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24 aprile 2024
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Le parole e la politica, a una settimana dagli attentati di Parigi

Giovanni Bernardini - 21.11.2015

Una settimana ci separa dagli eventi parigini. Una settimana febbrile, che ha segnato tutto fuorché l’improbabile ritorno alla normalità evocato da più parti. Una settimana in cui le conseguenze della notte di sangue hanno monopolizzato l’informazione sotto forma di raid e di arresti, di ritorsioni belliche più rabbiose che mirate, di provvedimenti d’emergenza invocati e discussi. Di falsi allarmi, che più di ogni altra cosa danno la misura delle ripercussioni sulla vita quotidiana dei cittadini europei, dall’annullamento di incontri di calcio fino alla miriade di segnalazioni di pacchi, automobili, individui “sospetti” che sarebbero passati inosservati solo pochi giorni fa. Un panorama sfavorevole a valutazioni che non cedano alla pur comprensibile emozione, e il profluvio di commenti espressi da ogni parte sembra innanzitutto denunciare la mancanza del lessico adeguato a rappresentare la novità di quanto accaduto, e delle categorie mentali necessarie a organizzare un pensiero propositivo per il futuro. Difficile considerare altrimenti l’approssimazione acritica con cui concetti come “guerra” e “terrorismo” vengono reiterati nel discorso politico, portandosi dietro connotazioni evidentemente appartenenti al passato che non rispecchiano più la nostra quotidianità. Ma l’anacronismo in frangenti simili è un peccato di pigrizia e un lusso che non ci si può concedere, come dimostrano tre lustri di opinabili iniziative belliche che hanno seguito l’11 settembre statunitense e che in parte sono alla radice dei problemi attuali. leggi tutto

Renzi, il populismo e l’università italiana

Giovanni Bernardini - 15.10.2015

Cos’è questo populismo di cui i media si riempiono la bocca e contro il quale allertano l’opinione pubblica? Certamente populista è la deriva xenofoba caldeggiata da molte forze politiche europee indipendentemente dal loro grado di presentabilità. Lo è altrettanto la fuga da una seria analisi della realtà per trovare rifugio nel complottismo che impazza nel discorso pubblico. L’odio senza compromessi per il diverso, per nemici invisibili e inclassificabili (rivelati soltanto da leader che “vedono più lontano”) sono fantasmi che hanno già visitato le stagioni più nere di questo continente, e che si spera abbiano lasciato anticorpi sufficienti a prevenire ricadute. Tuttavia i casi appena citati sono manifestazioni episodiche di un fenomeno più ampio e sfuggente. Perché prima ancora di riempirsi di contenuti, il populismo è innanzitutto forma, metodo, approccio alla politica. Questo populismo ha come marchio la pretesa identificazione tra un leader e un intero popolo: il primo portavoce dei “reali” bisogni del secondo, contro “caste e potentati” e più ancora contro regole e procedure vissute come fastidiosi intralci. È la tentazione permanente delle spiegazioni e delle soluzioni facili, immediate, appetibili per i bassi istinti e redditizie in termini di consenso; è la mobilitazione di un epidermico risentimento anti-intellettuale contro chi, invece, avrebbe il compito di mettere in guardia sulla complessità del reale e contro illusorie scorciatoie. leggi tutto

Kos, i profughi e i confini dell’Europa

Giovanni Bernardini - 25.08.2015

“Una delle migliori destinazioni in Grecia, con siti archeologici, spiagge sabbiose e divertimento per tutti i gusti”. Per una volta la formula di prammatica dei depliant non colpisce lontano dal bersaglio: perché l’isola di Kos, nel Dodecaneso, si è affermata da tempo come l’ennesima, “normale” meraviglia estiva che la Grecia offre a prezzi tutto sommato abbordabili ai turisti europei e non solo. Quest’anno però l’isola è assurta agli onori della cronaca per un primato degli arrivi ben più difficile rispetto a quello consueto dei charter e dei traghetti da occidente, carichi di visitatori e dei loro risparmi per le vacanze. Perché un fazzoletto di mare, o un “braccio” a voler essere generosi, separa a nordest le coste di Kos da quelle della Turchia. Quest’ultima, dati alla mano, sta sopportando il maggior peso della disperata fuga per la sopravvivenza dal disastro siriano: ormai quasi due milioni d’individui, secondo le stime sicuramente al ribasso dell’UNHCR, che in percentuale considerevole guardano come approdo finale della loro odissea all’ingresso nell’Unione Europea. Di cui Kos, volente o nolente, si è scoperta porta d’ingresso e frontiera critica al pari di Lampedusa, Malta, Melilla, Orestiada. Rispetto ad altre destinazioni, però, l’isola greca ha mostrato nelle ultime settimane un’impreparazione comprensibile ma non meno preoccupante di fronte all’ingente flusso di rifugiati. In un paese la cui amministrazione pubblica ha già subito colpi gravi dalla crisi e dall’austerity, l’arrivo di circa 7.000 migranti leggi tutto

