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Un difficile autunno

Paolo Pombeni - 25.08.2015
Lampedusa

L’autunno rischia di essere ben più difficile di quello che lasciavano prevedere le baruffe estive interne ai partiti. Certo queste non facilitano il necessario lavoro per far fronte ad un futuro incerto, ma, tutto sommato, non incideranno forse più di tanto. A fronte della nuova piega presa dalla crisi economica dopo la flessione delle borse cinesi, a fronte dell’incrementarsi del fenomeno migratorio con l’apertura di una seconda corsia attraverso i Balcani, cosa volete che importi alla gente se il centro-destra vuole o non vuole fare le primarie, e se il nuovo senato sarà eletto con procedure dirette o di secondo grado?

La politica più ruspante l’ha capito e infatti si concentra su quei problemi, ma naturalmente per le forze che in qualche modo devono farsi carico del governo del paese la faccenda è più complicata.

Il tema di fondo dell’autunno, se nel frattempo non cambia la situazione (possibile, ma improbabile), sarà come fronteggiare le angosce che a vari livelli sono indotte dai due fenomeni che abbiamo richiamato. Si tratterà di angosce con un duplice versante: uno di opinione pubblica ed uno delle classi dirigenti.

La sindrome cinese, come viene disinvoltamente etichettata, è un fenomeno complesso. Non sappiamo in termini di analisi economica come la si possa inquadrare (non è il nostro mestiere e cerchiamo di evitare analisi impressionistiche), ma crediamo di poterlo fare in termini politici. Da questo punto di vista infatti lo scossone che arriva dal combinarsi del rallentamento della crescita a traino cinese e dalle difficoltà che sembrano derivare, paradossalmente, dal calo del prezzo del petrolio, induce i paesi europei ad irrigidire le rispettive politiche economiche. Per il nostro paese potrà significare che in sede europea diminuiscono le chance di avere i famosi allentamenti ai vincoli di bilancio su cui si sono già fatti i conti (è il caso di dire: senza l’oste). In più non è ancora chiaro se questa crisi risulterà favorevole o meno per la nostra industria che esporta, cioè per il solo settore che sino ad oggi ha trainato quel po’ di ripresa economica che abbiamo avuto.

Sul secondo fronte, quello dell’incremento continuo del flusso di profughi, le cose non sono messe bene. Adesso ormai quasi tutti i paesi europei si sono convinti che non si cava niente lasciando le tradizionali frontiere (Italia, Grecia e in misura minore Spagna) a cavarsela col fenomeno, limitandosi ad un po’ di sostegno economico e a qualche intervento umanitario (da scaricare comunque su quelle coste). La marea umana si muove e si muove verso Nord, è fatta di disperati che per di più sono istruiti sufficientemente da poter reclamare diritti e da non accettare qualsiasi soluzione di ripiego.

Come gestire questa massa in movimento non lo si sa bene, così come non è affatto chiaro dove un numero di persone certo non piccolo potrà essere in qualche modo “integrato”. Il numero infatti non è enorme se venisse disperso sull’intero territorio, ma ovviamente non è questo che i migranti vogliono, perché le loro mete sono relativamente limitate, cioè si indirizzano là dove i loro connazionali o comunque le informazioni di cui dispongono li indirizzano come luoghi con buona probabilità di un soddisfacente inserimento economico. Che poi il fatto che questo sia stato possibile per chi è arrivato in passato in un altro contesto e sia assai più problematico oggi, è un dato che non viene percepito.

L’opinione pubblica europea, ma in questo caso parliamo di quella italiana, è inevitabilmente sotto choc di fronte al sommarsi dei due fenomeni, che i media portano all’attenzione generale. La sindrome cinese fa dubitare che possa davvero ripartire l’economia, visto che sinora la ripresa è stata piuttosto modesta, pur in condizioni che sembravano migliori. I flussi crescenti di profughi sembrano un flagello biblico che non si sa come affrontare. A parte la crescita di minoranze razziste che propongono soluzioni inaccettabili, la gran parte dell’opinione pubblica è sgomenta di fronte al dilemma fra il soccorrere povera gente attanagliata dalla miseria (bambini e donne ne forniscono l’immagine evidente) e il sistemare questa gente non si sa dove e non si sa come.

Fra il resto l’impossibilità sostanziale di distinguere fra “richiedenti asilo” e “migranti economici”, perché i confini fra le due specie sono più che sottili, non fa che aumentare queste angosce, non fosse altro perché il “rimpatrio” dei migranti economici oltre ad assumere i caratteri di una deportazione al contrario è difficilissimo da fare, visto che si tratta di soggetti che fuggono da paesi che non hanno nessuna inclinazione a riprenderseli facendosene cura.

L’autunno del sistema politico sarà inevitabilmente caratterizzato dal governo di questo contesto. Da un lato si dovrà lavorare perché quello che una volta si chiamava “lo spirito pubblico” non sfugga di mano diventando un terreno di coltura per l’espandersi dei populismi. Dal lato opposto si dovranno convincere le classi dirigenti di questo paese che si ha in mano il controllo della situazione, sia sul fronte economico che sul fronte sociale, e che le beghe di una classe politica culturalmente vecchia nelle sue impostazioni non sono in grado di fermare un lavoro necessariamente lungo e difficile per governare adeguatamente queste emergenze.