Ultimo Aggiornamento:
27 aprile 2024
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La crisi della politica politicante

Paolo Pombeni - 28.02.2024
Alessandra Todde

Analizzare il risultato elettorale della Sardegna si presta, come al solito, ad una grande varietà di letture possibili. Certo alla politica politicante interessa, a seconda delle posizioni, celebrare la vittoria, non importa con quali margini, o minimizzare la sconfitta allontanando da sé le responsabilità per il risultato. Noi non facciamo parte di quella confraternita e dunque cerchiamo di leggere i dati con un certo distacco.

La prima cosa da notare è che una metà circa degli elettori non si è recata alle urne, neppure trattandosi del voto per il governo di una regione a statuto speciale (dunque con molto da distribuire a da gestire), e neppure se si è fatto di tutto per trasformare quelle elezioni in un grande confronto para ideologico. Alla politica politicante questo interessa poco (tanto l’astensionismo non viene contato), ma per chi ha a cuore il destino della partecipazione democratica è un dato preoccupante.

Detto questo, la seconda cosa da notare è che i partiti devono stare molto attenti nello scegliere i candidati. Giorgia Meloni ha clamorosamente sbagliato nel puntare sul sindaco di Cagliari Paolo Truzzu che è andato male nella stessa città che amministrava (ed era cosa nota, bastava leggere le classifiche sui sindaci del Sole-24 Ore). Va bene che il candidato che cercava di imporre Salvini era altrettanto debole, ma rimane il fatto che la premier ha una volta di più mostrato come sia sbagliato puntare sui propri “fedeli” anziché allargarsi a considerare persone di qualità. Siccome è un errore che tende a fare spesso, converrebbe che ci ragionasse. È vero che si tratta di una tendenza presente in tutti i partiti, ma quando sei arrivata al governo del Paese col vento favorevole e godi di un buon piazzamento internazionale non te lo puoi proprio permettere.

Il risultato sardo aprirà questioni nella coalizione di destra-centro, perché a livello regionale non c’è quel distacco notevole di FdI da FI e Lega che si registra nei sondaggi nazionali e dunque la leadership di Meloni e del suo cerchio magico deve trovare qualche sostegno maggiore dell’appellarsi alla supremazia di quei numeri peraltro al momento virtuali. Si voterà in molte altre regioni, sia quest’anno (con l’aggiunta di oltre tremila comuni), sia l’anno prossimo: non si governa bene a Roma se si perde in continuazione in periferia, specie in un sistema regionalista come sta diventando quello italiano. E naturalmente vittorie ottenute sul filo di lana, non solo si presteranno a ricorsi in varie sedi (già preannunciati), ma saranno ritenute illegittime dai perdenti (lo fanno anche quando ci sono risultati più netti), ma poco significative dall’opinione pubblica in generale per imporre un governo legittimato oltre la pura legalità dei risultati.

La terza cosa da notare è la situazione tutt’altro che tranquilla nel cosiddetto “campo largo”. La vittoria di misura della Cinque Stelle Alessandra Todde non è detto che sia l’inizio di un consolidamento di quel campo a livello nazionale. Innanzitutto perché è frutto di un accordo di vertice conseguito con una resa della segretaria del PD alla imposizione di una sua candidata da parte di Conte. Si dirà che non si poteva fare altrimenti, ma è quanto meno dubbio. A voler fare i conti solo coi numeri grezzi, quella scelta ha fatto perdere al PD un 8,7% di voti andati a Soru che non si sarebbe sganciato dal suo vecchio partito se ci fossero state le primarie di coalizione, mentre l’apporto di M5S alla coalizione è stato circa del 7,8%. Naturalmente i conti fatti in questa maniera funzionano fino ad un certo punto, perché non è detto che i voti ex grillini sarebbero rimasti tutti ad una coalizione a guida PD se non fosse stato accettato un loro candidato, così come nei voti per Soru ci sono state componenti che non avrebbero votato PD anche se lui fosse rimasto in quel campo. Però qualche pulce nell’orecchio questi dati dovrebbero pure metterla agli strateghi che progettano sulla carta il cosiddetto campo largo a prescindere dai contesti locali.

Non si sa poi se Conte si accontenterà di aver conquistato la guida della Sardegna o se aumenterà i suoi appetiti sull’onda di quello che potrebbe far passare come un suo successo strategico. Il leader pentastellato ha un grosso vantaggio su Elly Schlein: lui è padrone del partito e non si fa problemi a farlo stare eventualmente in posizione esterna alla coalizione attuale, mentre la segretaria del PD deve fare i conti con un partito che contiene una non piccola componente di contrari all’appiattimento su M5S.

Il fatto più rilevante è però, a nostro giudizio, un altro: l’andamento delle elezioni sarde dimostra l’affermarsi di un trend che troviamo preoccupante. Da un lato si cerca disperatamente di rafforzare l’immagine della convenienza per il nostro sistema politico ad avere un bipolarismo in continua, aspra contrapposizione. La radicalizzazione dei messaggi, inevitabile se si punta su quadri che provengono dalle corride in politichese che si sono affermate con la teatralizzazione dei talk show, impone sempre più di privilegiare i pasdaran di partito, sia come candidati che come elettori. A livello di sistema però le coalizioni non sono affatto espressione di una forza coesa che si contrappone ad un’altra organizzata in maniera simile. Al contrario, per vederlo basta analizzare la lista dei risultati dei partiti che in Sardegna hanno sostenuto i due candidati contrapposti: ogni coalizione era composta più o meno di una decina di liste, alcune delle quali raccoglievano al meglio un 3% di consensi e molte anche molto meno. Questo significa frammentazione delle fedeltà, con conseguenti ricatti interni e rischio continuo di tradimenti e di passaggi di campo. Si tenga conto che nelle elezioni sarde entrambi i due partiti maggiori, cioè FdI e PD, sono poco sotto al 14%, non proprio una percentuale da “partito guida”.

Non ci vuol molto ad immaginare come un contesto che al tempo stesso è diviso in due campi che più o meno si equivalgono e frammentato in un alto numero di componenti, molte di esse semplici aggregazioni tipo fazione o tipo lobby corporativa, non possa dare all’Italia quella stabilità necessaria in tempi complicati quali quelli in cui viviamo. È la classica situazione che favorisce il tutti contro tutti senza che si vedano in campo leader capaci di promuovere quel convergere delle forze in un lavoro comune come sarebbe necessario per posizionarsi come paese in maniera adeguata in un quadro interno e internazionale sempre più inquieto.