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27 aprile 2024
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La teoria generazionale di Mannheim come specchio del presente

Alessandro Micocci * - 23.07.2022
Generazioni

Il discorso di reinsediamento del 3 febbraio 2022 del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha insistito particolarmente sulla questione della mancanza di ricambio generazionale e sul progressivo invecchiamento dell’Italia. In particolare il Presidente ha parlato di giovani “confinati in periferie esistenziali”. Il vertice istituzionale italiano ha espresso in svariate occasioni preoccupazione in merito alla disoccupazione, alla scarsa partecipazione politica e al fenomeno della fuga all’estero delle giovani generazioni. Partendo da questa preoccupazione di Mattarella si intende analizzare le difficoltà attuali dei giovani italiani tramite alcuni temi offerti da un testo che resta, nonostante il suo anacronismo, estremamente interessante. Si parla de “Le generazioni” di Karl Mannheim, del 1928.

Mannheim insiste molto sulla normalità dell’accesso di sempre nuovi partecipanti al processo culturale tramite il ricambio biologico tra generazioni: ciò comporta il godimento, ad esempio, degli sforzi culturali promossi da una generazione da parte di una generazione successiva ad essa. Ora, Mannheim sostiene che se venisse a mancare il fenomeno del “nuovo accesso” basato su fattori biologici sarebbero sempre gli stessi uomini a detenere e perpetuare il patrimonio culturale. Possono avvenire nuovi movimenti in ragione di spostamenti sociali, ma senza la radicalità insita in un cambio generazionale. Il ricambio biologico avviene tuttora, e non si intende sostenere che una intera generazione si sia cristallizzata all’infinito in un ostracismo verso le nuove. Tuttavia, la provocazione di Mannheim non sembra essere così distante dalla realtà sociale ed economica italiana attuale. In Italia[1] si nutre una costante ritrosia a cedere posti di potere, lavori di ruolo e si tende a non premiare il lavoro svolto da molti studenti: questo sia per una complessiva mancanza di fondi, sia per una bassa capacità dei vari enti, privati e pubblici, di mettere a disposizione una possibilità per la generazione ormai anziana di sentirsi sicura ad uscire dal circuito lavorativo, sia per una serie di pregiudizi sulla preparazione giovanile. Preoccupa poi il fenomeno dei Neet, ossia dei giovani, circa tre milioni, della fascia di età tra i 15 e i 34 anni, che non studiano, non lavorano e non fanno formazione, su cui lo stesso Draghi aveva espresso preoccupazione già come presidente della Bce, nel 2016. Eppure, ciò che domina il dibattito pubblico resta la polemica populista de “i giovani non hanno voglia di lavorare”: un esempio lampante di questo addossare le responsabilità alle nuove generazioni.

Un altro aspetto molto importante delineato dall’opera di Mannheim riguarda la questione della fuoriuscita di una generazione caratterizzata da una determinata creazione culturale – la generazione dei romantici all’inizio dell’Ottocento, i movimenti studenteschi degli anni sessanta del Novecento, ad esempio – che sembra diventare tradizione. Ciò che postula il sociologo tedesco, dunque, è che non sussistano successioni di correnti culturali che in qualche modo siano univoche e determinino   complessivamente una serie di anni. Ogni prodotto culturale espresso da una generazione non sorge all’improvviso, ma si innesta in un periodo, lungo o breve, grazie alla capacità di una generazione di rendere il proprio corredo d’idee una sorta di tradizione. Tuttavia, si ritorna alla tematica esposta poco sopra: qualora una generazione, o comunque una cultura espressa da una generazione riesca a consolidarsi in un tempo indefinito, la resistenza ad ogni influsso esterno, e alla pressione delle altre generazioni sarà forte, perlomeno fino a quando fattori biologici non ne renderanno inevitabile la scomparsa. Tornando al caso italiano, la difficoltà sta nella decisa percezione dei giovani che chi debba aprire per loro un varco espressivo e garantire una condizione di vita idonea ai loro sforzi sia la generazione che meno li ha capiti, e che più intende rigenerare internamente i propri dogmi. Risulta dunque paradossale osservare come leader populisti utilizzino con disinvoltura quasi comica gli strumenti espressivi considerati “giovani” – i social, vedi Salvini con TikTok o Instagram – mentre propongono temi che sembrano orientati verso generazioni più vecchie, espressive di una diversa interpretazione, tradizionale, della realtà sociale e culturale. I richiami alla famiglia cristiana, alla lotta contro le rivendicazioni LGBTQ, alla scarsa attenzione alla questione ambientale rendono il tutto un continuo invito alle generazioni future ad allontanarsi ancor di più da un mondo dove una generazione cerca una pietra filosofale che la renda immortale. O, forse, una proiezione metafisica di una stabilità immutabile: in una parola, un antidoto alla morte generazionale. In tal senso, come definito da Mannheim, le generazioni più anziane cercano di educare le nuove al proprio bagaglio culturale di valori. A questo punto però, il divario si verifica quando una nuova generazione assume la direzione della gestione culturale, immettendo la propria mentalità in un armamentario di tradizioni apprese. Mannheim ritiene che un singolo individuo debba avere a che fare con una determinata polarità dello «spirito globale del tempo»  nell’ambiente in cui vive.

Cosa ci lascia di attuale l’opera di Mannheim? Indubbiamente può farci cogliere con più completezza la dinamica dell’allontanamento dei giovani dalla politica, oltre che fisicamente dal paese stesso. Se ci si interroga su una scarsa capacità e volontà dei gruppi dirigenti – che siano politici, culturali o economici - di dialogare con le nuove generazioni, la risposta non può certo essere osannare dei singoli casi di giovani “che ce l’hanno fatta”, poiché acuisce ancor di più la sensazione che tali giovani miti abbiano semplicemente scavalcato, a differenza dei loro coetanei, una serie di ostacoli grazie alla capacità di replicare le direttive della vecchia generazione. È il caso dei giovani manager che spesso vediamo celebrati. Ma restano casi isolati, che innestano nelle giovani generazioni la sensazione che solo a pochi sia concesso il privilegio di sentirsi parte della società: resta dunque, un enorme cono d’ombra e di scoraggiamento che alimenta la sensazione di non poter accedere alle possibilità che si ritengono congrue allo sforzo profuso. Ancora una volta, Mannheim può fornire spunti interpretativi. Egli ritiene che «essere fino in fondo nel presente» della gioventù comporti vivere come antitesi fondamentale proprio ciò che non è più stabile e tradizionale, mentre, d’altro canto, la “vecchia generazione si irrigidisce in quello che nella sua gioventù era un nuovo orientamento”[2].  Se tale irrigidimento diventa dogmatico e, come detto, insostituibile al punto da attaccare a prescindere tutti i giovani che non si vogliono accontentare di questa tradizione, la tentazione di lasciare il proprio paese in mano a “chi ce l’ha fatta” diventa forte: negare alle generazioni future gli strumenti per potersi esprimere diventa dunque una legittima arma di difesa per le generazioni che ce l’hanno fatta.



[1]     A puro titolo di esempio si citano due articoli. Ma la bibliografia in merito è sterminata. A. Rosina, “I quattro motivi per cui l’Italia è sempre più un paese vietato ai giovani”, L’Espresso. La Repubblica, Economia, 15/11/2021. Vedi anche: A. Carli, “Giovani e lavoro: il piano del Governo per ridurre i Neet in Italia”, Il Sole 24 Ore, 20/01/2022.

[2]     K. Mannheim, “Le generazioni”, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 68-69.




 

* Dottorando in storia – Università di Genova