La crisi della Grecia e i guai dell’Europa

Giovanni Bernardini - 25.07.2015

L’estate è la stagione perfetta per i drammi mediatici: possibilmente brevi e intensi, segnati da aneddoti gustosi e coronati da finali edificanti. Non sfugge alla regola la vicenda greca delle ultime settimane e in particolare l’Eurosummit-fiume di metà mese, una lunga nottata insonne e nevrotica come si conviene a una simile messinscena. Un incontro durante il quale, secondo i beninformati, le proposte sono diventate slogan, le rivendicazioni gesti teatrali, le posizioni un mero riflesso delle personalità dei leader che le esprimevano o peggio ancora dei rispettivi “caratteri nazionali” (il tedesco inflessibile, il greco furbacchione). Il tutto in un’atmosfera che un’indiscrezione dall’interno ha definito laconicamente “shitty”, e per buona creanza lasciamo ai lettori l’onere della traduzione. Nelle stesse ore, voci e illazioni correvano soprattutto attraverso Twitter e la mannaia dei suoi 140 caratteri: inadeguati a rendere la complessità del dibattito in corso ma perfetti per colpi di scena e virgolettati a effetto.

A distanza di giorni urge un bilancio dei danni d’immagine che quel pessimo spettacolo ha arrecato all’Europa. A cominciare dall’idea malsana che il negoziato fosse un gioco a somma zero, nel quale la vittoria di una parte corrispondeva necessariamente alla capitolazione dell’altra. Altrettanto irritante è la logica delle tifoserie opposte che imperversa da settimane, tra chi dagli agi della Costa Smeralda invoca un addio volontario all’Euro da parte dei greci, che ne sconterebbero amaramente le conseguenze; e chi, armato di grafici e proiezioni più o meno fantasiosi, chiede loro di continuare a sottoporsi volenterosamente a ricette e sacrifici da cui non traggono alcun beneficio da tempo. leggi tutto

La sigaretta di Obama e lo stanco rituale del G7

Giovanni Bernardini - 16.06.2015

E un altro G7 è scivolato via tra boccali di birra formato bavarese, trite battute sui pantaloni di pelle locali, idilliaci bozzetti alpini di campanili acuminati. Evidentemente gli anni passano senza mutare l’odiosa tendenza dei vertici a fare delle località che li ospitano degli scialbi stereotipi. Grillinamente parlando, si sarebbe tentati di concludere che, se questa banale coreografia corrisponde all’immagine che i sette capi di governo hanno dei rispettivi paesi, c’è da dubitare delle loro ricette per il futuro. Si dirà: “non ci si fermi alle apparenze”. Ben volentieri, se non fosse che l’incontro ha dominato la stampa internazionale soprattutto per un increscioso dubbio che poco ha a che vedere coi contenuti: era una sigaretta quella che Obama stava estraendo nella foto insieme a Matteo Renzi? Analisi tecniche delle immagini, pugnaci pamphlet libertari che invitano il Presidente a non cedere ai bacchettoni, accuse d’incoerenza col salutismo professato altrove, fino all’apoteosi della smentita ufficiale (si badi bene: ufficiale) della Casa Bianca.

