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Il made in Italy agroalimentare, l’Onu e il prosciutto San Daniele

- 12.01.2019
Made in Italy agroalimentare

L’impegno della nostra diplomazia è riuscito ad evitare lo stigma dell’Onu che avrebbe potuto mettere in difficoltà i nostri gioielli del settore agroalimentare quali il parmigiano, il prosciutto e perfino l’olio d’oliva.  La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 13 dicembre dello scorso anno non ha infatti dato seguito al suggerimento contenuto nel rapporto sulle malattie non infettive “Time to deliver” della alta commissione della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblicato questa estate, nel quale si invitavano (nel capitolo 4: Collaborare e regolare, paragrafo D) i governi  a limitare la vendita di cibi definiti dannosi perché contenenti eccessive quantità di zuccheri, sodio e grassi saturi. La risoluzione Onu permette al settore agroalimentare di tirare un sospiro di sollievo. Ma non è una vera vittoria. Le raccomandazioni che vengono dalla OMS rimangono. Alcuni paesi le hanno già fatte proprie accompagnando le confezioni dei cibi con indicazioni sul presunto grado di pericolosità alimentare. Altri seguiranno. Si possono sollevare molte critiche contro il rapporto della OMS ma con questo occorre fare i conti. Perché? In molti paesi del globo soprattutto quelli ad alto reddito e propensione a spesa di qualità la coscienza sanitaria-dietetica è sempre più diffusa. L’attenzione alla qualità e ai contenuti nutrizionali dei cibi è molto alta anche perché la fascia di popolazione in età avanzata, sempre più numerosa, è benestante e molto sensibile agli effetti “collaterali” dell’alimentazione. La risoluzione dell’Onu non fa che mettere la sordina ad un organismo le cui raccomandazioni hanno in ogni caso una risonanza globale. Non resta quindi che riconoscere che il nostro settore agroalimentare si trova di fronte ad una nuova sfida non solo sui mercati esteri ma anche in Italia. Arroccarsi e negare le nuove esigenze alimentari significa votarsi alla sconfitta. Ma come difendere le produzioni tipiche italiane in un contesto sempre più attento ai contenuti nutrizionali dei cibi? La risposta ci viene da tanti casi di prodotti di successo da cui trarre utili indicazioni.  Ad esempio, la Coca Cola è oggi disponibile, oltre che nella ricetta classica, in versioni senza zucchero, senza caffeina e in altre declinazioni conformi ai precetti di diverse confessioni. Perché, ad esempio, il nostro Parmigiano e il nostro prosciutto non intraprendono la strada dell’innovazione proponendo ad esempio versioni del formaggio con basso contenuto di sale e di grassi, o varietà di prosciutto conservato con nuove tecniche con poco sale e prodotto da maiali magri rigorosamente Dop? Credo che con adeguati investimenti e fantasia questi traguardi non siano irraggiungibili. In caso di probabile successo si vedrebbe il mercato potenziale allargato a nuovi consumatori che oggi evitano per ragioni dietetiche sia in Italia che all’estero alcuni nostri prodotti tipici. Accanto alle versioni classiche potremmo avere tipologie salutiste con il vantaggio di poterle tutelare con marchi DOP nazionali. Sul fronte delle esportazioni il Bel paese ha sempre guadagnato posizioni quando si è mosso sulla frontiera dell’innovazione. Siamo ad esempio all’avanguardia nell’agroalimentare biologico in cui la sperimentazione di nuove tecniche è continua. Vendiamo all’estero una quota crescente di vino biologico di qualità. Introducendo versione “leggere” e “pulite” sotto il profilo nutrizionale e ambientale delle nostre specialità avremmo una gamma più ampia e differenziata capace di occupare nuove nicchie più remunerative perché popolate da consumatori di fascia alta. Occorre quindi cogliere l’opportunità e lo stimolo ad innovare che ci viene dal rapporto OMS cercando di precedere le mosse di concorrenti stranieri. Se ad esempio i marchi storici del parmigiano o del prosciutto di Parma non si spingono velocemente sulla strada delle versioni salutari lo faranno altri soprattutto all’estero. Finiremmo allora per assistere all’invasione del mercato da parte di prodotti “salutari” non certo Dop e di dubbia qualità, che però sarà difficile scalzare. Insomma se non arriveremo primi a catturare una nuova e crescente domanda i benefici di marchio e di immagine del made in Italy si ridurranno notevolmente in questo settore cruciale per l’economia italiana. Tutto questo però non sarà sufficiente se i consorzi Dop e altri organismi di promozione non manterranno un rigido controllo della qualità dei prodotti tutelati. La crisi del maggiore produttore di prosciutti San Daniele scoppiata in questi giorni in Friuli è legata certamente alla malagestione dell’azienda colpita ma anche allo scandalo di oltre 200000 prosciutti venduti con marchio San Daniele prodotti con suini non italiani dell’estate scorsa, di cui scrissi su queste pagine https://www.mentepolitica.it/articolo/ceta-nuove-ragioni-per-ratificare/1458 .  Questo ennesimo scandalo ha visto il coinvolgimento di decine di produttori piccoli e grandi. Dimostra che il settore agroalimentare italiano, spesso incline a denunciare scarse tutele del made in Italy sui mercati esteri, deve invece investire ancora molto sulla tutela ferrea della qualità di prodotti Dop e altri. Costruire una reputazione di qualità costa molto e richiede tempo. Ma si può distruggerla facilmente con danni ingenti e prolungati nel tempo. Le prese di posizione della OMS ci dicono poi che nessun settore produttivo può esimersi dall’innovare per seguire e, se possibile, anticipare i mutamenti delle preferenze dei consumatori nel mondo. Se si vincono queste due sfide tutte interne alle imprese italiane allora la concorrenza sui mercati esteri può essere affrontata con maggiore ottimismo.