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Approvata la riforma del Terzo Settore: e ora?

Miriam Rossi - 11.06.2016
Il Terzo Settore

“Esiste un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no-profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Lo chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo”. Con queste parole il premier Matteo Renzi lanciava nel maggio 2014 nella cornice del Festival del Volontariato a Lucca la riforma del Terzo Settore, indicandone le linee guida. A distanza di due anni il complesso percorso di studio, confronto e indirizzo è giunto al completamento del suo primo, fondamentale step: il 25 maggio scorso la Camera dei Deputati ha approvato in seconda lettura (e in via definitiva) la legge delega di riforma. Non si tratta però del termine finale di questo iter: i dodici articoli adottati dettano i principi generali e i capisaldi che il governo utilizzerà nell’andare a formulare i decreti legislativi, da emanare entro un anno dall’entrata in vigore della legge.

In attesa di conoscere la reale sostanza della riforma che arriverà non prima di alcuni mesi, nutrendo ancora le aspettative e le supposizioni di molti, un elemento appare chiaro, e di certo positivo: finalmente sembra a portata di mano la creazione di una “carta di identità” unica per le numerose e assai differenti espressioni del terzo settore. Quel “magma caotico” che converge nel terzo settore, ben descritto da Giovanni Moro in “Contro il non profit”, e che si presenta estremamente diviso e frastagliato, includendo al suo interno, tanto per fare alcuni esempi, un doposcuola e un’università non statale, un centro fitness e un’organizzazione sportiva per disabili, un locale ricreativo e una mensa per i poveri, una clinica religiosa e un’associazione socio-sanitaria. Pur non completamente fiducioso nell’efficienza di una operazione grandiosa quale quella prevista dal governo, il terzo settore appare convergere da tempo sulla necessità di un suo riordino, se non altro per l’intento di una semplificazione e di un aumento della trasparenza dinanzi ai cittadini che ad esso si accostano nella triplice veste di utenti-volontari-donatori.

A dispetto del ruolo essenziale del terzo settore nel funzionamento dell’apparato statale, la sua definizione residuale, come qualcosa che si colloca tra lo Stato e il mercato, poggia ancora oggi sul regime concessorio delineato nel Codice Civile del 1942 (Libro I, Titolo II), frutto di una realtà e di una situazione istituzionale e politica che non rispecchia per nulla quella odierna. Se di certo la definizione di terzo settore quale “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1 della legge delega) pone ancora problemi, ad esempio nell’identificazione di quelle citate “attività di interesse generale” caratterizzanti gli enti, la definizione di un codice unico del terzo settore e di un solo registro appare uno straordinario passo in avanti che porrebbe fine agli oltre 300 registri e albi attualmente esistenti e alla selva di leggi e regolamenti che disciplinano il non profit.

All’intento di “ripulire” il terzo settore, escludendo chi non ha “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”, si unisce una maggior consapevolezza per quella che può essere intesa come una crescita della civiltà giuridica del Paese, con la presa in carico da parte dello Stato del fondamentale ruolo del volontariato e dell’attività dell’individuo all’interno del sociale, nella sua accezione più ampia. Ecco che allora la promozione della cultura del volontariato, intesa come una strada privilegiata per aumentare il capitale sociale valorizzando le pratiche di democraticità e partecipazione, passa per la creazione del Servizio civile universale, una opzione di impegno a servizio della comunità messa a disposizione di tutti giovani che decidano di impegnarsi. Qualcuno l’ha già definito un “master civile” e, pur non intendendo essere così altisonanti, quest’azione potrebbe sottrarre dall’immobilismo i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), ossia quei 2,3 milioni di giovani italiani che non studiano né lavorano. Anche la promozione dell’impresa sociale, oggetto della riforma, mira a diventare un volano di crescita e di sviluppo per il Paese con la gestione di beni pubblici (beni artistici e culturali, acqua, mobilità, nuovo welfare), la creazione di nuova occupazione, l’attrazione di investimenti orientati all’impatto sociale, l’internazionalizzazione delle realtà del terzo settore italiano.

Il punto cruciale della riforma, e dunque dei futuri decreti attuativi, resta il finanziamento della manovra. Mentre infatti si prefigura l’apertura di una stagione di viva attività nel campo del volontariato, è proprio il presidente del Coordinamento dei Centri di servizio per il volontariato (CSVnet), Stefano Tabò, a ricordare che mentre la riforma prevede per i CSV un “finanziamento stabile attraverso un programma triennale”, l’accantonamento per il 2017 (su bilanci 2015) che le Fondazioni di origine bancaria devono destinare allo scopo sarà inferiore di oltre il 30% a quello per l’anno in corso, e ne mette a rischio il funzionamento. Come a ricordare che tra il dire e il fare…