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Crisi cinese: solo un temporale d’estate?

Gianpaolo Rossini - 01.09.2015
Crisi cinese

Ai pessimisti sull’economia globale non mancano le occasioni. Dopo la crisi greca arriva quella cinese con borse mondiali sulle montagne russe e scosse sui tassi di cambio delle valute principali. Per gli ottimisti è solo un temporale d’estate quello che ha fatto scendere la borsa di Shangai da 5200 del 6 giugno a 3000 di questi giorni perdendo quasi la metà del suo valore in soli 2 mesi e riportando le quotazioni a dicembre 2014.

Dal 1980 il reddito procapite in Cina è decuplicato, correndo ad un ritmo annuale medio di quasi il 7%. Uno sviluppo così lungo e veloce è un evento storico quasi unico. Che però inesorabilmente deve fare i conti con i ritmi che un paese può sostenere sul lungo periodo. Con crescita zero della popolazione, la Cina dovrebbe convergere in pochi anni verso un tasso di crescita del PIL intorno al 2%, ovvero l’obiettivo dell’Europa. Negli Usa con popolazione che sale quasi dell’ 1% all’anno il numero magico è 3%. Dall’inizio 2015 le autorità cinesi hanno fatto intendere che la corsa nel 2015 si sarebbe “ridotta” al 7%, cifra edulcorata da statistiche compiacenti. Ma come far digerire al cinese medio che nei prossimi anni la corsa non potrà essere più quella degli anni scorsi?

In Cina è difficile. In un paese democratico si può. Ma costa caro ai partiti che hanno governato lo sviluppo impetuoso. E’ accaduto in Italia dopo un ventennio di crescita “cinese” il naturale rallentamento negli anni 60 del secolo scorso ha significato uno spostamento dell’asse politico e governativo. In un regime non democratico non è possibile, o è quantomeno terreno sconosciuto. Ecco perchè il governo cinese in questi ultimi mesi di rallentamento mette mano in maniera disordinata a infiniti strumenti. Prima fa intervenire la banca centrale sul mercato azionario cavando poco o niente. Lo aveva fatto Hong Kong nel 1997 sconfiggendo venditori stranieri allo scoperto. Aveva usato fuoco pesante di cospicue munizioni (riserve valutarie) accumulate in anni di surplus del conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero. Ma ora in Cina non c’è da affrontare speculatori stranieri con la Ferrari in garage ma milioni di risparmiatori sudditi del neo impero capital-comunista. Le munizioni non sono quelle che servono contro gli stranieri. Non si può trovare un capro espiatorio esterno. L’intervento in borsa è un flop per cui si serrano manette sui polsi di operatori finanziari ed economici. Ecco allora che il governo cinese gioca la carta svalutazione confezionata con la scusa maldestra di puntare, più avanti, forse mai, a lasciare la determinazione del cambio interamente ai mercati. Anche questa manovra non dà esiti positivi, non è credibile e genera nel resto del mondo una alzata di scudi. Come si può giustificare infatti la svalutazione di un paese che da oltre un quarto di secolo inanella surplus del conto corrente della bilancia dei pagamenti accumulando riserve valutarie stratosferiche con cui i fondi sovrani cinesi e la banca centrale comprano ogni tipo di capitale in giro per il mondo?  La svalutazione dello yuan è purtroppo l’ennesima mossa vana di un impero capital-comunista che ha digerito solo una parte delle regole del sistema economico internazionale. Il dragone tenta allora di allentare il credito attraverso un quantitative easing sui generis dopo avere invano abbassato i tassi d’interesse qualche mese fa. Alle banche viene abbassata la riserva obbligatoria. Diminuendola si aumenta il credito ovvero l’offerta di moneta. La BCE e la FED usano uno strumento diverso. Quello cinese rende il sistema bancario più rischioso. La banca centrale non ci mette del suo ma dà semplicemente via libera alle banche di prestare di più tagliando la riserva prudenziale (obbligatoria). Anche questa manovra scivola come acqua sul marmo. Restano i fondi pensione cui si chiede di acquistare azioni sulla borsa di Shanghai accrescendo il rischio di uno scoppio di una bolla ancora più gonfia. L’insieme delle manovre non ha sfiorato il problema primo della Cina. Che è quello di eccesso di risparmio privato. Leggendo i resoconti di questi giorni la storia sembrerebbe un po’ diversa. Si dice che c’è un eccesso di debito da parte di imprese e individui. Ma questi debiti eccessivi sono tutti interni nei confronti di soggetti cinesi (creditori) che risparmiano troppo tant’è che la Cina ha un enorme credito estero netto, indicatore primo di risparmio eccessivo. Questo genera una sovrabbondanza di risorse finanziarie che genera bolle in borsa e nel settore immobiliare (come in Giappone negli anni 90 affetto da un eccesso di risparmio interno canalizzato dalle banche soprattutto verso il settore immobiliare). L’eccesso di risparmio interno della Cina è delle famiglie e legato ad una forte disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza ed è curabile con una distribuzione del reddito più equa cambiando il sistema di tassazione. Il settore pubblico ha un basso debito. Ma, come negli Usa, non si include quello della autorità locali che la Cina farebbe bene a finanziare usando le enormi riserve valutarie che potrebbero anche essere impiegate in una riduzione della povertà nelle aree meno fortunate. In secondo luogo la quota di imprese pubbliche in Cina è altissima. Quindi l’esposizione dello stato ad un rallentamento economico è molto maggiore che in paesi capital-democratici dove lo stato subisce una riduzione limitata alle entrate fiscali mentre in Cina calano anche le entrate dovute ai profitti delle numerose imprese pubbliche.

Quindi un uso sapiente della leva fiscale può ridurre le imposte sui redditi medio bassi stimolando la domanda interna e aumentare imposizione sui redditi alti in modo da stimolare la domanda interna e aggredire la forte disuguaglianza. I limiti alle acquisizioni di stranieri di imprese cinesi vanno in larga parte rimossi e molte imprese di stato dovrebbero essere privatizzate in modo da dare uno sfogo all’eccesso di risparmio privato e allo stesso tempo accrescere la capitalizzazione della Borsa di Shanghai. E infine occorre dire ai cinesi che non si può crescere al 7% per altri decenni accumulando riserve valutarie per acquisire capitale in ogni angolo del mondo. Perché questo è un vecchio vizio che si chiama mercantilismo e spesso finisce male. Se lo si riconosce forse  si evita che un temporale estivo diventi una lunga perturbazione autunnale.