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Piccola e grande politica

Paolo Pombeni - 10.03.2016
Primarie PD Napoli 2016

Curiosa coincidenza: martedì 8 marzo è stato contemporaneamente il giorno dello scandalo delle primarie a Napoli e del bilaterale Hollande-Renzi. Cioè: un caso di piccola e miserabile politica e un caso di almeno tentata grande politica.
La documentazione di una gestione delle primarie nella città partenopea non esattamente al di sopra di ogni sospetto è un episodio brutto, reso ancor peggiore da una reazione dei vertici PD non all’altezza della situazione. Che in un contesto come quello napoletano il ricorso ad uno strumento delicato e poco strutturato come sono le primarie potesse dare luogo a pasticci tutto poteva essere tranne che un evento inaspettato. Non c’era ragione per pensare che il costume degradato che si era avuto nell’occasione precedente svanisse per effetto di magia, soprattutto quando c’era in campo una sfida molto difficile fra un personaggio con una robusta storia alle spalle e il candidato di un apparato di partito che voleva riprendersi il campo di gioco.
Ciò che in questo caso è inaccettabile è che i vertici del partito nazionale se la cavino minimizzando, timorosi di dare spazio alle opposizioni interne. Invece è proprio comportandosi così che le rafforzano e che legittimano quello scollamento con una parte del loro elettorato la cui esistenza non è una invenzione della sinistra dem (che si limita ad enfatizzarlo). Sarebbe stato molto più serio un intervento radicale dal centro con una severa inchiesta rapida e la radiazione immediata di quei membri del partito colti con le mani nella marmellata. Certo c’è la maledizione delle “primarie di coalizione” che sono, nella maggioranza dei casi, la scusa per denunciare che come si fa a controllare la congerie di partitini e listine che si aggregano e attraverso cui può passare di tutto. Sarebbe però il caso di riflettere sull’utilità di questa formula che, speriamolo, con l’Italicum non dovrebbe più essere necessaria.
Il rammarico è che questi pasticci impediscono la valorizzazione di risultati positivi che il governo sta ottenendo su scenari ben più importanti. Sia con il vertice di Bruxelles in cui Renzi ha ritrovato una intesa con la Merkel, sia con il bilaterale di Venezia in cui ha potuto confrontarsi con Hollande su un tema delicatissimo come la Libia, il premier ha riguadagnato un ruolo europeo (e di conseguenza internazionale) che si era appannato per il contenzioso con le burocrazie di Bruxelles.
Non che quello scontro sia chiuso per sempre. Le burocrazie sono forze resistenti, perché possono lavorare al riparo di una loro presunta apoliticità, ma quelle della UE non possono prescindere del tutto da equilibri politici che si instaurano fra i capi di stato dei paesi membri. Oggi quegli equilibri sono più che ballerini, come ha dimostrato una volta di più il vertice con la Turchia. Una commissione che si presenti come il cane da guardia dell’ortodossia vetero-comunitaria è poco plausibile visto che non riesce ad imporsi sulle pretese nazionalistiche di nessuno dei membri, siano il “grande” Regno Unito o la “piccola” Austria.
Ciò significa che ben al di là del rispetto di qualche “parametro”, il tema di fondo è ricostruire nella UE un asse di governabilità che consenta il dispiegamento di una qualche “forza” nei passaggi difficili che ci troviamo davanti: dal governo dei flussi migratori al contenimento dell’avanzata mediterranea dell’Isis. In questo quadro Renzi ha ritrovato spazio di manovra e ne sta approfittando con abilità, mostrandosi un leader responsabile e poco incline agli avventurismi (il che non era scontato visto il personaggio pubblico che si era costruito).
Aggiungiamoci che il premier con Hollande ha avviato un’altra cooperazione ambiziosa: quello di tentare una rifondazione della sinistra europea all’altezza del XXI secolo. Naturalmente non sappiamo se sia un’operazione pensata e strutturata o l’ennesima sceneggiata tipo quella conclusasi senza gloria del “Ulivo universale” di Clinton, Blair, D’Alema e compagnia. Potrebbe però anche essere un passaggio che, se opportunamente gestito, sarà in grado di produrre un frutto di cui c’è davvero bisogno: una ridefinizione di ciò che si può definire una politica di progresso e di riforma sociale nel nuovo contesto della globalizzazione.
Per non perdere i risultati che ha acquisito e che può ancora acquisire sul fronte della grande politica, Renzi non deve commettere l’errore di credere che quella piccola all’interno del suo paese abbia scarsa importanza. Non per fare i Salvemini in sedicesimo e in ritardo di un secolo, ma vale la pena di far presente al premier che la politica di Giolitti di far le riforme garantendosi il voto del Meridione con i famosi “mazzieri”, cioè fidandosi delle rappresentanze parlamentari che si potevano cavare dalle manipolazioni elettorali al Sud, non ha portato a grandi esiti. I consensi raccattati con quelle metodologie durano fin che si rimane in sella e fin che si può lasciare la briglia lunga agli interessi che esprimono. Poi passano di campo con la stessa facilità con cui sono transitati nel campo dell’attuale vincitore.