Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Al lavoro, Signor Presidente!

Michele Marchi - 21.06.2017
Francois Bayrou

Come si era detto la scorsa settimana  (http://www.mentepolitica.it/articolo/il-primo-turno-delle-legislative-2017-ovvero-la-assegno-in-bianco-firmato-a-macron/1186), quello nelle mani di Macron dopo il primo turno delle legislative assomigliava più ad un “assegno in grigio” che ad un “assegno in bianco”. Ebbene i risultati definitivi, dopo il secondo turno, hanno confermato questa impressione.

La République en marche ottiene la maggioranza assoluta, ma è ben lontana dai 400 seggi annunciati. Il successo è ottimo, l’autonomia è totale anche dagli alleati centristi del Modem di Bayrou (42 deputati), ma nulla a che vedere con i 484 seggi ottenuti nel 1993 da RPR e UDF, né con i 365 seggi ottenuti dalla maggioranza di Chirac nel 2002.

Bisogna poi aggiungere che mai maggioranza così netta è stata espressa dal voto di così pochi elettori. Al secondo turno l’astensionismo è aumentato di un altro 6%. Quasi 6 elettori su 10 non si sono recati alle urne e, fatto altresì significativo, il 9% di quelli che hanno deciso di recarvisi ha scelto di votare bianco o nullo.

Fatte queste premesse, siamo di fronte all’Assemblée nationale più radicalmente rinnovata della Quinta Repubblica. Nemmeno nel 1958 si era arrivati alla quota di 434 nuovi eletti su 577 deputati. Cresce notevolmente il numero delle donne elette (siamo vicini al 40%) e l’età media scende di circa cinque anni (ora a 48,6 anni). Nello specifico poi il ciclone Macron ha travolto i due protagonisti del bipolarismo quinto repubblicano. La debacle socialista è evidentissima nei numeri: si passa dai 283 deputati del 2012, ai circa 30 attuali (e poteva andare peggio…). Per Les Républicains il quadro sembrava anche peggiore dopo il primo turno. Con i 130 deputati eletti, i LR costituiranno il gruppo più forte dell’opposizione (anche se nel 2012 sfioravano i 200). Ma la debacle non è solo nei numeri per socialisti e post-gollisti. La sconfitta è politico-ideologica. Il PS ha definitivamente chiuso il suo ciclo mitterrandiano e deve capire se e come riuscirà ad uscire dalla “morsa” di Macron, al centro, e di Mélenchon, a sinistra. L’ipotesi di cambio del simbolo e di abbandono della sede al 10, rue Solférino (non a caso scelta poco prima della vittoria di Mitterrand nel 1981) potrebbero essere due passaggi preliminari non solo simbolici. D’altro canto dietro ai numeri di una sconfitta, tutto sommato, accettabile per Les Républicains si celano profonde divisioni, sia sull’approccio da avere nei confronti di Macron e del governo Philippe (votare o no la maggioranza? Votare o no i provvedimenti di politica-economica all’insegna del liberalismo?), sia sull’evoluzione politico-ideologica (puntare all’unione di tutte le destre, compresa quella frontista, o sfidare La République en marche al centro?).

Se La République en Marche è senza dubbio il soggetto politico che ha stravinto il voto legislativo e i suoi “novizi” si apprestano a fare le prime esperienze parlamentari, è impossibile non notare che per il Front National e La France Insoumise, dopo il secondo turno, il bicchiere è “più mezzo pieno, che mezzo vuoto”. Per Mélenchon siamo di fronte ad una vera rivincita dopo le presidenziali. Il tribuno ex socialista entra all’Assemblée Nationale e potrà guidare una trentina di deputati (che potrebbero diventare 40 se si riusciranno a sanare le ferite con il PCF). Come già anticipato, il suo obiettivo è quello di candidarsi a “vera opposizione di sinistra” al macronismo. Dall’altra parte è vero che il FN con i suoi 8 deputati eletti non potrà costituire un gruppo, ma Marine Le Pen entra in Parlamento, circondata dai suoi fedelissimi, mentre il suo più temuto critico interno, Florian Philippot, è sonoramente battuto. La sequenza elettorale aprile-giugno non ha regalato grandi soddisfazioni al FN e un ripensamento della strategia appare indispensabile se davvero il frontismo vuole candidarsi alla guida del Paese. La vittoria nel suo feudo del Nord garantisce però a Marine Le Pen la possibilità di rimanere in sella sino al 2022. Che questo sia un bene o un male per la normalizzazione del frontismo può essere discusso. La resa dei conti attesa sarà di sicuro affrontata dalla figlia del fondatore da una posizione di maggiore forza.

Al netto di queste considerazioni e di tutti i dati che dovranno essere studiati con attenzione, la lunga sequenza elettorale avviata nel novembre 2016 e conclusasi domenica scorsa ha un vincitore e oggettivo si chiama Emmanuel Macron. Mai nella storia della Quinta Repubblica si è avuto un presidente con le mani così libere. Non necessita di alleati, non ha fatto patti di desistenza, la maggioranza dei deputati deve la propria elezione esclusivamente a lui, i media sembrano molto in linea con la sua proposta di unione tra liberalismo economico e progressismo sociale, gli ambienti economici stravedono per lui e l’alta amministrazione lo considera un suo prodotto prestato alla politica. Infine dopo le senatoriali di settembre, per due anni (sino alla primavera del 2019 per le europee) non dovrà affrontare cicli elettorali. È un presidente con i “pieni poteri”. Attenzione però che a “maggioranza assoluta” corrisponde “responsabilità assoluta”.

Macron ha attinto a piene mani alla strumentazione “gaullienne” per destrutturare il sistema. Rifiuto del clivage destra/sinistra e ri-presidenzializzazione del monarca repubblicano sono stati l’emblema della sua marcia trionfale. Come amava affermare una “vecchia volpe” della IV e della V Repubblica come Edgar Faure “non esiste politica senza fortuna”, ma “non esiste nemmeno politica senza rischi”. E Macron ha avuto fortuna (molta) e ha saputo rischiare (scegliendo una candidatura fuori dal PS, lanciando En Marche! e opponendo il presidente gaullien al presidente normal).

Completata la pars destruens, è tempo di riformare ma anche di ricostruire. E i due processi andranno portati avanti in parallelo. Confinare la Quinta Repubblica al primato del monarca repubblicano, sarebbe un errore imperdonabile per Macron. Ecco perché il nuovo inquilino dell’Eliseo dovrà dedicarsi alla ristrutturazione sia del sistema partitico (cosa diventerà La République en marche?), sia del sistema politico (quale rapporto tra esecutivo e legislativo? Quale tra tecnocrazia e cittadini? Quale spazio per la mediazione e per il ruolo di sindacati ed organizzazioni professionali nella delicata serie di riforme all’orizzonte?)

Macron ha avuto l’istinto del condottiero, il piglio del Napoleone Bonaparte impegnato nella campagna di terra in Egitto. Ora è tempo di normalizzare il quadro e passare dall’eroismo della battaglia, al lento ma tenace riformismo. Senza dimenticare che il suo è un potere presidenziale fortissimo, che poggia su una base elettorale strettissima. Macron dovrà sapientemente dosare l’entusiasmo della minoranza che lo ha eletto con la conquista, giorno dopo giorno, di almeno una quota di quegli “attendisti” che hanno affrontato presidenziali e legislative sostanzialmente affermando “lasciamolo fare”.

Au travail, Monsieur Le Président!