 

Apparenze anche queste, certo. Ma chi conosce la storia del G7 sa che l’apparenza non è mai secondaria. Risale al 1975 la convocazione del primo vertice, nel mezzo di una grave crisi economica e di enormi mutamenti globali che, a detta dei protagonisti, esigevano leggi tutto

L’immigrazione in Italia: un dibattito impazzito

Giovanni Bernardini - 14.05.2015

“Un paese impazzito che non pensa più al domani”. Così sbottava nove anni fa il Presidente del Consiglio Romano Prodi di fronte alla sollevazione degli interessi corporativi contro la sua prima legge finanziaria. “Impazzito sarà lui!”, replicò l’orgoglio patriottardo di una parte della nazione. Quasi un decennio più tardi, l’impressione è che Prodi abbia forse peccato di precisione ma non di lungimiranza nella scelta dei termini. Oggi l’opinione pubblica italiana ritratta dai sondaggi e dai commenti sui social media, assomiglia spaventosamente all’uomo medio descritto da Pasolini e Welles in un film di tanto tempo fa: “un mostro … razzista, colonialista, schiavista, qualunquista”. E nella scelta di un tema su cui misurare la schizofrenia del paese, l’immigrazione vince a mani basse.

Non servono le cifre, non valgono le verifiche, ogni cognizione di causa è sommersa da un furore disinformato, fomentato da irresponsabili in cerca di tornaconto politico. Nemmeno le pur innegabili responsabilità dei media bastano a spiegare come 79 (settantanove) nuovi rifugiati equivalgano a una minaccia mortale al benessere della Valle D’Aosta; o a dar conto delle bufale sull’“epidemia di scabbia”, mentre ogni dato dimostra che nessuna epidemia è in corso, e che tantomeno gli immigrati sono l’agente scatenante di una malattia mai debellata in Italia. E che dire dell’indistruttibile castroneria per cui lo stato darebbe “35€ al giorno a ogni immigrato”, cifra che si riferisce invece al rimborso concesso agli enti incaricati dal Ministero degli Interni per agevolare l’iter di richiesta dello status di rifugiato. Inutile aggiungere che questa precisazione restringe di molto il numero dei beneficiari, che la quota serve a garantire un trattamento efficace dei richiedenti (toh, anche per assicurarsi che non siano “portatori di epidemie”), e che i recenti casi di cattiva amministrazione o frode siano da addebitare a italianissimi responsabili. leggi tutto

“Questione tedesca” 2.0?

Giovanni Bernardini - 28.04.2015

Gli stereotipi sui caratteri nazionali, si sa, sono duri a morire. Secondo un vecchio adagio, se si chiedesse a persone di diversa nazionalità di scrivere un libro sugli elefanti, si otterrebbe da un francese il trattato “Mille modi di cucinare l’elefante”, mentre un inglese racconterebbe “La volta che ho sparato a quell’enorme elefante”; la versione statunitense spiegherebbe “Come fare elefanti migliori e più grandi”, e quella giapponese “Come costruire elefanti piccoli ed economici”. Quanto a un tedesco, egli non si metterebbe all’opera per meno di “L’elefante e la “questione tedesca” in VI volumi”. È pur vero che di questione tedesca si ragiona sia fuori che dentro i confini nazionali almeno dal 1871, quando l’unificazione della Germania trasformò profondamente l’Europa e i suoi equilibri di potenza. Le conseguenze di allora non hanno cessato di proiettare un’ombra lunga e tragica sui decenni a venire. Se sia il caso di ragionare ancora oggi in termini di “questione tedesca” è l’interrogativo che Hans Kundnani pone al centro del suo libro “The Paradox of German Power”. Il volume, sintetico e di facile lettura, costituisce tanto un rapido excursus storiografico quanto uno stimolo al dibattito sulla crisi attuale dell’Europa e sul ruolo giocato da Berlino. Dopo che la Guerra Fredda aveva risolto il problema in modo brutale con la divisione della Germania in due stati, dopo che l’indomani della riunificazione aveva fatto parlare di una definitiva “europeizzazione della Germania” in virtù del Trattato di Maastricht, ha ragione chi oggi grida leggi tutto

