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Bilancio del voto regionale

Luca Tentoni - 26.09.2020
Elezioni 2020

Col voto del 20-21 settembre, tutte le quindici regioni a statuto ordinario hanno concluso il rinnovo di presidenti di giunta e Consigli, in ben otto appuntamenti elettorali iniziati con quello in Lombardia e Lazio del marzo 2018. Il riepilogo di tanti turni e di votazioni svolte in circostanze politiche diverse può essere in parte fuorviante, ma a nostro giudizio è ancora utile per delineare delle tendenze generali. A destra, la Lega passa dall'8,7% (più il 4,5% delle liste Maroni e Zaia) del 2013-'15 al 21,4% (più il 4,3% delle liste Fontana e Zaia) del 2018-'20, guadagnando il 12,7% (a livello nazionale, nel 2018, la Lega ebbe il 17,3%, dunque, proiettando - sia pur impropriamente - il dato delle regionali su quello delle politiche arriviamo intorno al 30%, cioè alla media dei sondaggi del triennio, che hanno visto prima il partito di Salvini al 33-35%, ora verso il 25-27%); il dato relativo alle sei regioni al voto domenica scorsa è invece del 24,1% (Lega più Zaia) contro il 14,5% del 2015: un progresso del 9,6% che, proiettato sul nazionale, farebbe arrivare Salvini al 27% circa (realistico). Fratelli d'Italia balza dal 3,6% all'8%, però il dato relativo alle sole sei regioni nelle quali si è votato il 20-21 settembre attribuisce al partito di Giorgia Meloni il 10,6% (quindi almeno l'11-12% su scala nazionale). Forza Italia, invece, perde il 5,6% sulle regionali 2013-'15 (globalmente) e, nelle sei regioni, flette di ben 8,6 punti; è verosimile, dunque, la stima nazionale che attribuisce al partito di Berlusconi fra il 6,5 e l'8,5% dei consensi. Nel centrosinistra, la forza delle liste del presidente indebolisce il Pd, il quale tuttavia - comprendendole nel computo - guadagna il 3,7% nelle sei regioni al voto domenica (con una proiezione nazionale, dunque, che porta il Pd al 21-22%). Il grande malato, però, è il M5s, al quale dedicheremo gran parte di questa nostra analisi. Il movimento di Grillo e Di Maio, che alle politiche del 2018 raccolse in tutto il territorio nazionale 10,732 milioni di voti (il 32,68%) e nel complesso delle regioni ordinarie 8,904 milioni di voti, ne conserva oggi solo 2,81 milioni (il 12,2%) che diventano 670mila (il 7,5%) limitatamente alle sei regioni al voto il 20-21 settembre. Il calo rispetto al 2013-'15 - nel complesso delle regioni - è pari al 3,2% e a 537mila voti, mentre nelle sei è dell'8,2%. Si dirà, come sempre, che le amministrative non mobilitano l'elettorato pentastellato: è vero, perché parte di esso defluisce verso l'astensione e parte verso il "voto utile" ai candidati di centrosinistra (maggiormente) o centrodestra (in Veneto, per esempio). Ma se in altre occasioni, in passato, il calo di voti sulle politiche toccava al massimo il 60%, dopo due anni dall'inizio della legislatura, stavolta l'andamento è stato più netto: alle regionali del 2018, su cento voti delle politiche, il M5s ne ha persi 33; nel 2019, 64; nel 2020, 81. In parole povere, dei 4,361 milioni di voti conquistati nel 2018 alle politiche in Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania, Puglia e Calabria (le otto regioni dove si è votato quest'anno per le regionali) ne sono rimasti solo 822mila. Un disastro. Non solo: in Veneto i Cinquestelle hanno avuto solo lo 0,1% in più del magro 2,6% ottenuto nel 2010, cioè all'esordio alle regionali (contro il 10,4% del 2015) ma sono andati peggio in Emilia-Romagna (4,7% 2020; 6% 2010; 13,3% 2015). Se nelle quindici regioni ordinarie, alle politiche del 2013, alle europee del 2014, alle regionali del 2013-'15 (tranne che in Basilicata e Calabria), alle politiche del 2018 e alle europee del 2019 (eccetto Lombardia e Veneto) il M5s aveva sempre ottenuto almeno il 10% dei voti (nel 2018 mai meno del 20%), nel ciclo 2018-'20 è sotto questa quota in ben otto regioni (in Puglia è appena al 10,4%, contro il 26,3% delle europee, il 49,4% delle politiche, il 17% delle regionali 2015, il 24,6% delle europee 2014 e il 25,5% delle politiche 2013). In altre parole, gli appuntamenti col voto regionale hanno punteggiato lo slittamento graduale dei consensi ai pentastellati, prima ai tempi del governo gialloverde (quando è avvenuto il travaso verso destra e astensione) poi nell'ultimo anno (verso centrosinistra e astensione). Ogni ipotesi di fine o attenuazione della competizione bipolare regionale (che pure era stata avanzata, anche se il M5s non aveva mai conquistato nessuna presidenza) è ormai svanita. Centrodestra e centrosinistra hanno avuto complessivamente l'85% dei voti nelle quindici regioni ordinarie (contro l'81% del 2013-'15) ma, nelle sei regioni dove si è andati alle urne domenica scorsa si è passati dall'81% del 2015 al 62% del 2018 e al 79% del 2019, per giungere al 91% del 2020. E pensare che, in Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia, alle politiche del 2018 il M5s aveva il 35,8% dei voti contro il 35,3% di tutto il centrodestra e il 26,6% di centrosinistra e sinistra radicale. Altri tempi, forse ormai troppo lontani.