ed organizzando parate di varia natura e colore, ma prendendosi carico delle sue debolezze e delle sfide che deve affrontare.

Da questo punto di vista i comuni dovrebbero ritrovare centralità, perché sono la scuola dove si forma la cittadinanza politica, si spera a prescindere dal colore del sindaco: non perché questo non abbia la sua importanza, ma perché dovrebbe essere il vaglio che aiuta a capire quanto e perché sia o non sia efficace.

Dunque c’è da sperare che le analisi su come sarà andata questa tornata elettorale non vengano fatte considerandola surrogato dell’ennesimo sondaggio, ma analizzando la qualità e la credibilità di chi ha vinto come sindaco e dei consiglieri eletti. Perché su questo si può puntare per ridare alla politica il suo vero ruolo e significato.

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Wed, 17 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Patria senza conflitti? Ideologia e realtà di una narrazione politica]]> Al di là delle effettive caratteristiche ideologiche dell’attuale governo, non si è mai parlato così tanto di fascismo con riferimento all’attualità, come in questi mesi. Per la classe politica che ruota attorno a “Fratelli d’Italia” questo continuo richiamo al fascismo non è altro che uno strumento di lotta politica maneggiato da una sinistra che non ha la forza politica per contrastare il successo elettorale della nuova destra a trazione meloniana. L’ambiguità del problema però non sembra potersi dissolvere così facilmente. Non c’è dubbio che gli esponenti del governo siano disposti, in molti casi anche convintamente, a condannare il fascismo-regime, vale a dire il sistema di potere dittatoriale crollato 80 anni fa verso cui, si sostiene, non c’è alcuna nostalgia. Più problematica, anche alla luce della miriade di recenti esternazioni pubbliche e private, risulta essere la questione del riferimento ideologico che sorregge l’azione politica degli esponenti di Fratelli d’Italia. Il motore effettivo di quell’area politica non è certamente il conservatorismo e neppure l’anticomunismo, obiettivo che dagli anni ’80 non ha più alcuna forza emotivamente aggregante. Il vero riferimento ideale che caratterizza l’attuale compagine di governo è l’anti-antifascismo. Ecco, dunque, perché l’eterno nodo della permanenza del fascismo in Italia continuerà a rimanere ben saldo: se il fascismo non rappresenta più un regime politico riproducibile, l’antifascismo non è mai diventato il minimo comun denominatore della Repubblica italiana, il che ha reso, e renderà sempre di più, molto ambiguo il confronto sulle fondamenta valoriali della nazione. Allora è opportuno chiedersi: in cosa credono o, quanto meno, su cosa fanno affidamento per mantenere il consenso gli a-fascisti che praticano l’anti-antifascismo oggi al governo? La domanda non è peregrina dato che non si rifletterà mai abbastanza sul fatto che la cultura e le idee professate dal fascismo nella sua fase nascente continuano a essere presenti e possono diventare programma di governo a prescindere dalla imposizione violenta e dittatoriale. La principale leva argomentativa, cioè quella che tra il 1920 e il 1924, prima della nascita del regime, è riuscita a far breccia nell’opinione pubblica italiana, non solo con lo squadrismo e l’acquiescenza delle istituzioni, è il tema della difesa della nazione in declino, della tutela di una Patria resa esangue dal sistema liberale. Il fascismo, in primo luogo, è stato e sempre sarà reazione alla complessità originatasi dalla Rivoluzione francese e dunque si caratterizza come risposta al pluralismo conflittuale della democrazia liberale. Quale migliore argomento del primato nazionale, in circolazione dalla fine del XIX secolo in tutta Europa e che la Prima guerra mondiale aveva definitivamente tirato a lucido, per contrastare il cosmopolitismo liberale e l’internazionalismo socialista? Lo squadrismo, il ripudio del pluralismo, l’autoritarismo, prima e dopo la marcia su Roma, furono presentati come indispensabili strumenti per arrestare il fenomeno della disordinata “incontentabilità” operaia e contadina in nome di un interesse collettivo più alto, quello della Patria. Un obiettivo che in realtà mirava a ripristinare le pericolanti gerarchie sociali e culturali e a cui il fascismo diede, a differenza di quanto aveva fatto il nazionalismo, le sembianze di una rivoluzione anti-sistema ricorrendo a immaginari di mobilitazione generazionale e di rifondazione, anti-democratica, del rapporto costituzionale tra la sfera pubblica del comando e quella dell’obbedienza. La Patria si rivela dunque il pass partout ideologico fondamentale di tale processo, al punto che la troviamo posta a fondamento retorico dell’avvio del regime dittatoriale nel 1925 con misure a cui – dichiara Mussolini alla Camera – “non avrei fatto ricorso se non fossero stati in gioco gli interessi della Nazione”. Quello che sta per abbattersi sull’Italia dunque “non è capriccio di persona, non è libidine di governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria”.