Obama e Cuba: ben più di una “Guerra Fredda” da seppellire

Giovanni Bernardini - 16.04.2015

Dean Rusk è stato il secondo più longevo Segretario di Stato (“ministro degli esteri”, per così dire) della storia statunitense, servendo sotto i due Presidenti Kennedy e Johnson per quasi tutti gli anni ’60 del secolo scorso. Le sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni ’90, racchiudono il resoconto personale di quella fase di escalation globale della “Guerra Fredda” culminata nel disastro della guerra del Vietnam, per la quale egli non è esente da gravi responsabilità. Tra gli episodi più drammatici del suo lungo mandato, Rusk ricorda nei dettagli il summit tra Kennedy e la sua controparte sovietica Krusciov tenuto a Vienna del 1961. Molte, troppe speranze aveva suscitato la possibilità che una stretta di mano di fronte agli occhi del mondo inaugurasse un nuovo clima di fiducia reciproca e contribuisse a chiudere i tanti rischiosi dossier sul tavolo del confronto bipolare, dalla competizione nucleare alla divisione di Berlino, alla questione di Cuba. Due mesi prima, il tentativo di uno sbarco controrivoluzionario di esuli cubani era fallito nella Baia dei Porci, rivelando l’evidente coinvolgimento statunitense e favorendo di fatto l’avvicinamento a Mosca del governo dell’isola. Il vertice di Vienna si risolse in un fiasco clamoroso tra pesanti accuse e minacce reciproche, dovute secondo Rusk proprio all’illusione che entrambi i protagonisti nutrivano sulle potenzialità di una diplomazia personale improvvisata e mediatica. Il braccio di ferro globale leggi tutto

Il TTIP e il futuro del “Mondo Atlantico”: una proposta di lettura

Giovanni Bernardini - 17.03.2015

Chi frequenta con regolarità Mente Politica, sa quanto spazio abbiano dedicato le sue pagine alla politica estera italiana e alle relazioni esterne dell’Unione Europea, confluite nel recente semestre di presidenza e nella nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresentante. Pure all’interno di una salutare diversità di opinioni, tali riflessioni nascono dalla convinzione condivisa che la superficialità e il disinteresse riservati alla politica estera dall’opinione pubblica costituiscano sintomi preoccupanti di provincialismo e impoverimento di una cittadinanza attiva e consapevole. Si ha talvolta l’impressione che alla lunga parabola della Guerra Fredda, con la sua evidente osmosi tra il gioco delle forze politiche interne e l’andamento delle questioni internazionali, sia seguita una fase di sterili contrapposizioni attorno alla presunta ineluttabilità della “globalizzazione” e dell’integrazione continentale. Ineluttabilità destituita di ogni fondamento: il fatto che si sia trattato e si tratti di processi apparentemente sovraordinati non significa che non rimanga spazio per l’azione collettiva e per il tentativo politicamente organizzato di plasmare i rapporti internazionali. Così come non aveva senso accordarsi al flusso degli euroentusiasti o dei pro-globalizzazione, convinti di aver finalmente rinvenuto in quei processi la “cifra della storia”, ancora meno sopportabile è l’atteggiamento arrendevole di chi continua ad accogliere il presunto declino dell’Europa come un castigo di origine ultraterrena o una catastrofe naturale inevitabile. leggi tutto

Il terrorismo, i barconi e la crisi dell’Europa: riflessioni sugli eventi di Copenaghen.

Giovanni Bernardini - 21.02.2015

Gli eventi che hanno recentemente sconvolto Copenaghen meritano riflessioni politiche ben più profonde delle strumentalizzazioni di chi cerca facili consensi sull’onda dell’emozione.  Certamente colpiscono alcune affinità con i giorni di follia che hanno sconvolto la capitale francese a inizio anno; e tuttavia pochi hanno insistito a sufficienza sul passaggio nelle rispettive patrie galere che ha accomunato i giovanissimi attentatori di Francia e Danimarca. Approfondire un fenomeno sociale così preoccupante non significa negare le responsabilità individuali dei colpevoli, ma porre le basi affinché il futuro comporti minori rischi collettivi. E quando delle istituzioni detentive ma anche correttive non adempiono alla loro missione, ma anzi danno a individui marginalizzati l’occasione di una nuova socializzazione criminale, è forse giunto il momento di un loro serio ripensamento. Va in questa direzione la bella e dolorosa lettera scritta da alcuni docenti della periferia di Parigi nei giorni successivi al massacro di gennaio: un appello all’autocritica per tutti coloro che, dai banchi di scuola fino all’esperienza carceraria, hanno lasciato i futuri attentatori ai margini di una piena consapevolezza dei valori repubblicani e della convivenza civile, parcheggiati “nelle cloache delle periferie”, e infine abbandonati in balia “di perversi manipolatori” capaci di offrire loro una prospettiva di vita (e di morte) più allettante di quella che li attendeva al ritorno alla libertà. Tutto questo implica una presa di coscienza della più grande e più amara delle verità, spesso celata leggi tutto