Ultimo Aggiornamento:
27 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Insensibilità UE?

Paolo Pombeni - 24.06.2014
Junker e Schultz

Anche chi è da tempo un europeista convinto non può fare a meno di interrogarsi sulla insensibilità dei governi dei paesi membri dell’Unione, ma anche dei gruppi dirigenti del Parlamento Europeo circa la attuale situazione di “consenso” che incontra la gigantesca macchina istituzionale che presiedono. I numeri sono impietosi: scarsa partecipazione elettorale, crollo continua della fiducia alla UE nei sondaggi di Eurobarometro (sondaggi significativi, perché certo non provengono da un istituto di rilevamenti pregiudizialmente contrario a quel che passa a Bruxelles).

A fronte di questa caduta di identificazione dei cittadini dei 27 paesi membri nel progetto europeo non si assiste ad alcuna controffensiva. Al contrario governi e vertici dei grandi partiti rappresentati all’europarlamento sembrano interessati solo a modeste strategie di spartizione consociativa delle cariche più significative.

Ora chi ha un approccio realista alla politica può ben capire che non sia possibile immaginarsi una governance che non tenga conto di equilibri fra i paesi che compongono la UE, così come è scontato un certo “nazionalismo” nei capi di governo, ciascuno dei quali non vuol vedere diminuito il proprio spazio di intervento. Oltre che dalla psicologia, la situazione dipende anche dalla crisi del principio stesso che sembra avere retto la politica dell’Unione sino a non molto tempo fa: allargare i poteri di intervento “sovranazionali” per riuscire a far passare qualche normativa senza pagare dazio alle rispettive opinioni pubbliche (il famoso: “ce lo chiede l’Europa”), a cui si è associata la resa all’allargamento formale dei poteri del parlamento di Bruxelles-Strasburgo, per ovviare all’obiezione che la UE non avesse un sistema rappresentativo-democratico in grado di superare il potere legittimato dei parlamenti nazionali (una obiezione che la Corte Costituzionale tedesca ha già avanzato in varie occasioni).

Tuttavia altrettanto realismo richiederebbe la presa in considerazione che un’Unione Europea ridotta sempre più ad una super-struttura che non riesce a legittimarsi tra i suoi cittadini rischia grosso, specialmente in tempi di crisi economica in cui la sirena del “ciascuno per sé e Dio per tutti” torna ad essere attrattiva. Ebbene, sembrerebbe evidente che il primo tentativo di reazione a questa crisi di consenso vada trovato nell’individuazione di personalità con qualche carisma per le cariche di vertice. In un’epoca in cui la personalizzazione della politica la fa da padrona, in cui vince la logica delle “narrazioni” che trascinano le platee politiche, ci si può permettere di candidare per quelle cariche personaggi anche egregi sul piano personale, ma del tutto privi di quelle caratteristiche?

Qui la prima responsabilità non va ai governi, ma ai partiti. La scelta, sin dalla campagna elettorale, del PPE e del PSE di candidare per il vertice della commissione rispettivamente Claude Junker e Martin Schultz a tutto poteva rispondere tranne che a quella logica. L’estrema sinistra proponendo il greco Tsipras è stata l’unica a capire la forza dell’immagine: un giovane greco, espressione del paese che più ha subito la doppia logica perversa della “furbizia nazionale” (elemento che troppo si dimentica a proposito del suo paese) e dell’austerità a prescindere.

I governi poi ci hanno messo del loro, prima provando sottobanco a vedere se si poteva trovare qualche altro candidato, altrettanto opaco, ma maggiormente in grado di rappresentare il loro potere di condizionamento. Poi sembra si siano arresi,anche al prezzo di mettere nei pasticci il britannico Cameron, alla logica dei gruppi dirigenti del vecchio parlamento (perché come sarà in quello eletto ancora nessuno lo sa): Junker al vertice della Commissione, Schultz presidente dell’Assemblea. Presidente dell’Unione al posto di van Rompuy forse una danese, che sarà anche ottima persona, ma delle cui capacità “rappresentative” al momento l’opinione pubblica non sa nulla.

Nel caso di Junker e Schultz non si può neppure dire che si riveleranno d’ora innanzi. E’ successo così con Mario Draghi che si è conquistato dopo la nomina un ruolo veramente “pubblico” al vertice BCE, ruolo non immaginabile al momento in cui venne scelto: ma si trattava di un tecnico sino ad allora estraneo ai “palcoscenici” politici. Dei due sopra ricordati non si può dire altrettanto: entrambi sono nei meandri dei vertici europei da lungo tempo, hanno indubbiamente competenze ed esperienza, ma come capacità “carismatica” (diciamo così per intenderci) non è che ne abbiano mostrata molta. Né nella loro attività passata, né nella recente campagna elettorale, che hanno pure fatto nella rilevante posizione di candidati al vertice.

L’Unione Europea rischia molto in questa nuova legislatura e non solo per la presenza rilevante di forze euroscettiche. Rischia perché è a un bivio: o riesce quanto meno ad avviare un salto di qualità verso una integrazione più ampia, ma al tempo stesso più solidale, o finisce per ridursi ad una modesta conferenza permanente di contrattazione fra stati “sovrani”, con costi esorbitanti per questo modesto orizzonte.