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17 aprile 2024
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Il Marocco torna a far parte dell’Unione Africana

Miriam Rossi - 08.02.2017
Sahrawi

Decisione storica al 28esimo vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione Africana (UA) che si è tenuto dal 22 al 31 gennaio ad Addis Abeba, in Etiopia. Il Marocco torna ufficialmente a far parte dell’UA dopo ben 33 anni di separazione: era infatti il 1984 quando re Hassan II, padre dell’attuale sovrano del regno alawita, decise di abbandonare il seggio dell’allora Organizzazione dell’Unità Africana in segno di protesta per l’ammissione della Repubblica Democratica Araba Sahrawi (RASD). Secondo Rabat, tale ammissione era in conflitto con il principio di “non interferenza” e di “rispetto dei confini” degli Stati membri, posti a fondamento dell’Organizzazione. Come noto, il riconoscimento di quello che per il Marocco è uno pseudo-Stato appariva inaccettabile politicamente e aveva indotto alla “decisione dolorosa” di lasciare l’Organizzazione: una decisione che voleva esercitare evidenti pressioni internazionali per una scelta di campo nell’annosa questione ma che fu promossa mediaticamente come un atto coscienzioso per “evitare la divisione dell’Africa”. Non sfugge però che solo 20 Paesi dei 54 membri dell’UA riconoscono ancora oggi la RASD, con ambasciate saharawi in Nigeria, Algeria, Sudafrica, Etiopia, Tanzania, Mozambico, Angola, Kenya e Uganda.

A distanza di tre decenni la scelta politica marocchina della “sedia vuota” si è rivelata del tutto inefficace, mancando ancora una presa di posizione dell’attuale Unione Africana dinanzi alla questione saharawi mentre il Paese maghrebino, il solo dell’area a non essere membro dell’UA, sconta una posizione di isolamento scomoda per quella che è la sesta potenza economica del continente africano con forti limitazioni alle proprie potenzialità politiche, economiche e commerciali. Cosa è dunque cambiato negli ultimi mesi e ha consentito al Marocco di diventare il 55° Paese membro dell’organizzazione panafricana? Non è cambiata la posizione del Marocco sul Sahara occidentale, amministrato come una “provincia meridionale” del Paese. Non si è modificata neanche la politica saharawi: con l’elezione lo scorso luglio del sessantaseienne Brahim Ghali al posto dello scomparso Mohamed Abdelaziz, come presidente della Repubblica Democratica Araba Sahrawi e segretario del Fronte Polisario, si è ribadito che “finché il Marocco continuerà a occupare il nostro territorio, l’opzione militare resterà sul tavolo”. Non è mutata neanche la politica delle organizzazioni internazionali, in primis dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che da tempo immemore ribadisce la necessità di dar seguito alla risoluzione del 1991 per la realizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Il Sahara Occidentale resta “l’ultima colonia d’Africa” secondo gli organismi internazionali, e continua così a ricevere sostegno politico e finanziamenti per il mantenimento dei campi profughi ospitati principalmente in Algeria.

Niente però è apparso tanto immobile quando nello scorso vertice di luglio dell’Unione Africana, tenutosi in Ruanda, re Mohamed VI del Marocco aveva chiesto formalmente di riprendere il suo “posto naturale” nell’Organizzazione multilaterale e si era messa in moto la macchina della diplomazia. Supportata dall’allora capo dell’assemblea dell’UA, il presidente del Ciad Idriss Déby, che aveva richiesto di adottare un atteggiamento di “costruttiva neutralità sul Sahara occidentale”, e dalla mozione firmata da ben 28 Paesi dell’Unione (quasi tutti i francofoni più la Somalia, l’Eritrea, la Libia) che chiedeva la sospensione della RASD dalla stessa fino alla definitiva soluzione della questione saharawi in seno all’ONU, la domanda marocchina ha incontrato un ampio supporto, pur non riuscendo a far decretare l’espulsione dei rappresentanti saharawi. A favore della riammissione del Marocco si sono espressi 39 Stati su un totale di 54 aderenti all’UA, superando così la soglia necessaria dei due terzi, mentre hanno avanzato forti riserve Sudafrica, Algeria, Angola e chiaramente Repubblica Araba Saharawi Democratica; proprio la RASD si è però espressa infine in maniera propositiva ricordando che l’accettazione di Rabat dei principi e degli obiettivi dell’UA le impone dei ben precisi impegni all’interno dell’organizzazione intergovernativa.

Se dunque le ambizioni africane del Marocco sono state soddisfatte, Rabat ha scelto di soprassedere sulla presenza contestuale nell’Unione anche dei rappresentanti saharawi, con i propri simboli e rivendicazioni. Tale “neutralità costruttiva” non impone un cambiamento di posizione del Marocco sulla questione dei saharawi ma rappresenta un assai pragmatico tentativo di mediazione tra le parti, che consente al Paese di recuperare potere negoziale con partner stranieri e istituzioni internazionali. Timori non mancano sulla possibilità che tale presenza possa spaccare la platea, già poco solidale, dei Paesi africani riuniti dall’UA. Tuttavia la necessità dell’UA di acquisire maggiore efficienza e autonomia finanziaria (dato che attualmente rimane sovvenzionata per il 70% da donatori stranieri) potrebbe essere soddisfatta in parte proprio dalla liquidità del Marocco, ben favorevole alla creazione di un’area di libero scambio sul continente, all’investimento sui giovani e sui vantaggi demografici del continente, nonché alla necessaria riforma dell’organizzazione panafricana.