Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Una lunga storia di scontri politici

Luca Tentoni - 22.10.2016
Fanfani e Pannella

Il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre sarà un appuntamento che segnerà la storia della Seconda Repubblica e forse - indipendentemente dall'esito - costituirà uno degli atti finali della fase politica iniziata nel 1994. La campagna incessante e talvolta "sopra le righe" che sta caratterizzando la battaglia referendaria rappresenta probabilmente il momento di maggiore contrapposizione dell'ultimo ventennio. Possono paragonarsi a questa competizione le elezioni del 1994 e quelle del 2006, precedute e seguite da un clima di scontro politico senza esclusione di colpi. Se però la Seconda Repubblica sembra essere stata connotata come l'epoca della contrapposizione bipolare, quindi del conflitto, la Prima non può essere considerata come un periodo stabile e senza contrasti. Com'è noto, infatti, la storia dei primi 48 anni della Repubblica è stata segnata da almeno sei o sette momenti paragonabili a quello che stiamo vivendo. Nel 1948, 1953 (elezioni politiche), 1974 (referendum sul divorzio), 1976 (elezioni politiche), 1985 (referendum sulla scala mobile), 1991-'93 (referendum sui sistemi elettorali nazionali) un appuntamento con le urne si trasformò in uno scontro destinato a produrre vinti e vincitori, cambiando il corso della nostra storia. Gli effetti sul sistema politico della vittoria democristiana del 18 aprile 1948 caratterizzarono l'intera Prima Repubblica. Quel trionfo della Dc (48,5% dei voti contro il 31% del Fronte popolare composto da Pci e Psi) ebbe un'influenza permanente sulla politica estera italiana (che peraltro era in qualche modo stata già delineata dallo “spirito di Jalta”), ma ebbe anche altre tre conseguenze: il rafforzamento della figura di De Gasperi (presidente del Consiglio dal dicembre 1945); l'egemonia democristiana nel "campo moderato" (il quale fu a sua volta maggioritario nel Paese e nelle urne per circa trenta anni); la centralità della Dc e il suo ruolo fondamentale per il sistema politico italiano. Furono tre consultazioni elettorali successive a travolgere i tre "pilastri" edificati col voto nel 1948 con la sconfitta del blocco socialcomunista. Il primo a cadere fu il degasperismo, indebolito sul piano elettorale dall'avanzata delle destre al Sud. I progressi ottenuti da monarchici e missini nel Mezzogiorno spinsero la Dc e il ministro dell'Interno Scelba a presentare nell'ottobre 1952 un disegno di legge elettorale per la sola Camera dei deputati, che avrebbe attribuito il 65% dei seggi di Montecitorio al partito o alla coalizione che fossero riusciti ad ottenere il 50% più uno dei voti. La battaglia su quella che Calamandrei definì "legge truffa" fu condotta con altrettanta asprezza rispetto a quella del '48. In questo caso, però, furono anche esponenti dei partiti laici minori alleati della Dc a promuovere scissioni nei loro gruppi per far mancare alla coalizione Dc-Psdi-Pri-Pli-Svp i voti necessari a conseguire il "premio". La battaglia parlamentare fu durissima: in Senato si arrivò allo scontro fisico. Per ridimensionare la destra ed evitarne l'influenza sulle maggioranze centriste, la Dc usò lo strumento della riforma elettorale, che però avrebbe potuto coalizzare - come in effetti avvenne - tutte le forze di opposizione intorno al rifiuto della “legge truffa”. Fu una sorta di referendum che si trasformò in un "assedio" alla Dc e ai gruppi alleati. Nel 1953, i partiti "apparentati" si fermarono al 49,8% dei voti, nello scrutinio per la Camera dei deputati. De Gasperi, signorilmente, evitò di dar vita a polemiche e a chiedere riconteggi per un'ipotetica "vittoria a tavolino": essendo uno statista, sapeva che per recuperare qualche voto si sarebbe compromesso il clima politico-sociale nel Paese. Si avviò dunque a tentare di formare nuovamente un governo, ma al momento della fiducia, alla