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Il voto dei giovani

Luca Tentoni - 11.03.2017
Voto

Durante la battaglia referendaria del 2016 si è parlato della difformità fra le due Camere; in particolare, si è rilevato che i deputati sono espressione di un corpo elettorale (formato da tutti i maggiorenni) più ampio rispetto a quello per il Senato (costituito, quest’ultimo, dagli italiani che hanno compiuto 25 anni d'età). In più, la distribuzione regionale dei seggi può (trascurando il fenomeno del "voto disgiunto" Camera-Senato, che appare non molto significativo) favorire la divaricazione fra i risultati e i rapporti di forza all'interno dei due rami del Parlamento. Ovviamente, con la campagna tutta concentrata sulla differenziazione del bicameralismo (e sull'Italicum, altro elemento che aumentava la differenza, essendo valido per la sola Camera dei deputati) si è però perso di vista un dato di fondo, che invece sarà fra le "chiavi" più importanti delle prossime elezioni politiche italiane: il fattore generazionale. Si tratta di un fenomeno non solo italiano: in Francia (alla quale si guarda in questo periodo con grande attenzione per i possibili sviluppi dell'elezione presidenziale) un sondaggio Elabe (condotto fra il 30 gennaio e l'8 febbraio 2017) ci spiega che - mentre l'elettorato di Emmanuel Macron è abbastanza omogeneo per classi d'età - le differenze fra voto giovanile si riscontrano soprattutto nel confronto fra Marine Le Pen e François Fillon: quest'ultimo ha solo il 9,2% dei consensi fra gli elettori di età compresa fra 18 e 29 anni e il 7% nella fascia 30-39, mentre arriva al 29,8% fra gli ultrasessantacinquenni; fra chi oggi dichiara di votare alle presidenziali, la candidata Le Pen, invece, ottiene fra il 24,5 e il 29,6% delle preferenze nelle varie classi d'età, ma solo il 14,5% fra gli "over 65". Per un panorama più generale della Francia si può leggere il recentissimo “Les citoyens qui viennent” (Vincent Tiberj, ed. Puf, 2017). Anche in altri paesi assistiamo ad un voto giovanile che tende a differenziarsi rispetto a quello delle fasce più "anziane": in Spagna, il Partito popolare è penalizzato dai neo-elettori, a favore dei partiti "nuovi". In Italia, tutti gli studi elettorali evidenziano un differente orientamento di voto al M5S a seconda delle classi di età. Lo si è constatato anche alle elezioni politiche del 2013. In quella occasione, nonostante i voti validamente espressi alla Camera siano stati 2,75 milioni in più che al Senato, il Pd ha avuto solo (sul territorio nazionale, escluso dunque lo scrutinio "estero") 109mila voti più che a Palazzo Madama (8,64 contro 8,53) e una percentuale più bassa di circa due punti (25,4% Camera, 27,3% Senato). I due "poli" maggiori (Centrosinistra: Pd-Sel-Cd-Svp; Centrodestra: Pdl-Lega-FdI-Destra-Altri) hanno ottenuto complessivamente il 58,67% dei voti a Montecitorio ma il 62,41% a Palazzo Madama. Per contro, il M5S ha avuto 7,38 milioni di voti al Senato (23,6%) a fronte degli 8,7 della Camera (25,5%). Fra le classi d'età più "anziane" il M5S ottiene risultati molto meno buoni che in quelle al di sotto dei 45 anni. C'è dunque, nel nostro paese come in altri, non una frattura, ma una diversa gradazione dell’orientamento del voto giovanile, che in parte non irrilevante può correlarsi al tasso di disoccupazione. Gli indicatori economici e le classi di età si sono rilevati efficaci per spiegare una parte del "no" referendario del 4 dicembre. Secondo le rilevazioni di Quorum per SkyTg24, l’81% degli elettori con meno di 35 anni avrebbe votato “no”, mentre secondo l’Osservatorio elettorale LaPolis il “no” sarebbe stato al 72% nella classe d’età 25-34 e in linea col resto