Tutto può essere sacrificato per il bene dello Stato-nazione. Come scrive Giovanni Gentile: “per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono ‘pensabili’ in quanto siano nello Stato (…). Lo Stato fascista (..) ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l’individuo, ma soltanto lo Stato”. Nonostante le incertezze e le capriole ideologiche che caratterizzarono il percorso politico di Mussolini, dobbiamo riconoscere che il fondatore del fascismo ha trovato tra gli italiani un largo consenso o quantomeno una diffusa tolleranza nei confronti dei progetti, prima, e delle pratiche, poi, di demolizione delle istituzioni liberali e di instaurazione di un regime la cui solidità, rappresenta inevitabilmente una prova del disinteresse degli italiani per il tema delle libertà e del valore del pluralismo politico.

 

Oggi l’idea di patria-nazione è radicalmente diversa da quella inculcata dal fascismo, ma è inutile negare che non essendo un concetto inerte, consegnato alla storia, dipende, come tutti i concetti polemici, dal contesto storico in cui si trova a veleggiare. Attualmente, in una fase planetaria convulsa e attraversata da tensioni e trasformazioni epocali (dalle pandemie ai cambiamenti climatici, dai massicci fenomeni migratori al ritorno dell’incubo dei conflitti nucleari sino all’ambigua pervasività dell’intelligenza artificiale), l’idea della nazione democratica e inclusiva dell’antifascismo è sempre più sfidata dal ritorno di un immaginario di patria chiusa e autoritaria.

Nella realtà, dunque, la distinzione, che pure esiste, tra una patria “buona”, di mazziniana memoria, e una “cattiva”, dedita alla sopraffazione di altre comunità, ci appare un argine fragile, sempre sul punto di cedere di fronte all’inasprirsi del quadro economico e delle tensioni internazionali. Se accettiamo l’idea che essere italiani sia un valore in sé, da preservare, dobbiamo anche interrogarci su quali siano i limiti della difesa di tale valore e quali gli strumenti legittimi per salvaguardarlo. Per gli italiani, ad oggi, la risposta appare nitida: il limite e gli strumenti li indica la nostra Costituzione, radicalmente antifascista, che ci impedisce di disgiungere i valori della patria da quelli della democrazia rappresentativa e dei diritti. Tuttavia, abbiamo già sperimentato negli ultimi anni come sia possibile far passare un’efficace narrazione di crisi dei valori costituzionali esistenti. Nulla di riprovevole: la storia costituzionale, vale a dire la storia dell’ordine politico in età contemporanea, non è altro che storia del comportamento politico dei cittadini e delle cittadine sulla base delle regole che si sono dati e che però tendenzialmente (e inevitabilmente) ciascuno cerca di superare, in una direzione o nell’altra. Per questo non c’è Costituzione al mondo, per quanto bella, che - a fronte di un’opinione pubblica indifferente ai valori scelti ottant’anni fa a fondamento della nostra comunità - possa difendersi dal dilagare della narrazione della crisi del vecchio ordine e dalla domanda di un nuovo, “salvifico”, ripensamento costituente. Costruire un argine a tale narrazione non sarà però un’impresa semplice se teniamo presente che la storia d’Italia è in primo luogo la storia di una comunità nazionale poco sensibile al principio della cittadinanza collettiva, all’idea di un’identità nazionale da costruirsi sul conflitto politico, fattore indispensabile per cementare la consapevolezza del ruolo dei diritti e delle libertà collettive. La democrazia, non dimentichiamolo, non si fonda sul patriottismo, tema su cui avremo modo di tornare, anzi quest’ultimo potrebbe facilmente trasformarsi in uno strumento per conculcarla. La democrazia si nutre di pluralismo conflittuale regolamentato da norme condivise e dunque non sembra di buon auspicio la dedica della Presidente del Consiglio, in occasione del 25 aprile, a tutti “gli italiani che antepongono l’amore per la propria Patria ad ogni contrapposizione ideologica”.

