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20 aprile 2024
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Università: non bastano le classifiche

Michele Iscra * - 25.07.2015
Erasmus

Nel momento in cui gli studenti e le famiglie devono decidere, terminata la fase della maturità, quale ateneo scegliere per affrontare l’ultimo livello della loro formazione arrivano le classifiche sulle varie sedi. E’ uscita quella de “Il Sole 24 Ore” seguita subito da quella di “Repubblica” su dati del Censis.

E’ un meccanismo che ormai ha acquisito una certa tradizione ed è stata senz’altro una innovazione utile. In una fase in cui le risorse finanziarie scarseggiano e di conseguenza gli atenei hanno gran bisogno di non perdere studenti, perché le tasse sono una entrata importante, Senati accademici, Rettori e Consigli di Amministrazione una certa attenzione a questi posizionamenti la concedono e di conseguenza orientano almeno in parte spesa e investimenti. Soprattutto è molto utile che si riaffermi il fatto che tutti devono abituarsi ad essere giudicati: non è un principio facile da far accettare all’accademia, ma è un passo avanti assolutamente necessario.

Certo esistono tante scappatoie per sottrarsi al peso di questi giudizi, come ne esistono per trarne stimolo per l’immobilismo. La più facile delle prime è rifugiarsi nella considerazione che sono valutazioni fatte su parametri numerici, per loro natura abbastanza astratti. Per dire: nel valutare l’internazionalizzazione,  che uno mandi studenti all’università di Cambridge o a quella di Tuzla cambia poco, conta il numero di scambi Erasmus (oggi hanno un altro nome, ma si continua a chiamarli così), così come conta quanti docenti dall’estero si chiamano per un periodo sufficientemente lungo. Poi nessuno valuta che un docente di alto livello è difficilissimo spostarlo, specie facendolo venire in Italia, per un periodo lungo, mentre è più facile farlo con docenti di livello più basso.

Non sono critiche infondate, ma superarle richiederebbe un lavoro di analisi ravvicinata nel merito non solo Ateneo per Ateneo, ma corso di laurea per corso di laurea: un’impresa che richiederebbe risorse notevolissime e gran dispendio di tempo, cose che nessuno è disposto ad impiegare.

Paradossalmente le stesse ragioni favoriscono l’immobilismo: scoperto come vengono fatte le classifiche si trova anche il modo di scalarle con la minima fatica, puntando più ad avere “numeri” formalmente in grado di far fare passi avanti piuttosto che promuovere sostanziali riforme che alzino certi livelli di prestazione, ma con cui, non di rado, si pestano i piedi ai detentori di assetti consolidati.

Detto questo, rimaniamo dell’idea che è meglio avere delle classifiche imprecise che non averne. Tuttavia va subito aggiunto che queste classifiche non bastano a rompere le resistenze che il sistema oppone ad essere valutato. Basti pensare che quando in una proposta di legge si è ventilato di dare rilievo alla qualità dell’Ateneo in cui si consegue un titolo e di valutare il punteggio di laurea ottenuto con le medie dei punteggi che si distribuiscono, c’è stata una rivolta e non se ne è fatto nulla. Si sarebbe visto che esistono Atenei dove i voti alti si danno spensieratamente, senza dire che ottenere una valutazione alta in corsi con docenti di non alta qualità è di solito più facile che ottenerli dove insegnano studiosi rigorosi.

Tutto questo ci spinge a ricordare che accanto ai parametri che si usano per il tipo di classifiche sopra ricordate sarebbe bene mettere una seria valutazione del livello di ricerca e della qualità del personale docente. Anche qui siamo in un campo in cui si cerca faticosamente di recuperare il tempo perduto.

Sta finalmente per partire la valutazione della ricerca in capo all’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR). Si tratta della seconda tornata di valutazioni che parte in ritardo, ma con l’ambizione di correggere qualche errore e qualche imprecisione che si è registrata nell’edizione precedente.

Dire che il sistema accademico e della ricerca attende con ansia questa prova sarebbe mentire platealmente. Eppure solo una seria ed articolata valutazione del “valore” in questo delicato settore può darci veramente la fotografia del posizionamento del nostro sistema di formazione superiore, dove è impossibile parlare di qualità competitiva se non esiste un alto standard della ricerca.

Che sia una impresa difficile è fuori dubbio. Il primo problema è ovviamente quello di evitare che i “giudici” siano persone che semplicemente innalzano il loro personale modo di pensare a standard internazionale. E’ un’operazione molto più difficile nelle “scienze dure” che hanno oramai un livello di integrazione internazionale che rende difficile un’operazione del genere (o piuttosto: che rende difficile farla senza essere smascherati, perché in alcuni campi si son viste anche cose davvero poco commendevoli). Si tratta invece di una tentazione molto diffusa nelle scienze umane e sociali dove le barriere linguistiche e anche il peso di certe tradizioni delle “culture nazionali” rendono difficile la creazione di adeguati standard internazionali.

Anche qui ci vorrebbe uno scatto d coraggio, quantomeno uscendo dalla pia menzogna che il compito dell’ANVUR è valutare le strutture e non i singoli, perché così il sistema protegge le solidarietà perverse, impedendo che sia noto chi è sotto gli standard accettabili e chi invece nonostante tutto rende credibile il nostro sistema a livello internazionale.

 

 

 

 

*Studioso di sistemi politici e culturali