dell’elettorato nella fascia 18-24 (“L’Italia del sì e del no – evoluzione del voto referendario”, di Bordignon-Ceccarini-Diamanti, in “La prova del no”, Rubbettino 2017). Lo stesso Renzi, a suo tempo, disse che il fronte del “sì” aveva perso "fra i giovani e al Sud". In realtà, le percentuali ottenute dal "no" nel Mezzogiorno sono talmente elevate da far pensare ad un fenomeno insieme politico (l'identità di partito; il giudizio sulla riforma; l'avversione verso il governo) ed economico (la crisi) più che demografico: i giovani, infatti, non hanno nell'Italia dei nostri anni il peso numerico che avevano nel 1975, quando la maggiore età si conseguì per la prima volta a 18 anni anzichè a 21 (con riflessi sul voto amministrativo del '75 e politico del '76; su quegli anni si legga “Il voto dei giovani”, di Luciano Radi, 1977). Ad ogni buon conto, giova ricordare quanto è stato descritto da Maraffi, Pedrazzani e Pinto in "Le basi sociali del voto" (nel volume "Voto amaro - disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013", Itanes-Il Mulino, 2013): il voto al M5S passa dal 44,4% della fascia d'età 18-24 al 9,8% di quella "over 75", diminuendo col crescere dell'anzianità generazionale, in modo speculare a quello di Pd e Pdl (si veda anche, di Ilvo Diamanti, "Un salto nel voto", Laterza 2013). La tendenza del 2013 appare confermata dalle rilevazioni campionarie degli ultimi anni. Tuttavia, il "mercato elettorale" dei giovani appare aperto, più sensibile alle tematiche specifiche che interessano quel settore della popolazione (in particolare, l'inserimento nel mondo del lavoro e il precariato), dunque non è ideologicamente schierato, pur se possiede alcune caratteristiche in comune con l'elettorato più anziano. In un'intervista di presentazione del suo libro (ed. Palgrave Macmillan 2016) "Young people’s voting behaviour in Europe" (che però riguarda il periodo 1981-2004), Nicola Maggini ha affermato che "i giovani non votano più in base a identità sociali tradizionali legate alla frattura di classe. Questo fa sì che in realtà i comportamenti di voto dei giovani siano anche meno prevedibili rispetto a quelli delle generazioni più anziane e dei giovani del passato. Questo da una parte apre il mercato elettorale: i partiti, se vogliono vincere le elezioni, dovrebbero quindi puntare soprattutto su questo segmento elettorale che è anche quello più disposto a cambiare le scelte di voto da un’elezione all’altra. Allo stesso tempo però può essere un problema perché aumenta ancora di più, come si sta vedendo negli ultimi anni, la volatilità elettorale". In vista delle prossime elezioni politiche, dunque, il voto dei giovani potrà avere un peso più rilevante della sua consistenza numerica se i rapporti di forza fra i partiti "pro e anti-euro" (per esempio) saranno pressochè pari nelle coorti d'età maggiori. Così, il ramo del Parlamento più "in bilico" e potenzialmente meno governabile potrebbe non essere più il Senato come nel 2006-2008 e dal 2013, ma la Camera dei deputati. Alcuni sondaggi recenti (per esempio l'EMG del 27 febbraio scorso per il Tgla7) attribuiscono infatti a M5S, Lega e FdI un complessivo 46,6% dei voti (equivalenti a 314 seggi): se questo fosse il quadro del prossimo Parlamento, avremmo verosimilmente una maggioranza senatoriale per una "grande coalizione" Pd-Fi-centristi (e parte della sinistra, forse) ma nessuna maggioranza solida a Montecitorio. La "questione giovanile", dunque, potrebbe essere decisiva per l'esito delle “politiche” e per gli equilibri parlamentari futuri. È un tema che non riguarda solo l'aspetto economico ed occupazionale, ma che va affrontato seriamente dai partiti (non solo per interessi elettorali, s'intende).