 

 

 

 

* Ordinario di Storia Contemporanea – Università di Bologna

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Wed, 17 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La coscienza come conquista e valore dei comportamenti umani]]> Tra i suoni gutturali degli antenati degli ominidi e le applicazioni di intelligenza artificiale dello ChatGPT (in attesa degli sviluppi che vivremo sulla via del Metaverso), corrono tra i 5 e 7 milioni di anni. L’homo sapiens compare sulla scena del mondo circa 300 mila anni fa, quello di Neanderthal 100 mila dopo: un abisso protostorico immenso se comparato alla riconversione digitale, ai robot e alle interconnessioni tra reale e virtuale nei comportamenti umani.

Ripensavo a questo distanziamento siderale che ci separa dalle origini della vita umana sul pianeta leggendo il libro “I buchi bianchi- Dentro l’orizzonte” di Carlo Rovelli, proiettato nell’esplorazione dell’immensità dello Spazio per spiegare come le stelle bruciando generano i buchi neri sprofondando nel proprio orizzonte ma vivendo ancora miliardi di anni e i buchi bianchi ne sono la speculare rappresentazione ribaltando l’immaginario punto di osservazione e confermando le equazioni di Einstein, da un punto di vista opposto. Un agile volumetto che merita un’adeguata recensione.

Nello stesso tempo stavo sfogliavo sulla rivista Antiquity i risultati di una ricerca dell’Università di Edimburgo sull’uso e l’evoluzione strumentale della clava nell’Età della Pietra.

L’uomo osserva la storia partendo dal proprio presente ma può utilizzare opportunamente l’universo di conoscenze di cui dispone. Così come noi possiamo agevolmente procurarci una miriade infinita di comparazioni, similitudini e congetture tra ieri, oggi e domani.

Oltre l’indagine conoscitiva che conserva il suo fascino e non ha confini spazio-temporali, mi interessano, i comportamenti e le dinamiche delle relazioni umane, gli stili comunicativi e il loro valore simbolico rispetto alle invarianti e alle variabili dell’evoluzione della specie.

La differenza che corre tra l’uomo che usava la clava nell’Età della Pietra e lo studente allucinato del college americano che fa strage di alunni e professori riguarda la consapevolezza del gesto rapportata ai due diversi contesti di vita: in genere il primo uccideva per sopravvivere e procacciarsi il cibo mentre il secondo – salvo cervellotiche spiegazioni sulla capacità di intendere e di volere- compie in genere un gesto di deliberata violenza. Nella preistoria non esistevano regole, oggi ne esiste una pletora infinita: il primo problema è se sono giuste, il secondo se vengono rispettate.

La domanda che si pone riguarda il concetto di bene e di male, allora e adesso. A cosa sono serviti millenni e secoli di lezioni della storia se la violenza fisica e simbolica si perpetuano all’infinito? Se ci fosse progresso in ogni campo dei comportamenti umani l’etica applicata alla vita dovrebbe generare uomini migliori. Non è così. Basti pensare ai milioni di morti a causa delle guerre e della crudeltà degli ultimi cent’anni, alle endemiche condizioni di povertà estrema, alla fame e alle malattie, alle migrazioni disperate, alla crescita demografica che satura la sostenibilità del pianeta, ai soprusi e alle nascoste solitudini. Eppure abbiamo avuto testimonianze di fede e di pace, annoverando poeti, artisti, musicisti, filosofi, educatori che ci hanno insegnato il gusto del buono e del bello, abbiamo conosciuto esempi di eroismo e altruismo, di amore per il prossimo, di rispetto per la dignità e l’identità della persona e per la giustizia sociale, che hanno elevato l’infanzia come età delle protezioni e delle tutele, la figura femminile come espressione più autentica dei valori che nobilitano la vita e il genere umano, la ‘vecchiaia’ (come la definisce senza mezzi termini Vittorino Andreoli), quale prezioso scrigno colmo di esperienza, saggezza, ricapitolazione pedagogica della vita.
Eppure lungo la linea infinita della presenza umana sulla Terra, dalla notte dei tempi al presente spesso asfissiante e sfuggente, fino all’immaginario futuro che ci proietta oltre la galassia, verso l’Universo incommensurabile degli anni luce non si riesce a pensare ai fatti, alle azioni, ai comportamenti o agli indefinibili scenari che verranno senza fare ricorso alle categorie etiche del bene e del male. La presenza umana sul pianeta si fa densa fino a lambire i confini della sostenibilità: demografica, generazionale, riguarda l’usura ambientale e la ribellione che la natura oppone agli algoritmi della crescita senza confini. Per questo mai come ora si guarda lo Spazio e lo si esplora: verrà probabilmente il giorno – infinitamente lontano- in cui dovremo trasferire la vita dalla Terra ad un “altrove”: siamo, oggi, nella fase preistorica di un futuro indefinibile, poiché in diversa misura conosciamo o possiamo descrivere solo il 4% dell’Universo.

