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11 maggio 2024
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I disastri della politica spettacolo

Paolo Pombeni - 09.11.2022
Letizia Moratti

Nonostante la premier non si spenda molto in dichiarazioni ad effetto, sembra che nel complesso non si riesca ad uscire dalla spirale della politica spettacolo. Comprensibile se si tiene conto della tenuta del populismo tanto a destra quanto a sinistra, ma non per questo meno dannosa.

Soprattutto nel momento in cui si registra un cambio di equilibri politici sarebbe opportuno avere consapevolezza di quanto sia necessario raffreddare le situazioni emarginando quei politici (e loro compari) che amano aizzare le tifoserie. Naturalmente le zuffe sono elementi di distrazione di massa che consentono di evitare che si facciano i conti con le vere debolezze di questo paese: la fragilità dell’amministrazione pubblica nel gestire tanto la parte economica quanto quella sociale (vale tanto al Nord quanto al Sud, salvo eccezioni che pure esistono); la questione fiscale che continua a tenere sotto scacco un paese in cui molti pagano imposte salate in rapporto ovviamente alle loro entrate e non pochi evadono allegramente; il problema del nostro rapporto con la situazione bellica apertasi in Europa; la sistemazione dei conti pubblici per toglierci almeno in parte il peso di un debito che altrimenti finirà per travolgerci.

Sono certamente argomenti difficili con cui è arduo accendere le fantasie e stimolare le pulsioni allo scontro. Molto meglio occuparsi superficialmente di accoglienza dei migranti, discettare saccentemente e un po’ a vanvera sulla questione del “merito”, azzuffarsi sulla questione vaga della pace, rincorrere i casi di cronaca per schierarsi da una parte o dall’altra. Un pizzico di pepe con le tematiche della famiglia e del sesso non fa mai male e consente delle belle scazzottate, per fortuna metaforiche, fra conservatori e progressisti, soprattutto da parte delle loro frange più radicali.

Eppure il tema delle fragilità delle pubbliche amministrazioni potrebbe facilmente essere esplorato. Pensate alla diatriba sulle elezioni regionali in Lombardia e in Lazio. Nel primo caso ci sarebbe da occuparsi del clamoroso fallimento della gestione della prima fase della pandemia da parte della attuale giunta lombarda, che non a caso dovette liberarsi dell’assessore Gallera, a lungo sostenuto dal presidente Fontana, richiamando in servizio Letizia Moratti. Ora proprio quest’ultima lascia la sua poltrona accusando la debolezza insostenibile di quel sistema di gestione della sanità e si candida al ruolo di “governatore” con le prossime elezioni. Il risultato è che di quella cattiva gestione da lei denunciata non discute nessuno. Ovvio che non lo facciano i responsabili, incomprensibile che non lo affronti l’opposizione di sinistra che pensa di non poter fare alleanze con “una di destra”. Avessero studiato un po’ di storia saprebbero che così fece la sinistra coi fronti popolari negli anni Trenta, così il PCI nella resistenza italiana e nella primissima fase della ricostruzione. I leader di allora avevano una statura e un peso piuttosto diversi da quelli di oggi, ma si potrebbe sempre copiare anche su scala un po’ minore.

Del tutto diverso il caso del Lazio. Qui, quasi inspiegabilmente, la macchina pubblica ha funzionato molto bene nella lotta contro la pandemia grazie all’opera intelligente dell’assessore D’Amato, che, per inciso, viene da una storia di sinistra-sinistra. Però non piace ai fini strateghi romani tipo Bettini e compagni a cui non interessa nulla dell’efficienza della macchina pubblica perché il loro problema è rinsaldare i legami con M5S.

Passiamo alla questione fiscale. Che il sistema non funzioni bene è sotto gli occhi di tutti. La destra sembra non saper far altro che cercare modi per tagliare le tasse a qualche settore che ritiene sua base elettorale (le partite IVA con la flat tax al 15% che arriverà fino a 95mila euro), la sinistra se la cava sventolando la difesa della progressione nel prelievo ignorando che così tocca più che altro i redditi controllabili alla fonte, perché gli altri in parte non piccola eludono o evadono. Ma poiché a parlare di questi temi inevitabilmente si pestano molti piedi, non si fa niente di più che produrre qualche proclama.

Sulla questione della pace in Ucraina si è sfiorato il comico, non fosse che si sta parlando di cose tragiche. Perché non ce la si può cavare solo con la ritualità di parlare di un aggredito e di un aggressore, quando il tema taciuto è il tipo di guerra che conduce la Russia: non uno scontro militare, ma una tattica di attacco sistematico ai civili, di distruzione continua delle risorse necessarie alla vita comune. Non una operazione militare più o meno speciale, ma una guerra barbarica basta sul principio della terra bruciata. Come si possa pensare di aprire una trattativa (diplomatica?) senza una condanna ferma non solo della “aggressione”, ma della “barbarie”, non lo comprendiamo.

Sulla debolezza dei nostri bilanci non c’è bisogno di sprecare parole. Per fortuna l’attuale premier e il suo ministro dell’Economia sembrano tenere duro sulla linea prudente impostata da Draghi, ma sono insidiati dal populismo salviniano (e non solo) che vuole più spesa anche per tenere alta la bandierina di una riforma pensionistica senza coperture. Anche qui è curioso che l’opposizione anziché mostrare la sua superiorità nel sostenere la politica del premier (cosa non impossibile: Meloni lo fece con la politica estera di Draghi) non sappia rinunciare alle contrapposizioni di principio che crede la riporteranno in auge.

Questa mancanza di spazio e anche di coraggio nell’avviare una seria discussione politica è indice della dipendenza di quasi tutti dal cosiddetto spirito del tempo, quello creato dai talk e dai social. Ma non è al servizio di una buona politica, bensì del monopolio del palcoscenico da parte dei demagoghi, descamisados o muniti di cattedra giornalistica o accademica che siano.