Camera, ottenne 263 voti favorevoli e 282 contrari. Fu la fine della sua esperienza di governo. Il centrismo visse una difficile seconda fase, caratterizzata da molti governi e senza il suo ideatore, scomparso nel 1954 a soli 73 anni. Dopo la prima "svolta" nella storia della Repubblica (la sconfitta del Fronte popolare nel 1948) ne era giunta, cinque anni dopo, una seconda (la fine dell'era degasperiana e del primo, politicamente più efficace e fruttoso, centrismo). Gli altri due pilastri edificati nel '48, però, resistevano. La Dc si sentiva in sintonia con la società e per molto tempo e certi versi lo fu, a lungo. Tuttavia, a un quarto di secolo dalla vittoria di De Gasperi e Gedda, i mutamenti sociali, culturali, politici ed economici portarono alla fine del secondo pilastro e dell'idea che l'Italia fosse ancora un paese confessionale (con l'egemonia democristiana nel campo cattolico). La prova del referendum sul divorzio fu combattuta dalla Dc col solo alleato (scomodo) del Msi. In teoria, i due partiti potevano contare sul 47,3% riportato da Dc e Msi alle politiche del 1972. La gara, almeno sulla carta, vedeva il fronte del "sì" (per l'abrogazione) e quello del "no" (per il mantenimento della legge sul divorzio) quasi alla pari. La realtà fu molto diversa. Il 12 maggio 1974 gli italiani diedero al "no" il 59,3% dei voti. I "sì" furono solo 13 milioni e 157mila contro i 15,8 milioni ottenuti da Dc e Msi nel 1972. La sconfitta referendaria aprì la porta ad una nuova stagione politica (regionali 1975) e allo scontro decisivo fra Dc e Pci per il primo posto, che avrebbe avuto luogo nel 1976, alle politiche. Quel 20 giugno di quaranta anni fa le elezioni ebbero, come nel '48 e in parte nel '53, il valore di un referendum fra due percorsi diversi. La tenuta della Dc (38,7%) riuscì ad arginare la rimonta comunista (il Pci salì dal 27,2% del 1972 al 34,4%) e aprì la via del "compromesso storico" già tracciata negli anni precedenti da Moro e Berlinguer. Quel voto sancì l'impossibilità del ritorno a opzioni centriste o di centrodestra (la linea di Moro, del resto, aveva vinto già con l'elezione di Zaccagnini alla segreteria democristiana nel luglio '75) ma, nel contempo, ribadì l'impraticabilità nei numeri e negli equilibri politici di una (teorica) alternativa di sinistra che vedesse la Dc all'opposizione (bocciata, peraltro, da Berlinguer nel XIV congresso del Pci - marzo 1975 - e in occasione del XXV congresso del Pcus nel febbraio 1976). La centralità democristiana e il ruolo determinante della Dc per qualsiasi combinazione di governo - il terzo pilastro - verranno meno in concomitanza con l'ultimo referendum della Prima Repubblica, come vedremo in seguito. Nel decennio successivo, tuttavia, sia pure in un clima politico più sereno rispetto a quello degli anni Settanta, si svolse il referendum del 1985 sul taglio dei punti della "scala mobile" (l'indennità di contingenza, introdotta nel '75). La contrapposizione fra il fronte del "sì" - composto da Pci, Verdi, Msi, Dp e una parte della Cgil - e quello del "no" (Dc-Psi-Pri-Psdi-Pli, più i sindacati Cisl e Uil e la minoranza socialista della Cgil) fu molto aspro. Da alcuni lo scontro venne interpretato come una sorta di referendum pro o contro il presidente del Consiglio socialista Craxi (e la Confindustria). Nelle urne il "sì" raccolse un 45,7% superiore alla forza dei partiti che lo sostenevano, ma insufficiente per vincere. Quel voto, drammatizzato da entrambe le parti, finì per sancire una nuova, decisiva sconfitta per il Pci, il quale ormai si era incamminato sulla via di una crisi (nonostante l'effimero 33,3% ottenuto alle europee dell'anno precedente, dovuto all'emozione popolare per l'improvvisa scomparsa di Berlinguer) dalla quale non si sarebbe più ripreso negli anni successivi. La vittoria del "no" fu invece un incentivo per Craxi (il quale, tuttavia, non sarebbe mai riuscito a far raggiungere al Psi il 15% dei voti alle politiche