Eppure se l’uomo non cambierà la sua costituzione “ontologica” (il suo essere) - anche se la pervasività della tecnica è irreversibile - la sua esistenza continuerà ad oscillare tra i confini etici del bene e del male. Viviamo un’epoca in cui anche il concetto di identità – come sintesi di natura e cultura – rischia di essere minato alla radice della sua matrice biologica e unitaria: ove ciò accadesse finiremmo per assemblare un’umanità ondivaga, senza approdi e senza orizzonti di autorealizzazione esistenziale. È importante ricordare gli studi di Ernst Cassirer che assumono a fondamento e oggetto di ripensamento della critica kantiana, soprattutto in funzione di una rivisitazione del concetto di comunicazione simbolica come fenomenologia della conoscenza: “«non possiamo cercare il vero “immediato” là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi”.

Quando partiremo alla conquista di nuovi ancoraggi vitali nello Spazio porteremo insiti nel nostro agire la coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, non dovremo dimenticare nella nuova “Arca di Noè” questo bagaglio culturale che riguarda l’illuminazione della coscienza, anche per un solo attimo, intesa come “intima libertà dello spirito”. L’aveva capito Eraclito (535 A.C-475 A.C) e l’aveva scritto nel suo unico libro che si conosca: “Sulla natura”.

L’aveva ripreso Martin Heidegger, incidendolo come aforisma sull’architrave della sua baita di montagna nella Foresta nera: “il fulmine governa ogni cosa”.

Credo che la folgorazione di quell’attimo di bagliore intenso possa e debba – ancora oggi e in futuro, anzi “sempre” - farci capire che il vero discrimine – simbolico e reale – di ogni azione umana risiede nella coscienza morale che la sottende.

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Sat, 13 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[Potremo avere una riforma costituzionale senza bandierine?]]> Le riforme costituzionali sono una cosa seria e non possono essere ridotte ad una questione di bandierine da piantare per compiacere agli ego(ismi) politici e individuali delle molte parti in causa. Se ne parla quasi dal giorno dopo il varo della nostra Carta, ma non si è mai concluso nulla proprio per quella ragione. Commissioni parlamentari o comitati più o meno pletorici di esperti il quadro era sempre quello: le bicamerali non hanno concluso nulla così come la commissione (pletorica) di tecnici e intellettuali messa in piedi con la congiunta regia del presidente Napolitano e dell’allora ministro Quagliariello.

Ciò che ora manca è una considerazione seria della situazione in cui ci muoviamo e una linea politica chiara a cui ispirarsi. Poi le soluzioni tecniche si trovano. Ci permettiamo il lusso, data l’irrilevanza di chi scrive, di segnalare alcuni nodi di fondo che ridimensionerebbero il dibattito che si sta malamente impostando.

Il primo punto è la questione del ruolo del Presidente della Repubblica. Tutti riconoscono che è importante avere un equilibratore del confronto, talora scontro, politico che è l’anima della democrazia. Per questo fine occorre una figura che si accredita come super partes e che è legittimata in quel ruolo. La scelta di questa figura attraverso una competizione elettorale popolare è sconsigliabile in epoche di radicalizzazioni e tensioni: chi perde non accetterebbe che il vincitore risponda a quel ruolo di garanzia al di sopra della componente che lo ha fatto vincere, magari di misura. Tuttavia è un po’ ingenuo, per non dire di peggio, sostenere che allora va bene lasciare le cose così come sono, immaginando di avere un Mattarella non solo a vita, ma anche oltre essa.

Il modo di elezione del Capo dello Stato previsto dalla Carta attuale lascia ampio margine alla possibilità di colpi di mano. È già stato qualche volta così (l’elezione di Antonio Segni, per dire), diventerà più facile in futuro con una assemblea nazionale formata da un numero ridotto di membri per il taglio dei parlamentari e ridimensionata anche come rappresentanti delle regioni. Se si vuole giustamente rafforzare il ruolo di garante degli equilibri di sistema costituzionale e di rappresentante del comune sentire nazionale, bisognerebbe studiare un sistema di designazione dell’inquilino del Quirinale che sia meno soggetto al politicismo del sistema attuale e non cada nella radicalizzazione populista dell’elezione diretta a scrutinio popolare.

