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Rappresentare l’irrappresentabile. Il Belluscone di Maresco

Maurizio Cau - 18.09.2014
Il Belluscone di Maresco

La recente Mostra internazionale del cinema di Venezia ha evidenziato come l’interesse della cinematografia nostrana verso l’universo politico e i suoi lati più oscuri continui ad essere vivo, e come il filone che a partire dai maturi anni Duemila è tornato a indagare - dopo un paio di decenni di fiacca creativa - le opacità del sistema politico italiano non sembri voler scemare. Non siamo di fronte alla rinascita di un genere dai contorni particolarmente connotati, ma le pellicole che si confrontano (con alterne fortune) con l’altra faccia della politica si sono negli ultimi anni moltiplicate.

Pur nella loro diversità di approcci, esiti, modelli narrativi e intenti, Belluscone. Una storia siciliana di Franco Maresco e La trattativa di Sabina Guzzanti (il primo in sala in questi giorni, il secondo in arrivo sugli schermi i primi di ottobre) rappresentano due esempi di come il cinema stia tentando di fare i conti col sistema politico italiano e con le anomalie della nostra storia più recente. Il film di Maresco tentando di riflettere sulle radici siciliane dell’ascesa berlusconiana, quello della Guzzanti ricostruendo i contorni della trattativa che si sarebbe consumata tra lo Stato e la mafia a partire dalle stragi dei primi anni Novanta.

Si tratta di due lavori molto differenti per approccio e obiettivi. La trattativa riprende il carattere pedagogico del cinema militante d’inchiesta (il tributo, evidentissimo, è a Documenti su Giuseppe Pinelli di Elio Petri), Belluscone sceglie invece la via del grottesco, abbandonando la traccia del cinema verità in nome di una vertiginosa discesa nel gioco di specchi del racconto metacinematografico.

L’assunto, per entrambi i film, può essere il pasoliniano «Io so. Ma non ho le prove», ma la via per andare in cerca degli indizi e per mettere ordine ai frammenti, svolgendo una sorta di azione suppletiva rispetto a quella esercitata dal sistema politico e giudiziario, è assai differente. In entrambi i lavori la dimensione finzionale della messinscena è esplicita, ma se la Guzzanti cuce il proprio testo per portare a emersione ciò che né i magistrati né gli storici sarebbero stati in grado di mostrare, Maresco presenta un affresco che esonda i margini dell’impegno civile diventando, come tutto il suo cinema, una sorta di elegia iconoclasta sulla condizione morale, civile e politica contemporanea. Ed è l’incedere sbilenco e indiretto di questa inclassificabile forma di cinema che rende il film di Maresco una delle tappe più interessanti del cinema italiano degli ultimi anni, capace col proprio carico di ambiguità di rappresentare la sinistra opacità del sistema (non solo politico) italiano ben più di quanto non riescano a fare il giornalismo e il cinema d’inchiesta.

L’epopea di Berlusconi viene colta seguendo le disavventure di un impresario palermitano di cantanti neomelodici, Ciccio Mira, e dei due artisti della sua scuderia, Erik e Vittorio Ricciardi. Il legame dell’ex premier col tessuto sociale siciliano viene così evocato (non dimostrato), tanto che il cuore del film è, ben più che la ricostruzione dei rapporti tra Berlusconi e la mafia, l’impossibilità di fare un cinema che parli, tematizzi e ricostruisca dall’interno la parabola politica berlusconiana, dai suoi esordi fino al suo declino. Il grado di politicità del cinema di Maresco è rappresentato, così, dalla rappresentazione della devastazione morale e civile di un Paese la cui pancia, riflessa nei Talk Show delle più improbabili emittenti locali e nei concerti di piazza animati dal folclore più freak, descrive una realtà che supera di gran lunga le capacità immaginative di qualsiasi messinscena. Tutto si gioca di rimbalzo, nella sgangherata inchiesta di Maresco, la quale sprofonda passo passo verso l’insuccesso fino a farsi racconto di sé stessa. E proprio l’irrappresentabilità del mistero berlusconiano finisce per dimostrarne l’abisso, alimentato da una cultura popolare che solo il cinema di Garrone ha avuto la capacità di mettere in scena con tanta disadorna nudità.

Se consideriamo i film come “testi sociali” che partecipano al complesso sistema di mediazioni attraverso cui la società si auto-rappresenta, guardare al cinema politico ci aiuta a capire come la società vede se stessa e a comprendere come si va orientando il nostro sguardo sulla politica. Il film di Maresco, in fondo, fa proprio questo: mostra che per sbrogliare le trame dell’orizzonte politico contemporaneo è bene fare ricorso alla prospettiva sghemba offerta dalla finzione impastata di realtà che definisce l’incerto statuto di verità del cinema. Almeno quello capace di scansare il registro compilativo della dimostrazione a tesi e in grado di seguire terreni espressivi meno battuti e più incisivi.