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La Corte non fa supplenze

Paolo Pombeni - 11.02.2017
Corte Costituzionale

La pronuncia della Corte Costituzionale sul cosiddetto Italicum segna un momento importante anche se non produce il risultato che la classe politica più o meno apertamente si aspettava, né quello che era nelle mire dei vari ricorrenti e delle corti che avevano accolto le loro istanze.

La Consulta infatti si è sottratta alla richiesta che le veniva fatta di stabilire sia che essa era titolata a fare leggi, fosse pure come compito di supplenza in casi eccezionali , sia che la normativa elettorale sarebbe strettamente deducibile da una interpretazione delle norme costituzionali. E’ stato piuttosto affermato che quelle norme contengono due elementi che il legislatore è tenuto a rispettare: 1) la garanzia di alcuni limiti a tutela di valori che la democrazia giudica essenziali; 2) il raggiungimento di obiettivi che la Carta indica necessari per dare vita ad una democrazia compiuta.

Non sono aspetti banali, anche se andranno opportunamente valutati nel dettaglio (cosa che qui non è possibile). Il primo punto che risulta con forza, anche se non si può dire con completa chiarezza, è la tutela del sistema rappresentativo su cui si basa il costituzionalismo moderno. Qui però la Corte lascia capire che non si tratta di fare della rappresentanza un totem giacobino, a pro di chi voglia usarlo come una zeppa da mettere nelle ruote del funzionamento del sistema. Dunque la rappresentanza non si rispetta banalmente con strumenti meccanici per registrare tutte le opinioni e le pulsioni che percorrono il complesso della cittadinanza, per la semplice ragione che in questo caso si finirebbe per non sapere bene cosa si rappresenta. Essa è invece indirizzata a costruire, con inevitabili strumenti di manipolazione benigna, un soggetto specifico, lo si chiami la comunità nazionale, il popolo, o quant’altro. La sentenza non lo dice espressamente, ma lo fa capire quando giudica infondate tutte le contestazioni che vorrebbero impedire in assoluto qualsiasi intervento regolamentativo, e dunque anche parzialmente manipolativo, della raccolta del consenso elettorale.

Ci sono molti passaggi in cui la Corte rimarca come il potere legislativo, che è alla fine l’essenza del sistema rappresentativo, sia senza dubbio titolato a formulare varie soluzioni al problema di come trasformare i voti dei singoli cittadini in un processo che produca davvero “rappresentanza” nel senso che abbiamo evidenziato prima. Per questo la Corte ha inteso che la norma sui capilista bloccati non leda i diritti di scelta dei cittadini, essendo questi garantiti non dal potersi inserire nelle diatribe interne di ciascun partito (questo lo si faccia esigendo che il partito a cui eventualmente si aderisce abbia nel suo autonomo statuto percorsi di scelta democratici), ma dal poter scegliere fra una pluralità di candidati facenti capo a molti partiti, o addirittura scegliendo l’astensione.

Il secondo punto su cui vale la pena di riflettere è il riconoscimento che l’obiettivo del garantire la governabilità ha anch’esso un valore costituzionale. Per la verità basterebbe leggere i dibattiti che su questo tema si svolsero alla Costituente per vedere come ciò fosse ben chiaro sin dal procedimento di stesura della Carta, ma per strada si è persa memoria di quegli eventi. Certo si tratta di un obiettivo che va contemperato con il rapporto che esso deve avere col sistema rappresentativo, perché in questo rapporto sta uno dei cardini dell’equilibrio del costituzionalismo moderno. In questo senso sono da leggersi le considerazioni sul sistema del ballottaggio per l’assegnazione di un premio di maggioranza. La sentenza, dopo aver riconosciuto che con un quorum congruo al primo turno il premio rientra negli strumenti di manipolazione legittima, ha in sostanza detto che il secondo turno di ballottaggio non può essere usato come un grimaldello per forzare surrettiziamente la formazione di una maggioranza che non sarebbe alle viste. Crediamo che i giudici avessero ben presente cosa succede quando in situazioni polarizzate e surriscaldate si fa al braccio di ferro in un ballottaggio fra forze solo relativamente radicate al primo turno e di qui abbiano giustamente fatto notare che questo rischio va evitato con una normativa adeguata.

Altrettanto è avvenuto per quanto riguarda le pluricandidature. In sé non è ovviamente un problema che un candidato decida di puntare per la propria elezione su più sedi, ciò che non è accettabile è che questo si trasformi in uno strumento attraverso cui un candidato con la sua opzione per un collegio sceglie poi lui al posto degli elettori su chi far confluire il loro voto. Conclusione: ci vuole un meccanismo che stabilisca quale dei risultati ottenuti da un candidato sarà quello valido per l’elezione, in modo che non solo il trucchetto di cui sopra sia impossibile, ma che gli stessi elettori siano a conoscenza del rischio a cui è sottoposta la loro scelta.

Rimane da esaminare brevemente la questione della omogeneità fra i sistemi elettorali per la Camera e per il Senato. In verità a noi pare che la sentenza non la imponga, solo la raccomandi caldamente, per il rischio a cui è altrimenti sottoposto il principio costituzionalmente promosso della promozione della governabilità. Qui la Corte è stata in un certo senso perfida, perché ha implicitamente sottolineato che tutto deriva dalla incapacità politica di rivedere quel pasticcio del bicameralismo paritario che ha le sue origini nella stessa dinamica bloccata che vi fu su questo punto in sede di Costituente. Tuttavia per superare quel problema annoso, visto come è andato il referendum, ci vuole una riforma costituzionale che affidi il potere di fiducia ad una sola Camera, con il che il potere della omogeneità dei risultati diverrebbe irrilevante.

Una volta di più, e sul tema più spinoso, la Corte ha fatto capire che se la “rappresentanza” non è in grado di produrre un quadro legislativo adeguato non può pensare di cavarsela ribaltando il problema sua una istituzione di garanzia che rappresentativa non è e non può essere.