Secondo punto estremamente delicato: il rafforzamento della posizione del presidente del Consiglio che andrebbe trasformato in un vero “premier”. La premessa importante è considerare se sia opportuno che il premier possa essere “sfiduciato” senza che questo implichi necessariamente un ricorso a nuove elezioni. Poiché i risultati delle urne non sempre scaturiscono da una consapevolezza di medio periodo presente nel corpo elettorale, è ragionevole che ci sia la possibilità nel corso di una legislatura di adeguare la figura del premier ai mutamenti che si sono manifestati. Ciò è piuttosto difficile con una elezione diretta del capo del governo, la cui caduta implica un nuovo ricorso alle urne. In situazioni instabili può creare continui scioglimenti e soluzioni sempre precarie (vedi Israele, per dire).

Altra cosa è impedire giochetti di minoranze parlamentari che trovano conveniente spostarsi di qui e di là, ma questo si può agevolmente contrastare con il meccanismo della sfiducia costruttiva, che obbliga a trovare il ricambio prima di licenziare il premier in carica. È ragionevole rinforzare la posizione del premier rendendolo direttamente e personalmente destinatario della fiducia parlamentare e di conseguenza dandogli il potere diretto non solo di nomina, ma di licenziamento dei suoi ministri (non sarebbe male che comunque la nomina di un ministro implicasse un esame del designato da parte del parlamento, per rendere pubblica la sua adeguatezza al ruolo che gli viene assegnato).

Non è qui possibile entrare in ulteriori dettagli su questo punto. Ci preme invece segnalare altre questioni importanti. C’è sicuramente il tema della razionalizzazione del nostro bicameralismo, che si coniuga col tema del sistema delle regioni che non può essere ridotto al disegno di creare tante repubblichette. In parallelo c’è la questione di una riforma del sistema elettorale che va ricondotto ad essere uno strumento per organizzare e canalizzare la pubblica opinione togliendolo da quel meccanismo delle lotterie politiche in mano ai partiti, ma talora anche a gruppetti, a cui è stato ridotto dalle ultime riforme.

Se poi si vorrà affrontare questa volta seriamente la prospettiva di una razionalizzazione di alcuni passaggi della seconda parte della nostra Carta (perché di questo si tratta: nessuno pensi di rivedere l’impianto profondo della prima) andrà investito un grande sforzo in una preparazione dell’opinione pubblica al quadro che si intende realizzare. Il grande errore è stato non averlo mai veramente fatto, pensando di cavarsela con qualche slogan che avrebbe infiammato il popolo (questo fu il grande errore di Renzi, che non capì che il meccanismo oltre che nelle sue mani stava benissimo in quelle dei suoi avversari). Questa volta si dovrebbe fare diversamente, anche se col sistema mediatico che ci troviamo davanti la vediamo veramente dura. Purtroppo si preferisce organizzare zuffe in nome di alti principi che tali non sono, perché nascondono strumentalizzazioni a fini di modesta lotta politica.

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Wed, 10 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[I monsignori di Voltaire]]> Dopo la fine del partito unico dei cattolici è finita anche la loro presenza politica o rimane qualcosa di quei principi, di quei programmi, di quei valori che avevano ispirato tanta parte della storia recente di questo Paese?

E dopo il tramonto del collateralismo con le associazioni, con i cenacoli culturali, con il mondo del volontariato, con lo stesso sindacato, dove può trovare spazio e collocazione – se mai esiste ancora – una dottrina sociale ispirata ai principi della giustizia e della carità, dell’equità e dell’etica dei comportamenti? Non disponiamo oggi di un Codice di Camaldoli in versione 2.0, mancano menti illuminate, penne raffinate e visioni lungimiranti.

Ma non per questo si deve giocare al ribasso.

Dal cattolicesimo popolare possono emergere idee e luci per rischiarare i troppi coni d’ombra del presente.  A guardarsi in giro è difficoltoso distinguere, anche stropicciandosi gli occhi: retaggi, rimpianti, ricordi danno sostanza ad uno sparigliamento che assomiglia più al limbo dell’indeterminato di quanto non rendano l’idea di una compattezza nobilitata da connotazioni qualificanti.

E serve ancora a questa Italia del terzo millennio che i cattolici si rimbocchino le maniche e si diano da fare per partecipare con fattivo e concreto contributo a definire e magari guidare ancora un modello di società, a traghettare il salvabile di una stagione finita e lontana – ma che non merita di essere demonizzata – oltre le secche di una palude, come quella attuale, affidata più alle cronache spicciole di giornata, agli aneddoti pruriginosi, alle squallide diatribe di palazzo e agli inciuci tipici del peggiore trasformismo nazional-popolare?

