Ultimo Aggiornamento:
20 aprile 2024
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Vaccini: il rischio della paura

Franco Giovanetti * - 01.12.2015
Vaccinazione

In ambito clinico si è abituati a ragionare in termini di malattia-trattamento-risultato atteso (miglioramento o guarigione). I risultati sono tangibili e si ottengono in un tempo relativamente breve. Nel campo della vaccinazione le cose stanno diversamente: l’intervento sanitario agisce su di una persona sana e l’obiettivo è il mantenimento del suo stato di salute. Il soggetto era sano prima di vaccinarsi e rimane sano dopola vaccinazione. Apparentementenon è cambiato nulla, per cui il beneficio, al di fuori delle situazioni epidemiche, non è immediatamente tangibile. Sebbene le evidenze scientifiche dimostrino l’elevata sicurezza delle vaccinazioni pediatriche, è comprensibile che i genitori abbiano delle remore a somministrare un farmaco ad un bambino sano, soprattutto nei Paesi in cui è proprio grazie alle vaccinazioni che determinate malattie prevenibili sono scomparse o sono state fortemente ridimensionate. I programmi di vaccinazione solitamente attraversano tre fasi: nella prima fase, la malattia si manifesta in forma epidemica o comunque rappresenta un problema rilevante di sanità pubblica. La vaccinazione fa diminuire l’incidenza della malattia e il beneficio è evidente. Tuttavia nel lungo termine si perde la memoria collettiva della malattia e pertanto si riduce la percezione del rischio. Inizia così la seconda fase: la malattia è percepita come un problema irrilevante e le generazioni più giovani ne conoscono a malapena il nome, sicuramente ne ignoranola gravità. Contemporaneamenteemerge la paura del vaccino, vissuto come un intervento innaturale e poco utile, e si enfatizza il ruolo delle reazioni da vaccino; tra queste, alcune sono realmente imputabili al vaccino, altre sono attribuite ad esso senza che sia provato un nesso causale. Nella prima fase le persone potevano operare il confronto tra reazioni da vaccino e danni da malattia, e quindi era difficile trovare delle persone ostili alle vaccinazioni. Durante la seconda fase diventa tutto più complicato, perché manca un elemento diretto di confronto. Il risultato è una generale sfiducia verso le vaccinazioni: una quota più o meno consistente di genitori rifiuta di vaccinare i figli. Si entra così nella terza fase, che ci riporta alla casella di partenza: la malattia ritorna e, com’era accaduto nella prima fase, i programmi di vaccinazione producono nuovamente il loro effetto, che questa volta è chiaramente percepito dalla popolazione.

Il nostro Paese si trova attualmente nella seconda fase: per la prima volta la copertura vaccinale (ossia la percentuale dei vaccinati) è scesa, sebbene di poco, al di sotto del 95% su base nazionale per tutte le vaccinazioni pediatriche. La domanda è: ma in Italia le vaccinazioni non sono obbligatorie? Come spesso accade nel nostro Paese, la risposta è: sì e no. In un passato ormai piuttosto lontano, solo quattro vaccinazioni sono state dichiarate obbligatorie con una legge dello Stato: difterite, tetano, poliomielite, epatite B. Queste leggi prevedono una sanzione amministrativa (il pagamento di una multa) per chi non vaccina i figli. Per i vaccini raccomandati dopo il 1991 (anno dell’introduzione dell’antiepatite B) lo strumento dell’obbligo è stato abbandonato perché ritenuto inadatto al mutato contesto socio-culturale e una legge del 1998 consente l’iscrizione a scuola dei non vaccinati. Si è venuta così a creare una contraddizione: da un lato l’attuale suddivisione fra vaccinazioni obbligatorie e non obbligatorie non ha alcun senso dal punto di vista scientifico. Non c’è alcun motivo per cui una legge sancisca l’obbligo per l’epatite B e non per la pertosse e il morbillo, due malattie molto contagiose e responsabili di gravissime complicanze. Dall’altro lato la sanzione non è un deterrente efficace: ai genitori “obiettori” interessa soltanto che il bambino possa frequentare la scuola, mentre nei confronti della sanzione possono opporsi con un ricorso al Giudice di Pace. Mal che vada dovranno pagare la (modesta) sanzione pecuniaria, ma spesso il giudice ha dato loro ragione in nome della “libertà di scelta”.

Per sanare tale contraddizione, diverse Regioni italiane hanno sospeso le sanzioni (il Veneto ha sospeso l’obbligo tout court) e hanno implementato procedure di gestione del rifiuto, basate sull’informazione e il dialogo con i genitori. Al termine del percorso, coloro che persistono nel dissenso sottoscrivono una dichiarazione di “rifiuto informato”.

Attualmente siamo ad un bivio: continuare lungo la strada di una sostanziale tolleranza del fenomeno oppure introdurre una qualche forma di obbligo? Ultimamente da più parti è emersa la seconda ipotesi, con una proposta che individua le vaccinazioni come un requisito per l’iscrizione a scuola. Potrebbe funzionare? Non lo sappiamo, ma dobbiamo tenere a mente che una strategia di questo tipo ha bisogno di un vasto consenso popolare (al momento niente affatto scontato, in un Paese di individualisti come l’Italia), deve essere applicabile (le leggi italiane spesso sono confuse e ambigue) e deve essere accompagnata da una convincente attività di informazione della popolazione. Troppo spesso in Italia si pensa che sia sufficiente una legge per risolvere i problemi. Spesso occorre invece cambiare le teste, ed è questa l’impresa più difficile.

 

 

 

 

* Epidemiologo, Servizio Profilassi Malattie Infettive e Medicina dei Viaggi, ASL Alba Bra