Ultimo Aggiornamento:
27 aprile 2024
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Merito e mobilità sociale. Perché la scuola non deve dimenticare l’articolo 34 della Costituzione

Gian Luca Galletti * - 07.02.2024
Scuola di tutti

Di promozione del merito il nostro Paese ha un bisogno primario, in tutti gli ambiti, ma la sfida si affronta a partire dalla scuola. Eppure, troppo spesso il merito suona come una parolaccia elitista, o tutt’al più come una parola di destra, mentre dovrebbe essere un vocabolo chiave della vita civile, dell’ordinamento democratico. Per questo, ho apprezzato molto l’intervento di Francesco Provinciali. Abbiamo vissuto finora in un clima culturale che ha confuso merito e meritocrazia (leggi “dittatura del merito”). Promuovere il merito non significa lasciare indietro coloro che si trovano in condizione di minorità (minor preparazione, minor abilità), ma dare opportunità di crescere e buone motivazioni per impegnarsi a chi ha voglia di farlo. La rinuncia della scuola a premiare porta a esiti disfunzionali, sia dal punto di vista della valorizzazione delle capacità, sia dal punto di vista dell’equa distribuzione delle opportunità. Come scrive Provinciali, il merito “non è solo dote intellettuale, ma riguarda anche l’impegno, l’applicazione, il sacrificio per conseguire competenze”. È un prodotto alchemico, il merito, di cui è difficile separare le componenti. Quando le madri e i padri costituenti pensarono all’articolo 34 della Costituzione avevano in mente obiettivi di mobilità sociale, una norma che facesse giustizia ai “capaci e ai meritevoli”, a svantaggio dei figli del privilegio. Vero è che gli appartenenti a classi sociali agiate si trovano a disposizione per nascita risorse maggiori per eccellere, ma come si possono rendere contendibili le posizioni più ambite se non fornendo a coloro che vogliono impegnarsi la possibilità di venire valorizzati, gli strumenti per competere con i più dotati per nascita? La scuola del merito ha il compito di fornire questi strumenti. La fuga dei cervelli si spiega anche così: ragazze e ragazzi che non vedono riconosciuto il proprio merito in patria scoprono ottime ragioni per andare altrove. A rimetterci è il Paese. Dovremmo chiederci: se la società non distribuisce occasioni sulla base del merito individuale a partire dalla scuola, come verranno distribuite tali occasioni? Non restano altri criteri che le diverse forme di privilegio. La famiglia, le conoscenze personali, i “giri” informali che troppo contano nei percorsi di carriera individuali.

Ecco perché osteggiare il merito ci porta a esiti di estremo conservatorismo, attraverso i quali si finisce non solo per sottrarre opportunità a chi ne avrebbe il diritto, ma anche per ingessare la società, limitarne le potenzialità di sviluppo. Dovremmo per questo disinteressarci di coloro che per le ragioni più varie si trovano in difficoltà nel percorso scolastico? Certo che no. L’articolo 3 della Costituzione incarica la Repubblica di rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona. Ma questo non vuol dire che davanti alle difficoltà a scuola la soluzione sia abbassare gli standard di preparazione. Davanti alle difficoltà dobbiamo moltiplicare gli sforzi e gli investimenti. Non c’è nessun aut aut tra scuola che premia il merito e scuola capace di includere e farsi carico delle fragilità. C’è invece un’alternativa necessaria tra la rinuncia a valorizzare i meritevoli e la scelta di distribuire opportunità di mobilità sociale. Da rappresentante del mondo dell’impresa immagino i riflessi immediati nei contesti aziendali. Una scuola che riconosce il talento fa emergere personalità più motivate, consapevoli del proprio talento e capaci di riconoscere il talento altrui. Nuova classe dirigente, migliore di quella precedente, spesso mal selezionata, con criteri che troppo spesso hanno finito per ricalcare diseguaglianze conclamate. Ma non è solo questione di imprese. Calamandrei portava molto oltre il pensiero, dicendo che la scuola alla lunga è più importante del Parlamento, della magistratura, della Corte costituzionale, perché è a scuola che si pongono le basi per la formazione della classe dirigente. Non è questione di efficienza della produzione, ma di giustizia sociale e in fondo di democrazia.

Perché allora il merito sì e la meritocrazia no? Lo spiega bene il sociologo Luca Ricolfi, nella sua recente pubblicazione, “La rivoluzione del merito”. Con la parola meritocrazia si è inteso un sistema basato su strumenti di misurazione del merito, presuntamente oggettivi, spesso incapaci di cogliere l’essenza della preparazione scolastica e universitaria. Il dispositivo meritocratico tende a trasformarsi in un meccanismo di giustificazione delle diseguaglianze sociali, più utile a mantenere gli assetti esistenti che non a contraddirli, a sottoporli alla tensione competitiva del merito. Se seleziono e distinguo fin dai primi anni di età i “migliori”, sulla base di test oggettivi e solo ai selezionati riservo opportunità di istruzione di qualità, è facile cadere nella trappola meritocratica, che avvantaggia chi ha tutti gli strumenti per eccellere fin da subito. I figli delle famiglie più dotate di risorse economiche e culturali finiranno per aggiudicarsi le occasioni migliori, mentre agli altri passerà presto ogni desiderio di impegnarsi. Una nuova forma di familismo amorale, nulla di più lontano dagli scopi dell’istruzione pubblica. Tutt’altra cosa è la valorizzazione del merito, che non può distaccarsi da un investimento importante nella costruzione di pari opportunità per tutte e tutti.

 

 

 

 

* Presidente della “Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti” (UCID), è stato parlamentare e sottosegretario al Ministero dell’Istruzione e Ministro dell’Ambiente nei governi Renzi e Gentiloni