Ultimo Aggiornamento:
15 maggio 2024
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Un ministro degli Esteri per l’Italia

Ennio di Nolfo * - 30.10.2014
Farnesina

Da quando esiste come  Stato unitario, l’Italia ha sempre ambito ad avere una propria politica estera, tale da mettere in evidenza ruolo e ambizioni del nuovo soggetto internazionale e della sua centralità nel Mediterraneo. La realtà geopolitica, cioè il fatto che l’Italia doveva l’unificazione all’intervento di Napoleone III e che il Mediterraneo fosse dominato dall’egemonia navale britannica erano i due confini entro i quali muoversi. Perciò fino al 1871 l’Italia seguì la Francia e dopo si accostò alla Gran Bretagna. Con la nascita dell’Impero tedesco il duo egemone si trasformò in un trio e le possibilità di scelta dell’Italia crebbero, al punto che essa stipulò, nel 1882 la Triplice alleanza: con l’Austria e la Germania. Dopo la Prima guerra mondiale per qualche anno le cose parvero cambiare e nel 1922 Mussolini ritenne che fosse giunto il momento di sganciarsi dai condizionamenti esterni per agire come “cavaliere solo”. Si sbagliava perché la rinascita della Germania hitleriana e la sua alleanza di fatto (1933-39) con la Gran Bretagna lo mise fuori gioco, anche perché i francesi dal 1936 avevano in pratica rotto con il fascismo. Dopo la Seconda guerra mondiale e la fase di assoluto controllo americano, quando l’Europa incominciò a crearsi una propria immagine internazionale, l’Italia riprese il solito metodo. Ma questa volta aveva solo tre possibilità: avvicinarsi alla Francia o alla Germania o diventare il vero campione dell’europeismo.  E dopo il 1990 le possibilità ritornavano a essere una sola, poiché la Germania unificata era troppo forte perché chiunque in Europa potesse opporsi alla sua volontà: come i fatti dimostrano ogni giorno.

Creare una politica estera autonoma, che non segua, come si dice un po’ leggermente, i diktat di Berlino, è ritornato a essere il problema dominante. Il problema sta nel fatto che esso non presenta alternative, salvo l’illusione di poter battere i pugni sul tavolo per farsi ascoltare. E’ un modo di fare che richiama ciò che fece Mussolini alla sua prima uscita internazionale, quando si fermò con il treno a pochi passi da Ginevra (dove si discuteva la pace con la Turchia) in attesa che  i ministri inglese e francese andassero a dirgli che sì: l’Italia doveva essere considerata come una potenza eguale alle altre. Francesi e Inglesi fecero buon viso ma sapevano che la pretesa era infondata, come si vide tra il 1939 e il 1943.

Questa divagazione storica ritorna alla mente in questi giorni poiché appare evidente che il nuovo governo, dovendo scegliere un ministro degli Esteri, intende affidargli il compito di far compiere all’Italia quel passo in avanti che da oltre è secolo è l’obiettivo della sua politica estera. Purtroppo, da molti anni, questo compito è stato affidato a mani incapaci di guidare un corpo diplomatico nel quale esistono invece risorse di grande equilibrio. Con la scelta di Francesca Mogherini, apparentemente affrettata, l’azione era bene avviata, dato che la Mogherini aveva capito i limiti della sua possibilità di agire. Sulla scelta di chi succederà si sentono o leggono  voci che sacrificano la competenza alla volontà di dare l’impressione del nuovismo. In linea cronologica sono stati fatti i nomi di Marina Sereni, diplomata al liceo classico e studentessa d’agraria; di Simona Bonafé, già assessore all’ambiente nel comune di Scandicci presso Firenze e ora quello di Lia Quartapelle, anni 32, giovani ricercatrice dell’ISPI, ma ovviamente un peso leggero che dovrebbe affrontare con baldanza il consesso dei burocrati europei. Sarebbe una scelta adeguata oppure una scommessa il cui esito appare quanto mai incerto? La Quartapelle è esperta del Mozambico, ma il mondo è un po’ più grande e la Farnesina merita una guida più autorevole, cioè più capace di “elaborare” politica estera all’interno di limiti che non possono essere superati e, mutatis mutandis, restano quelli del 1861.

 

 

 

 

* Professore emerito di storia delle relazioni internazionali