Ultimo Aggiornamento:
27 aprile 2024
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Coalizioni, alleanze, ammucchiate

Paolo Pombeni - 20.03.2024
Elezioni Basilicata

Quel che è accaduto nel cosiddetto campo largo riguardo alle elezioni regionali in Basilicata fa sorgere seri dubbi sulla qualità politica di chi si muove in quell’area. Le battute sulla rincorsa al candidato cosiddetto civico si sono sprecate e non c’è da meravigliarsene. Per compiacere alle furberie di Giuseppe Conte e sodali non si è tenuto conto dell’elementare verità che per vincere una sfida elettorale contro un candidato alla riconferma che è accreditato sia di aver governato senza demeriti sia di avere un buon posizionamento personale (è un ex generale della Guardia di Finanza) ci voleva un competitore all’altezza. E qui è davvero cascato l’asino.

Innanzitutto si è visto che un politico con una storia personale di un certo peso come l’ex ministro Speranza si è prontamente tirato indietro: si dice perché non voleva lasciare il palcoscenico nazionale, ma sospettiamo che più sensatamente si sia chiesto se il gioco valeva la candela comportando un doppio rischio: se perdente di ricevere un colpo alla sua immagine, se vincente di doversi occupare di rilanciare secondo aspettative spericolate una macchina piena di limiti come è una amministrazione regionale, specie al Sud.

Allora è iniziato il giochetto miserevole della ricerca dei civici. Prima un uomo espressione di un sistema assistenziale-cooperativo che si dice si ispiri ancora ai vecchi miti andreottiani, poi un chirurgo oculistico che affermava candidamente di non essersi mai occupato di politica e di non avere tempo per fare campagna elettorale in quanto pieno di impegni in sala operatoria. Se non ci fosse certezza che stiamo parlando di fatti realmente accaduti, penseremmo di trovarci nella classica trama della commedia all’italiana.

Il solo fatto che questo pastrocchio sia stato gestito profondendo tempo e impegno da parte dei vertici di Cinque Stelle e PD getta inevitabilmente un discredito sulle capacità politiche dei dirigenti dei due partiti e dei loro staff. La soluzione trovata in extremis, non si capisce bene sulla base di quale arzigogolo, di candidare un amministratore locale che un gran peso non deve averlo visto che a lui non si era pensato in precedenza risulta coerente col canovaccio della commedia. Non serve a nobilitarlo aver deciso di spingere fuori dal complottino i partiti centristi di Calenda e Renzi: la solita mossa che serve solo per gettare un po’ di fumo negli occhi sulla presunta alleanza di sinistra a cui per forza non possono arrendersi i centristi che se ne vanno con la perfida destra. Per quale ragionamento questi avrebbero dovuto scegliere di essere complici di una gestione di bassissimo profilo senza neppure prospettive di successo, non si capisce proprio.

L’analisi di quanto è successo è praticamente unanime fra gli osservatori: ognuno dei personaggi che hanno gestito l’incredibile vicenda recitava una parte di cui era e rimane prigioniero più o meno volontario. Giuseppe Conte deve dimostrare che il partito che ha sfilato a Grillo e soci tiene nonostante tutto e dunque: non fa accordi se non imponendo le sue fumisterie; non è interessato a vincere, ma a contenere al massimo le sue perdite di consenso cosa possibile solo mantenendosi equivoco; deve risultare sempre determinante, perché solo così può sperare di essere ancora il punto di aggregazione dei progressisti (un ruolo che Zingaretti gli aveva assegnato in un momento di totale distrazione).

Elly Schlein deve dimostrare che è in grado di mettere insieme i numeri per sfidare la maggioranza di destra-centro, il che nell’immediato può fare solo creando ammucchiate di partiti e partitini, visto che non riesce ad imporsi come leader a cui viene riconosciuta la statura e la capacità per aggregare intorno ad un suo progetto politico. Per questo di fatto si consegna ai condizionamenti di Conte. Del resto non è in condizione di perdere con l’onore delle armi, e questo è un suo grosso limite: se non riesce quantomeno a coinvolgere altri nella sua sconfitta, la sua avventura è destinata a finire presto.

Gli altri partiti che potrebbero far parte del campo largo sono piccole formazioni che non hanno alternativa allo stare al gioco. Alcuni lo fanno accettando il mito che si debba stare con la “sinistra” per battere le destre più o meno eversive e dunque si accodano a M5S e PD che comunque garantiscono loro un piccolo spazio di presenza. Altri invece si ritagliano un ruolo autonomo rispetto alla mancanza di politicità da parte di chi guida le danze: denunciano l’evidente assenza di un disegno perseguibile e scelgono o di provare la strada dei piccoli testimoni solitari di un altro modo di fare, o di vedere se nella attuale evoluzione della destra-centro che riscopre le virtù del centrismo ci può essere uno spazio per le loro competenze.

Questo quadro lo vedremo riproporsi in molte occasioni: già abbastanza evidente in Piemonte, ancora sotto traccia in altri numerosi contesti che andranno alla prova delle urne nelle prossime amministrative. Il fatto dirimente è che al cosiddetto campo largo che è il naturale competitor della maggioranza di destra-centro manca un leader, o, se preferite il termine che va di moda, un federatore.

Il destra-centro ce l’ha in Giorgia Meloni per la semplice ragione che si tratta di un dirigente politico che ha portato il suo partito dal 4% al 26-27% dei suffragi. Non piace alla Lega di Salvini che vede un declino più che sensibile della sua presa elettorale, piace però a FI che nella conversione, per quanto ancora incerta, di FdI ad un conservatorismo non troppo spinto trova un suo ruolo garantendosi così un futuro.

In quello che fu il centrosinistra nulla di simile. Il PD di Schlein resta, se va bene, inchiodato intorno al 20%, M5S di Conte anche a voler considerare i sondaggi viaggia al massimo intorno al 15%. Nessuno dei due, ma anche nessun altro nei due partiti ha la statura del leader capace di chiamare a raccolta intorno a sé le sparse membra dell’antico blocco antiberlusconiano. Non a caso, quando c’erano in quel campo dirigenti capaci di leggere la realtà, essi chiamarono in campo il “papa straniero”, che non era un “civico”, ma un protagonista della vita pubblica con grande esperienza della macchina pubblica, dell’economia e del quadro internazionale.

Certo poi Prodi quei dirigenti se lo mangiarono, perché con scarsa capacità di visione credettero che risolto il problema di vincere la competizione elettorale si potesse più o meno andare avanti come prima e sappiamo come è andata a finire.

Se davvero fosse possibile imparare qualcosa da quel che è successo in passato, i modesti dirigenti del campo largo attuale avrebbero indicazioni da valutare e seguire.