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20 aprile 2024
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Riformare la scuola

Fulvio Cortese * - 05.09.2015
La Buona Scuola

È stato molto acceso il dibattito che ha animato l’approvazione della “Buona Scuola”, tradottasi nella legge del 13 luglio 2015, n. 107. E c’è da aspettarsi che saranno ancor più intense le discussioni sulle sue modalità attuative. In primo luogo, ci sono già stati gli immancabili ricorsi dei docenti delusi, e altri ne verranno. In secondo luogo, anche le contestazioni sindacali non si placheranno, complice una campagna referendaria ad hoc, volta ad abrogare molte delle nuove disposizioni. In terzo luogo, la legge contiene ampie e importanti deleghe, che il Governo dovrà puntualmente concretizzare.

Sul merito delle innovazioni si potrebbe discutere a lungo, e in realtà le occasioni non sono mancate. Ciò che, però, si fatica tuttora a comprendere è che l’evoluzione storica della disciplina del sistema scolastico è sempre stata, non solo in Italia, la risultante dell’equilibrio tra due diversi poli, e tale sarà anche in futuro.

L’istruzione, lo ricordava con efficacia già Montesquieu, è un essenziale instrumentum regni. Con l’istruzione si pongono le basi per l’esercizio della sovranità, perché se ne alimentano coloro che sono destinati ad esserne, al contempo, i destinatari e i protagonisti. Con l’istruzione, poi, si perseguono anche politiche altre, poiché essa crea i presupposti per la materiale realizzazione di obiettivi della più varia natura, anche di quelli che si rivelino più attuali per il benessere collettivo. L’esempio più immediato è quello della stretta connessione che esiste tra istruzione, politiche del lavoro e politiche di cittadinanza. Se questo è vero, è naturale che gli Stati ambiscano a “dominare” l’istruzione e ad utilizzarla, al limite, anche come mezzo per “decidere” come e dove distribuire ricchezza; tanto più che oggi, nel nostro continente, la stretta correlazione tra l’istruzione e la costruzione di un determinato assetto socio-economico è obiettivo vieppiù incentivato anche dalle istituzioni europee.

Contemporaneamente, tuttavia, l’istruzione è sempre stata luogo privilegiato di un rapporto riservato, che non coincide con quello educativo in senso stretto, già sensibile di per sé, e che si nutre dell’insopprimibile ruolo del docente. È tema “classico” a tutto tondo; è il conflitto tra Socrate e la comunità cittadina, che aspira ad essere l’unica detentrice del monopolio educativo in senso lato e che non accetta un’alterità formativa. Nella modernità, e specialmente in quella giuridica, il tema si traduce della protezione costituzionale della libertà di insegnamento, che nelle società democratiche – lungi dal tutelare tout court la “persona” dell’insegnante – assume un duplice scopo: isolare la libertà della conoscenza come arena non sempre suscettibile di un’appropriazione sovrana; permettere ai discenti di ricevere un’istruzione che sia “specchio” di quella conoscenza e che consenta loro di essere più consapevoli e, quindi, più autonomi e più liberi. È in questo contesto che si spiega la tendenza, soprattutto nel secondo Novecento, a far sì che lo statuto giuridico dei docenti sia coerente con i predetti scopi.

Che ci sia una dialettica tra queste proiezioni dell’istruzione è un dato di fatto. Come lo è la circostanza, apprezzata pure nel dibattito sulla “Buona Scuola”, che esse tendono ripetutamente a farsi autoreferenziali e a pretendersi, ogni volta, immuni da qualsiasi contaminazione reciproca. La verità è che i due approcci hanno sempre convissuto e che la chiave di volta sta nell’individuare il ragionevole bilanciamento che traguarda anche la nostra Costituzione allorché, nel garantire diritti e libertà come limiti all’esercizio arbitrario del potere, riconosce che quel potere vi debba naturalmente essere.

Si può dire che il sistema scolastico italiano non abbia ancora trovato il luogo in cui realizzare questo equilibrio? Nonostante le critiche che l’hanno investita – e che sono, per lo più, il frutto degli eccessi della ricorrenza antagonistica ora descritta – l’autonomia scolastica, introdotta sin dal 1997 e costituzionalizzata nel 2001, rappresenta il meccanismo istituzionale prescelto per rispondere a questa sfida. È una soluzione che è stata largamente incentivata anche sul piano sovranazionale e che consente, fatta salva la garanzia del ruolo centrale del corpo docente e della sua expertise tecnica, di aprire il servizio di istruzione alla concretezza delle diverse comunità scolastiche che convergono attorno al singolo istituto e di allontanare l’amministrazione dalla definizione della programmazione didattica in senso stretto.

Il cambiamento della scuola italiana passa ancora da qui, e ciò che resta da fare, soprattutto ex parte principis, è “governare” la “liberazione” effettiva delle scuole, sia sul piano delle risorse sia sul versante della professionalità di chi vi opera. Occorre evitare che l’autonomia continui a restare il vaso di coccio destinato a rompersi nella stretta delle strumentalizzazioni politico-corporative.

 

 

 

 

* Professore Ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università di Trento