Destra e sinistra – a un tempo alibi e miti di un bipolarismo sui generis, più preoccupato di rivendicare il principio di alternanza che di sostanziarne le idee – hanno diviso e separato i cattolici in nome di ragioni diverse, che gli apparentamenti politici con gli alleati di coalizione hanno poi reso sovente inconciliabili con le origini. La polarizzazione è sovente una forzatura del buon senso e dei sentimenti popolari, piuttosto che una presumibile strategia vincente.

Possiamo dire che molta parte dei cattolici oggi impegnati in politica hanno svenduto a buon mercato le loro idee? A conti fatti sì, possiamo dirlo.

Se n’è accorta da tempo anche la Chiesa, suo malgrado accomodante verso certi adattamenti al nuovo che avanza e attenta a non mischiare fede e ragion di stato in nome di una laicità che è patrimonio culturale condiviso.
Ma non è venuta meno la Chiesa: hanno mancato, arrabattandosi di qua e di là con disinvolte capriole, coloro che – dopo lo sconquasso degli anni novanta, si sono arrogati il compito di traghettare principi e valori, mostrandone spesso il lato peggiore.

Eppure questioni aperte ce ne sono e il contributo del cattolicesimo sociale potrebbe essere determinante: l’etica in politica, innanzitutto, la famosa e ormai retorica ‘questione morale’, la tutela della famiglia, la vivibilità dei contesti urbani, i flussi migratori, le difficoltà del vivere sociale con le nuove forme di povertà, il problema del lavoro e della casa, i sani principi educativi, la nobilitazione del merito, la dignità della giustizia, il dovere della carità, la difesa della vita.

Spiace, turba, confligge pensare e vedere che molti sedicenti cattolici si impegnano con più fervore su altri campi, se n’è accorta anche la CEI che ha posto il problema di una nuova classe politica dove l’impegno civile e sociale del cristianesimo trovi una concreta collocazione.

I tempi si fanno bui, troppo di quello che ci compete risulta disinvoltamente possibile, aggiustabile, riciclabile: una concezione machiavellica del potere dove la preoccupazione principale è di trovare spazio per succedere a se stessi.

Anche alla politica si potrebbe dunque chieder conto di ciò che qualifica una presenza personale ispirata ai valori del cattolicesimo: vedo molte genuflessioni ma poca coerenza di vita.

A chi fa politica e professione di fede va chiesto se – oltre il presenzialismo datato, agli assetti di potere, alle alleanze a quadratura variabile – sussista un problema di unità di principi e di valori che prescinda dagli schieramenti, se non sia quella la discriminante che conta, più dello stare da una parte o dall’altra, più dello schierarsi a tutti i costi.

Magari ponendo anche qualche interrogativo sui tempi utili per passare ad altri il testimone della rappresentanza. Ci sono molti buoni esempi da imitare, in genere silenti e nascosti: sono le persone rette che conquistano la convinta adesione dei cittadini, poiché esprimono coerenza tra idee e azioni. Ma ci sono anche molti “dottor sottile”, depositari autoreferenziali di una eredità culturale, che cercano cavilli, puntualizzano, si compiacciono di elaborazioni semantiche sempre più ardite. Costoro mi ricordano i monsignori presi di mira da Voltaire: persone molto più impegnate a gareggiare nel distinguersi tra di loro che nell’assomigliare a Cristo.

E questa metafora valga anche in senso laico, per chi si atteggia ad essere l’ultimo defensor fidei.

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Sat, 06 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[I problemi oltre la propaganda]]> Il primo maggio è stata una ulteriore occasione per polemiche di maniera: c’era da aspettarselo, ma non è un bel vedere. Giorgia Meloni ha convocato un Consiglio dei ministri in quella data per mostrare che i politici lavorano e si occupano dei lavoratori. Le opposizioni hanno invocato l’offesa alla data sacra e la premier si è impelagata nello scontro di battute su chi lavora il giorno della festa a dispetto di tutte le sacralizzazioni. Sceneggiate che distraggono dai contenuti di quanto sta succedendo.

Punto primo: il governo di destra-centro vuol dimostrare che è intenzionato ad occuparsi dell’emergenza lavoro. Non è strano, visto che una parte non piccola dei suoi elettori provengono dai ceti operai e impiegatizi a basso reddito, ma non combacia con l’immagine di una destra che è contro la classe operaia, per cui la sinistra si butta a dire che è tutta propaganda perché in realtà le misure del governo allargano la sfera della precarietà.

Punto secondo: il governo convoca i sindacati la sera prima di varare i provvedimenti e questo viene presentato come un atto di arroganza perché alle rappresentanze del mondo del lavoro ci si limita a comunicare qualcosa di già deciso.

