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15 maggio 2024
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L'eterna questione della riforma elettorale

Luca Tentoni - 13.04.2019
Rosatellum 2.0

Non è escluso che, vedendo i risultati delle elezioni europee, qualcuno abbia la malaugurata idea di ricominciare a invocare la riforma della legge elettorale per le Camere. È molto probabile, però, che non se ne faccia nulla: nonostante il sistema vigente sia a dir poco discutibile, non cambiarlo potrebbe rappresentare il male minore. L'idea di risolvere problemi (di offerta partitica, di sistema, di rapporti di forza) evocando l'azione salvifica della legge elettorale è un modo per sostituire la politica con la tecnica, salvo poi naturalmente lamentarsene quando l'effetto dei nuovi meccanismi si rivela ben diverso da quello atteso (per l'eterogenesi dei fini che colpisce sempre, dal 1993 in poi). È vero che nel 2018 il "Rosatellum" non ha prodotto maggioranze, costringendo il Capo dello Stato ad una lunga negoziazione (tipica, tuttavia, di tutti i regimi parlamentari, dove il governo non è, come si dice troppo spesso sbagliando, "eletto dal popolo"), ma è anche vero che l'abito non fa il monaco. Basti pensare all'altrettanto pessima legge elettorale approntata da Calderoli nel 2005 (il "Porcellum": la definizione è dell'autore leghista, con variante in latino maccheronico aggiunta da Sartori) che fu fatta per impedire la vittoria di Prodi nel 2006: l'obiettivo fu fallito alla Camera e quasi raggiunto al Senato, ma secondo alcune proiezioni c'era la possibilità che il sistema precedente potesse fare di meglio, in questo senso, per bloccare il centrosinistra. Con i poli quasi alla pari nel 2006, il risultato dell'Unione fu risicato, ma nel 2008, con lo stesso sistema, il centrodestra vinse comodamente (perché la coalizione Pdl-Lega-Mpa era più forte di quella Pd-Idv) e nel 2013 il "Porcellum" regalò la maggioranza alla Camera ad un centrosinistra che non aveva neanche raggiunto il 30% dei voti (negandogliela però in Senato, ovviamente, perché forse sarebbe stato troppo). Insomma, tre elezioni, tre esiti diversi con la stessa legge elettorale, ma con differenti offerte politiche: è questo che conta. Alla fine, la Consulta "colpì" e ritagliò il sistema elettorale escogitato da Calderoli, forse un po' troppo tardi. Le soluzioni seguenti, che hanno impegnato il legislatore più volte nell'ultimo quinquennio, sono note (ed è meglio tacerne, in questa sede). Ma torniamo ai giorni nostri e ai motivi che potrebbero spingere qualcuno a proporre l'ennesima riforma delle leggi elettorali. Il governo giallo-verde, infatti, è una coalizione fra partiti estremamente diversi fra loro: una sorta di "unione necessitata", che in Parlamento e nelle urne non sembra avere alternative. Detto ciò, c'è però da osservare che alle elezioni del 2018 il centrodestra (allora unito) ha sfiorato la maggioranza assoluta nelle competizioni di Camera e Senato per i collegi uninominali, dunque la tentazione di introdurre il plurality system per tutti i seggi in palio è forte. Con un M5s non ai livelli dello scorso anno, il centrodestra a trazione salviniana potrebbe vincere abbastanza facilmente. Ma i pentastellati non voterebbero mai una legge che li potrebbe relegare all'opposizione per cinque anni, così come il Pd - che in una situazione del genere finirebbe per subire la sorte che toccò a Ppi e Patto Segni nel 1994, riducendo al minimo la propria rappresentanza parlamentare. In quanto al sistema francese, potrebbe essere Salvini a non volerlo, nel timore sia della "pigrizia" degli elettori di centrodestra (storicamente restii a votare al secondo turno, dal 1994 in poi), sia di una confluenza di una fetta di elettori Pd (non grande, ma sufficiente per alterare gli equilibri) sui candidati del M5s in funzione antileghista. Quindi, anche qui non ci sarebbe una maggioranza parlamentare per votare la riforma. Ci sono poi i vari sistemi misti e quelli proporzionali. Il più semplice, quello tedesco, o - ancor meglio - quello attuale per il Parlamento europeo (o, ancora, quello pre-1992) finirebbe per fotografare (e, col tempo, accentuare) la frammentazione e l'incomunicabilità fra i tre poli esistenti, riproponendo la possibilità di un secondo governo "necessitato" giallo-verde. Varrebbe la pena di cambiare la legge per tornare alla prima casella del gioco dell'oca? Ovviamente no. Si potrebbe obiettare a quanto detto che un sistema elettorale non si "fabbrica" ad uso e consumo dei sondaggi e delle ultime elezioni, perché deve avere una filosofia di fondo e una prospettiva temporale di medio-lungo periodo, inquadrandolo in una cornice istituzionale, ma anche politico-sociale idonea. Giusto: infatti chi se ne occupa lo sa molto bene; il problema, tuttavia, è che molti politici fingono (forse) di non esserne a conoscenza. Quando voteremo di nuovo per il rinnovo delle Camere, dunque, lo faremo probabilmente con il sistema in vigore. A meno di stravolgimenti (scissioni, fusioni di partiti, passaggi di parlamentari da un gruppo all'altro) che oggi non sono prevedibili.