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Gli italiani e la politica estera: una fiera delle contraddizioni?

Michele Marchi - 22.04.2014
Europa

Incoerenza e fragilità, questi sono i due principali sentimenti che paiono animare l’opinione pubblica italiana se chiamata a riflettere sul ruolo del proprio Paese nello scenario internazionale. Il recente rapporto di ricerca Gli italiani e la politica estera (curato dall’Università di Siena e dall’Istituto Affari Internazionali) è un interessante punto di osservazione dal quale emerge il carattere contraddittorio delle prese di posizione di un’opinione pubblica smarrita e in cerca di una guida. Con tutte le precauzioni del caso e senza rendere il rapporto una specie di “oracolo di Delfi”, a poche settimane dal voto europeo ma soprattutto dall’avvio del semestre di presidenza italiana dell’Ue, l’analisi aiuta a fare un po’ di chiarezza ed evidenzia ambiti nei quali intervenire dovrebbe essere considerato prioritario.

Cosa è rimasto dell’Italia media potenza regionale, così come percepita nel corso della Guerra fredda e negli anni ad essa immediatamente successivi? Quell’Italia che, nonostante le molte critiche, ha comunque svolto un ruolo rilevante in Europa e nell’area mediterranea? Quanto è avvertito dagli italiani che il nostro Paese, la cosiddetta “Repubblica dei partiti”, in realtà è stata anche (o forse anzitutto) una “Repubblica della Guerra fredda” e, nell’ultimo decennio del ‘900, una “Repubblica di Maastricht”?

Ad osservare le risposte della prima sezione dello studio dello IAI, quella dedicata alla percezione generale della politica estera e a quella del nostro Paese proiettato in ambito internazionale, verrebbe da rispondere poco o nulla. L’immagine che emerge è quella di un Paese ripiegato su se stesso e che si giudica irrilevante sull’arena internazionale. L’80% degli intervistati afferma che in realtà l’Italia “non conta quasi nulla” sul piano internazionale. Il ripiegamento è altresì certificato dal fatto che due italiani su tre ritengono che i responsabili politici dovrebbero occuparsi, prima di tutto, delle priorità nazionali e solo in seconda battuta di quelle internazionali, eludendo qualsiasi riflessione a proposito dell’oramai imprescindibile legame tra i due piani. Ma l’apice di questa sorta di sindrome del “brutto anatroccolo” in politica internazionale si raggiunge quando alla domanda su quali siano i veri ambiti nei quali far contare l’interesse nazionale praticamente un italiano su due afferma: la gestione dei flussi migratori!!

Il tema degli sbarchi e in generale di tutto ciò che ruota attorno all’immigrazione clandestina o meno è l’interludio, nel dibattito pubblico italiano perlomeno da un ventennio, a quello più generale sul nostro rapporto con l’Ue. È noto oramai da alcuni lustri che il nostro Paese, dopo aver avuto la popolazione più europeista dell’Ue, ha progressivamente visto crescere sentimenti sempre più solidi di euro-scetticismo, per non dire di anti-europeismo. La disaffezione nei confronti dell’Ue è stata certificata anche dai dati del più recente sondaggio Eurobarometro, con oltre il 53% degli italiani che dichiara di non considerarsi “cittadino europeo” e oltre il 71% che collega questo sentimento al fatto che l’Ue non terrebbe nella giusta considerazione gli interessi del nostro Paese. Ma a questa insofferenza si unisce una sorta di “europeismo stoico”, dal momento che soltanto una percentuale piuttosto bassa fa seguire a questo approccio prese di posizione “estreme”: solo un italiano su tre ritiene che l’Italia avrebbe un futuro migliore fuori dall’Unione e addirittura oltre il 40% si esprime a favore di una struttura federale dell’Europa. Il rapporto IAI conferma questo dominio dell’incoerenza sul tema dell’appartenenza all’Europa unita.

Se quasi il 70% degli intervistati si dice favorevole ad una più efficace e coerente politica estera comune dell’Ue, allo stesso modo il 55% ritiene che Roma debba perseguire i propri interessi anche se questi contrastano con quelli generali dell’Ue. Accanto e a sostegno di questa “fiera delle contraddizioni” si possono poi collocare il bassissimo livello di “solidarietà europea” e un vero e proprio sentimento anti-tedesco. Rispetto al finanziamento del fondo europeo per gli Stati in difficoltà, solo due italiani su dieci affermano che “sarebbe stato impossibile sottrarvisi”. Il 37% avrebbe voluto il via libera solo “ in cambio di un nuovo negoziato sugli accordi di bilancio” e infine il 38% avrebbe preferito l’utilizzo di quel denaro per la non meglio precisata “risoluzione di problemi interni”. Sul secondo punto il 66% degli intervistati ritiene che la centralità tedesca in ambito europeo sia un elemento negativo (il giudizio accomuna in maniera abbastanza unanime elettori di centro-destra, di centro-sinistra e del Movimento 5 stelle). E addirittura solo il 20% ritiene che un migliore rapporto con Berlino potrebbe tutelare gli interessi nazionali italiani in Europa.

Se dall’europeismo si passa poi alla collocazione dell’Italia rispetto ai numerosi focolai di crisi del mondo globale, il carattere contraddittorio delle affermazioni torna ad essere dominante. Ad un quasi cieco sostegno al principio della “cooperazione internazionale” si accosta una altrettanto “bulgara” contrarietà all’uso della forza come risoluzione di un conflitto (86%), un “no” piuttosto netto alla partecipazione italiana alle missioni militari estere (60%) e infine un secco diniego dell’ipotesi di coinvolgimento in scenari di conflitto (caso siriano ad esempio), anche nel caso di un intervento sotto mandato Onu (71%).

In definitiva quello che emerge dal rapporto IAI è l’aspirazione ad una sorta di “diplomazia immaginaria”, piuttosto slegata dal mondo reale. Per questo sembra indispensabile un’operazione pedagogica, fatta di voci che riprendano a spiegare al Paese quanto sia importante la coerenza in politica estera, ma soprattutto quanto oramai politica interna ed estera siano inconcepibili su piani distinti. A chi spetta tutto ciò? Qui bisognerebbe interrogarsi a fondo su chi realmente è chiamato a fissare le linee di politica internazionale e ad implementarle poi sul terreno.

 Gli italiani del rapporto non hanno dubbi. La politica estera non è condotta dal titolare della Farnesina. Con buona pace del nuovo ministro Mogherini, solo il 12% ritiene che la politica estera si faccia dal ministero degli Esteri. Sono il Presidente del Consiglio (39%) e il Presidente della Repubblica (27%) i veri motori della diplomazia nazionale, pronti a formare quella “diarchia”, oramai consuetudine all’interno di un quadro politico-istituzionale come quello italiano, nel quale la dimensione materiale domina rispetto a quella formale.  Ma qui il discorso si complicherebbe ulteriormente e finirebbe per aprire altre e ancor più profonde “fiere delle contraddizioni”.