Punto terzo: una analisi un po’ ravvicinata della “filosofia” degli interventi non sembra interessare quasi a nessuno.

Ma vediamo di scavare un po’ in questi terreni, visto che a noi non interessa correre a sventolare qualcuna delle bandierine che vengono distribuite. Il primo punto è interessante, perché indubbiamente si colloca a cavallo fra un tradizionale appello al populismo e un ipotetico passo verso un blocco conservatore di tipo classico. Qualcuno ricorderà che i conservatori sono riusciti ad imporsi, emblematico caso la storia politica inglese (prima della Brexit), quando hanno saputo inglobare una componente di sensibilità sociale e questa oggi passa per una battaglia per l’incremento dei redditi disponibili per le classi meno fortunate. Come sa chiunque si sia occupato di queste cose, si tratta non solo di fare una cosa “giusta” verso i lavoratori, ma anche di rendere disponibili risorse che poi verranno spese e che così favoriranno l’economia, inclusi i guadagni dei “padroni”. Ovvio che si possono annunciare e progettare misure che sono solo fumo negli occhi, ma si tratterebbe di bugie con le gambe corte. La sinistra dovrebbe ricordare quando fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta per negare che ci fosse un progresso economico generalizzato si inventò la teoria della “bolla neocapitalista” che sarebbe scoppiata e non gli andò affatto bene.

Veniamo alla questione della convocazione in extremis delle sigle sindacali. Questa mossa contiene due messaggi. Il primo è che l’attuale governo non intende appiattirsi sulla passata logica della “concertazione” con le grandi sigle (tirandosi dietro un bel po’ di concessioni anche a quelle minori), perché non vuol fare questo “regalo” alla sinistra, vista la posizione della CGIL di Landini che si tira dietro la UIL (la CISL si è sganciata da questa ottica). Con ciò però non chiude la porta al confronto, perché, come è stato fatto notare nell’incontro, si tratta di interventi che dovranno passare per un iter parlamentare e dunque ci saranno mesi per negoziare interventi e modifiche. Lo si è sempre fatto, vista anche l’attuale situazione con la riduzione del numero dei parlamentari sarà ancora più opportuno farlo. Dunque si può ancora negoziare, ma il governo non intende concedere poteri assoluti di veto ai sindacati, che fra il resto non è che abbiano più questa presa granitica sul complesso della classe lavoratrice.

E veniamo così alla questione della “filosofia” che sembra animare la strategia della parte più avvertita del governo. Si tratta di contenere un certo clima di sfiducia verso il nostro futuro in un momento in cui l’economia non va male, anche se non si può dire che non ci siano corposi problemi. Questo porta allo scontro con quelle opposizioni che rimangono invece ancorate alla retorica catastrofista, per cui la destra al potere porta il paese alla rovina, non ne azzecca una, e avanti di questo passo. Ciò impedisce che si entri nel merito delle questioni, il che invece potrebbe davvero mettere in difficoltà l’attuale maggioranza.

Si prenda la questione del reddito di cittadinanza. Il governo lo ha modificato in modo più che contorto per compiacere la sua retorica della lotta a chi voleva starsene sul divano anziché lavorare, ma è una scelta di cattiva ideologia. La soluzione scelta non aiuta né il sostegno alla povertà, né le politiche attive del lavoro, ma non lo ha mai fatto neppure la norma grillina sostenuta a suo tempo prima della Lega e poi dal PD. Un confronto nel merito dovrebbe partire da un onesto riconoscimento che quel che fecero i governi Conte fu un pasticcio, dopo di che si potrà esaminare criticamente le manchevolezze della nuova proposta.

Lo stesso vale per le polemiche sulla “precarizzazione”. In un momento in cui c’è necessità di attivare occasioni di lavoro bisognerebbe avere fiducia che attraverso sistemi di impiego più flessibili si creano comunque delle opportunità per fare un minimo di curriculum e anche in alcuni settori per segnalarsi ai datori di lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato. Che ci siano dei rischi se si opera in quest’ottica non va negato, a patto che realisticamente ci si ricordi dei rischi già presenti in un mercato del lavoro che ha trovato molti modi per sfruttare quel precariato che si ritiene di avere vietato.

Sarebbe dunque tempo di superare le polemiche sulle sceneggiate e di affrontare con coraggio il confronto sui temi. I più scafati osservatori ci spiegano che le sceneggiate vengono fatte per guadagnarsi un po’ di audience, mentre poi nel retropalco della politica si negozia e ci si confronta più di quello che si creda. Ci permettiamo di obiettare che il mix di queste due componenti da pessimi risultati: incita il radicalismo delle minoranze e sposta i negoziati del retropalco a scambi di favori spesso piuttosto poco commendevoli.

