Ultimo Aggiornamento:
15 maggio 2024
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Perché le imprese pubbliche devono uscire dalla Confindustria

Stefano Zan * - 16.10.2014
Sede nazionale della Confindustria

Le imprese pubbliche che, stando a fonti giornalistiche, versano ogni anno alla Confindustria circa 25 milioni di euro, devono uscire da questa associazione per almeno quattro ragioni.

La prima è che le imprese pubbliche sono imprese dello Stato, cioè di tuti i cittadini e non si capisce perché i cittadini, per altro del tutto inconsapevoli, debbano finanziare un’associazione privata. Magari questi cittadini sono imprenditori iscritti ad altre associazioni oppure lavoratori dipendenti, iscritti al sindacato, che da anni finanziano, senza saperlo, un’associazione che è concorrente o controparte. Dal momento che, da che mondo è mondo, nel nostro ordinamento l’adesione ad una qualsiasi associazione è volontaria e libera andrebbe quanto meno chiesto loro se vogliono finanziare la Confindustria. E’ facile presumere che non tutti sarebbero d’accordo. D’altra parte non si capisce perché se i trattati europei proibiscono gli aiuti di Stato alle imprese sia invece lecito dare contributi di Stato ad una (sola) associazione imprenditoriale. Oltretutto in una fase di spending review in cui si mette un tetto agli stipendi dei manager risulta ancora più incomprensibile perché le imprese pubbliche debbano finanziare un’associazione privata.

L’ipotesi avanzata da alcuni che questi contributi servano a dare rappresentanza, in termini in particolare di lobby e contrattazione, alle imprese pubbliche tramite la Confindustria non sta in piedi. Infatti, seconda ragione, è ridicolo pensare che presidenti e amministratori delegati nominati direttamente dal governo abbiano bisogno di attori terzi, di intermediari associativi, per parlare con il governo stesso. Anche sul piano contrattuale, terza ragione, considerando le particolarità settoriali e dimensionali delle principali imprese pubbliche (Enel, Eni, Ferrovie, Poste, ecc.) sembra molto più ragionevole pensare ad accordi aziendali (che tra l’altro avrebbero comunque una valenza nazionale) che colgano la specificità di queste imprese e non “inquinino” le relazioni industriali di tutte le altre imprese del settore che pubbliche non sono.

La quarta e ultima ragione è forse la più importante. La presenza delle imprese pubbliche in Confindustria contribuisce a snaturare la rappresentanza delle imprese di mercato e, soprattutto delle piccole e medie imprese. Se si pensa che l’85% delle imprese iscritte a Confindustria ha meno di cinquanta dipendenti mentre la narrazione che Confindustria fa di se stessa punta sempre ad esprimere interessi e posizioni delle grandi imprese manifatturiere si ha immediatamente il quadro di una scarsissima chiarezza identitaria. Non solo l’85% delle imprese ha meno di cinquanta dipendenti ma molte delle imprese che aderiscono non sono manifatturiere. Il problema non è solo di narrazione. Il problema è che l’ideologia confindustriale maschera una rappresentanza degli interessi che privilegia clamorosamente quello delle grandi imprese manifatturiere. Politiche pubbliche, contratti, finanziamenti, credito, sicurezza, ecc. sono pensate e realizzate, anche con la complicità dei sindacati, con riferimento primario a questa tipologia di imprese e solo in un secondo tempo adattate alla specificità delle piccole e medie. Non è un caso che le piccole imprese di Confindustria, per altro maggioritarie come numero (ma anche consistenti come aggregato di addetti) siano relegate ad un “comitato della piccola industria” che esprime un solo vicepresidente ed ha una rappresentanza minoritaria in giunta. Sono anni che tutti gli osservatori sostengono che le PMI nel nostro paese sono “un gigante economico ma un nano politico”. Bene. Una delle ragioni, anche se non la sola, è il ruolo del tutto marginale loro riservato in Confindustria rispetto alle grandi imprese pubbliche e private. L’uscita dalla Confindustria delle imprese pubbliche, giustificata anche dalle tre prime ragioni sopra esposte, favorirebbe certamente un riequilibrio della rappresentanza imprenditoriale che riguarda non solo e non tanto la vita interna di questa associazione ma una rappresentanza e una rappresentazione più fedele ed accurata dell’economia reale. Anche la cattiva rappresentanza, intendendo per cattiva quella rappresentanza che giocando sull’ideologia nasconde i reali interessi delle diverse tipologie di imprese, contribuisce a comporre quella palude da cui il paese sta faticosamente cercando di uscire.

 

 

 

* Docente universitario di Teoria delle organizzazioni