e neppure a insidiare il primato elettorale del Pci a sinistra, come intendeva fare promuovendo la nascita e l'aggregazione di un nuovo polo laico-socialista). L'"era craxiana", che aveva raccolto uno dei suoi maggiori successi proprio con l'affermazione al referendum sulla scala mobile del 1985, si sarebbe avviata al tramonto in occasione di un altro referendum, quello del 1991 sulla preferenza unica alla Camera (il sistema prevedeva la possibilità per l'elettore di esprimere fino a tre o quattro preferenze, a seconda dell'ampiezza della circoscrizione; col "ritaglio" voluto da Segni si limitava ad uno solo il voto di preferenza). Mentre la Dc (che, come il Psi, raccoglieva sui suoi candidati un gran numero di voti di preferenza, in particolare al Sud) scelse una linea più cauta (un po' perchè il mancato raggiungimento del quorum nel '90 sui quesiti riguardanti la caccia e i fitofarmaci avevano fatto parlare di crisi dell'istituto referendario, ma un po' anche in considerazione, probabilmente, che fra i promotori della consultazione c'erano anche ex Dc come Orlando e democristiani del Movimento per la riforma elettorale come Segni) Craxi invitò gli italiani ad andare al mare anzichè alle urne. La "personalizzazione" craxiana con l'invito a far mancare il quorum fu invece una delle cause che spinsero gli avversari del leader socialista ad andare a votare. Il risultato fu un'affluenza del 62,5% e la schiacciante vittoria dei “sì” al "ritaglio" referendario voluto da Segni. In quella occasione la Consulta aveva ammesso al voto solo il quesito sulle preferenze, ma già allora il comitato promotore aveva provato ad introdurre - mediante il “grimaldello” del referendum abrogativo - un sistema elettorale maggioritario per le Camere. Nel 1993 un apposito quesito riguardante il Senato fu ammesso perchè riguardava l'abolizione di una norma applicata praticamente solo nell'Alto Adige dominato dalla Svp: il meccanismo permetteva di ottenere il seggio senatoriale a chi superava il 65% nel collegio uninominale. Abolendo il riferimento alla “soglia” del 65%, il Senato sarebbe stato eletto attribuendo circa i tre quarti dei seggi in altrettanti collegi uninominali col plurality system inglese. Si trattava di un totale stravolgimento rispetto all'impianto rigidamente proporzionalistico della Prima Repubblica. La crisi dei partiti e l'impossibilità per molti soggetti politici tradizionali (tranne, in alcune zone del Paese, la Lega, la Dc e l'ex Pci nel frattempo divenuto Pds) di competere per la conquista dei collegi uninominali rese più dirompente l'esito del "sì" abrogativo al referendum del 18 aprile 1993. Quel giorno, esattamente 45 anni dopo la grande vittoria della Dc degasperiana alle politiche, crollò l'ultimo pilastro: i democristiani non sarebbero stati più, già a partire dalle elezioni del 1994, la forza determinante senza la quale sarebbe stato impossibile formare un governo. Come nel 1948, 1953, 1974, 1976, 1985, 1991, anche nel 1993 una consultazione popolare molto accesa e “partecipata” segnò una svolta profonda nella nostra storia. Nella Seconda Repubblica avrebbero avuto luogo almeno altre due prove altrettanto "divisive": le elezioni del 1994, vinte da Berlusconi e dai suoi due poli (FI-Lega al Nord, FI-AN al Sud) e quelle del 2006, che diedero il premio di maggioranza alla Camera a Prodi per 24.000 voti, caratterizzate dall'assenza di terzi partiti con almeno lo 0,5% dei consensi popolari (Unione e CDL, infatti, raccolsero insieme alla Camera il 99,55%). In entrambi i casi, la contrapposizione fu durissima sia prima, sia dopo il voto. Il 4 dicembre arriverà all'epilogo anche l'ultima battaglia referendaria della Seconda Repubblica, dopo una campagna durata mesi, che ha diviso il Paese e continuerà a farlo probabilmente anche dopo la diffusione dei risultati definitivi. Siamo ad una svolta, l'ennesima, anche se oggi è impossibile prevedere dove ci porterà il responso delle urne.