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Wed, 03 May 2023 00:01:00 +0200
<![CDATA[La riforma elettorale tedesca]]> Il Bundestag conta attualmente 736 deputati, il numero più alto nella storia del paese. Inizialmente fissato a 402 seggi e poi salito fino a 598 nel 2002, in realtà il numero dei seggi è sempre variato in funzione dei meccanismi della legge elettorale. Il sistema elettorale - introdotto nel 1949, modificato nel 1953 e poi soggetto a piccole modifiche - prevede che ogni elettore assegni due voti: dal 2002, con il primo, vengono scelti 299 candidati di collegio applicando il maggioritario semplice, con il secondo si partecipa alla distribuzione proporzionale di tutti i 598 seggi a condizione di superare la soglia del 5% o di avere conquistato almeno tre mandati diretti con il primo voto. Tuttavia, fino al 2009, nel caso che il numero dei seggi di collegio fosse stato superiore ai seggi attribuiti con il proporzionale, questi seggi sarebbero stati assegnati come mandati in eccedenza (Überhangmandate). Se tra il 1949 e il 1987 l’impatto della misura era stato limitato con un massimo di 5 mandati attribuiti nel 1961, con l’aumento del numero dei partiti e la diversificazione del voto, la quota di questi mandati era successivamente cresciuta arrivando a 24 nel 2009.

Nel 2008 e nel 2012 la Corte costituzionale di Karlsruhe si espresse in difesa del mantenimento della proporzionalità fissata dal secondo voto e di conseguenza, il legislatore introdusse i cosiddetti mandati compensativi, al fine di mantenere intatto l’equilibrio proporzionale. Il risultato è stata una crescita complessiva del numero dei parlamentari: 631 nel 2013, 709 nel 2017 e 736 nel 2021.

Questa crescita ha convinto i partiti a cercare di ridurre il numero dei parlamentari. La richiesta è giustificata non tanto e non solo come riduzione dei costi, quanto come un modo per evitare che un numero troppo elevato di deputati possa ostacolare l’esercizio delle loro funzioni nelle discussioni plenarie o nel lavoro nelle commissioni. Per queste ragioni il 17 marzo 2023 il Bundestag ha approvato la legge proposta dai partiti di governo. La legge fissa il numero dei parlamentari a 630, abolisce i mandati supplementari e compensativi, assegna al secondo voto il primato nella distribuzione dei seggi e abolisce la possibilità di accedere alla distribuzione proporzionale dei seggi con soli tre mandati diretti. Ciò significa che, senza raggiungere la soglia del 5%, i partiti maggioritari nei collegi non otterrebbero nessun seggio. Attualmente la Linke (4,9%) è presente in parlamento, grazie ai tre mandati, con 36 deputati; con la nuova legge resterebbe fuori dal Bundestag.  Anche l’Unione Cristiano sociale (CSU), presente solo in Baviera, se scendesse al di sotto l’attuale 5,2%, resterebbe fuori, nonostante nel 2021 sia stata maggioritaria in 45 dei 46 collegi del Land. Per questa ragione la riforma è stata accompagnata da una vivace e a tratti aspra discussione, mentre, dopo il voto, CSU e Linke hanno manifestato l’intenzione di presentare un ricorso presso la Corte costituzionale.

Al di là di ciò che deciderà la corte, non si può negare che la legge presenti delle criticità politiche. Nella sua forma attuale essa rende marginale per i partiti il ruolo del primo voto (voto di collegio) che serve solo per assegnare i seggi decisi dal secondo voto (proporzionale). Ma il problema politico più rilevante sembra essere l’impatto sulla rappresentatività, se dovesse tenere fuori dal prossimo parlamento quasi il 10% dell'elettorato con una buona rappresentanza di collegio in alcune aree del paese: la Baviera per la CSU e l’est per la Linke. Il sistema proporzionale nacque per garantire la rappresentatività e le soglie di sbarramento vennero concepite per evitare il rischio dell’eccessiva frammentazione politica. Sotto questo profilo, forse, la legge nell’attuale formulazione potrebbe non essere in conflitto con la costituzione, ma proprio perché- sia pure come effetto collaterale - rischia di lasciare fuori dal parlamento partiti con un indubbio radicamento nella società, sembra porsi in contrasto con lo spirito del sistema proporzionale.

 

 

 

 

* Ordinario di Storia contemporanea – Università di Bologna

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Wed, 03 May 2023 00:01:00 +0200