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18 maggio 2024
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Le incognite della riforma elettorale

Luca Tentoni - 18.02.2017
Legge Scelba

In queste settimane le forze politiche e il Parlamento sono chiamati a riscrivere le leggi elettorali, dopo la sentenza 35/2017 della Corte Costituzionale. Un accordo appare improbabile, anche perché non è chiaro cosa si vuole dal sistema "che trasforma voti in seggi". Alla base della scelta di un modello esistente o dell'elaborazione di un nuovo meccanismo c'è sempre uno scopo: nel 1948, quello di rappresentare i partiti e la società così com'erano (in un sistema proporzionale, inoltre, la centralità della Dc aumentava le possibilità che una coalizione di governo non potesse non ricomprendere i democristiani); nel 1953, la cosiddetta "legge truffa" (o "legge Scelba") tendeva a premiare l'unica possibile coalizione di partiti che potesse raggiungere il 50% più uno dei voti (quella formata da Dc e alleati minori centristi) isolando le estreme di destra e di sinistra per sottorappresentarle e, soprattutto, recuperare alla Dc - in forma di "voto utile" - il consenso andato "in libera uscita" a destra nel Mezzogiorno in occasione delle amministrative del '52; nel 1994, invece, uno scopo politico non c'era: in presenza del pronunciamento popolare sulla legge elettorale del Senato e in pieno sgretolamento del sistema dei partiti, si adottò un meccanismo simile al "ritaglio referendario" (in quella occasione ci fu chi si illuse, soprattutto a sinistra, di aver trovato nel Mattarellum un modo per conquistare la maggioranza) ma, alla fine, le nuove regole del gioco e l'entrata di nuovi soggetti politici cambiarono radicalmente lo scenario, ridisegnandolo e configurandolo in maniera del tutto inattesa e inedita; nel 2005, però, fu un'iniziativa politica a ispirare il Porcellum, in primo luogo per cancellare i collegi uninominali che Berlusconi detestava perché facevano perdere in media al centrodestra - rispetto alla parte proporzionale, alla Camera - l'1-2% dei voti, in secondo luogo (col sistema di premi regionali per Palazzo Madama, peraltro introdotto, escludendo quello nazionale, dopo un rilievo del Quirinale che si riferiva alla territorialità dell'elezione senatoriale) per mettere in difficoltà l'Unione di Prodi che sembrava accingersi a vincere facilmente le elezioni del 2006 e in terzo luogo perché con il premio alla coalizione più votata si sanciva la bipolarizzazione del sistema (nel 2006, il 99% dei voti andò a Unione e CDL). Il limite politico e "meccanico" del Porcellum stava nell'essere espressione di una stagione che nel giro di pochi anni sarebbe stata superata: nel 2013, infatti, con l'avvento del M5S e l'affermarsi di un "tripolarismo imperfetto", si sarebbe compreso che con la legge di Calderoli avrebbe vinto per parecchi anni la maggior minoranza (la coalizione Pd-Sel non arrivò neppure al 30% dei voti, alla Camera, però ebbe i 340 seggi del premio). La sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale fece il resto, smantellando un premio irragionevolmente alto in mancanza di un quorum adeguato per raggiungerlo. L'ultima legge elettorale della Repubblica, l'Italicum, è stata anch'essa figlia di una stagione politica ed è nata con uno scopo ben preciso. Tuttavia, al di là delle censure che la Consulta ha fatto nello scorso gennaio, la configurazione del sistema politico delineata nel 2014-'15 è nel frattempo mutata. Quasi certamente, neppure il mantenimento del ballottaggio e la fine del rapporto fiduciario Governo-Senato (previsto dal testo di revisione costituzionale respinto col referendum del 4 dicembre 2016) avrebbero spinto il Paese verso un nuovo bipolarismo. Ora, si riparte da zero, o poco più: quello sbarramento del 40% superando il quale si ottiene il 54% dei seggi a Montecitorio non sembra valicabile da alcun singolo partito, mentre - guardando al passato - ancora nel 2008 la sola lista del Pdl (che arrivò al 37,4%, in una fase, peraltro, nella quale il bipolarismo si sfumava un po', con l'esclusione da un lato dell'Udc dal centrodestra e delle liste del Psi e della "sinistra radicale" dal centrosinistra) vi si era avvicinata, senza contare che sei anni dopo, alle europee (in modo piuttosto occasionale, peraltro) il Pd avrebbe raggiunto il 40,8% e superato ipoteticamente la soglia. Oggi nessun sondaggio attribuisce molto più del 30% ad un singolo partito; persino recuperando il premio alle coalizioni vedremmo il Pd, un ipotetico centrodestra molto eterogeneo e il M5S restare ben al di sotto del 40%. La configurazione attuale dell'offerta politica, del resto, è plurale: anche limitandoci agli attori principali non possiamo non "contare" come soggetti autonomi il M5S, il Pd, l'area FI-centristi (che è sub iudice: non è detto che i centristi vadano con Berlusconi, con Renzi o "corrano" per proprio conto), la destra lepenista di Lega e FdI, la galassia della sinistra radicale. Date le premesse, la scelta di un sistema elettorale non può che collidere con le esigenze di un certo numero di attori politici. Un eventuale intervento normativo può essere dunque compiuto soltanto nel segno di un compromesso. Questo è il primo punto debole nella costruzione di una legge elettorale, ma non è il più importante. Il secondo fattore che destina la prossima normativa a non avere un orizzonte temporale di lungo respiro (a maggior ragione, se dovesse essere un semplice adattamento della sentenza della Corte ai meccanismi di Camera e Senato, con o senza l'aggiunta delle coalizioni per Montecitorio) è la transizione incompiuta verso un nuovo sistema dei partiti. Nel giro di un decennio, infatti, siamo passati da un bipolarismo di ferro alla frammentazione: non sappiamo quali saranno i soggetti politici dominanti fra due o tre anni, ma siamo consapevoli del fatto che la volatilità elettorale potenziale non appare troppo distante da quella del 1994 e del 2013, quindi pensare che si possa "fabbricare" nelle prossime settimane un sistema che favorisca qualcuno o "costruisca" in laboratorio la Terza Repubblica appare in questo momento una pericolosa utopia, un gioco da apprendisti stregoni. Come al tempo del "debutto" del Mattarellum, i partiti si avvicinano alle prossime elezioni senza avere le certezze tipiche della Prima Repubblica e della parte centrale (1996-2008) della Seconda. Per un verso, è positivo avere un "velo d'ignoranza" sui rapporti di forza quando si costruisce un nuovo sistema elettorale, però, per contro, dalla situazione attuale si desume che - giocoforza - il meccanismo col quale voteremo per le prossime politiche potrebbe essere transitorio. Il prossimo Parlamento - negli anni, tenuto conto del mutamento politico, economico e sociale - si incaricherà di riscrivere le regole del gioco (forse non solo quelle elettorali). Ne discende che le elezioni politiche più o meno imminenti ci introdurranno - indipendentemente dalla legge elettorale che sarà (o non sarà) scelta - nella seconda e decisiva fase della transizione italiana, dopo quella avviata nel 2011-'13.