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Una campagna tra il pessimo e il drammatico

Michele Marchi - 22.04.2017
Elezioni Francia 2017

È accaduto ciò che tutti temevano e che molti avevano preventivato a mezza voce. A settantadue ore dall’apertura dei seggi per una delle elezioni più decisive nella storia del continente  europeo dal 1945 ad oggi è arrivato l’ennesimo atto terroristico. Due anni e tre mesi dopo Charlie Hebdo la Francia, e in particolare la sua vetrina sul mondo, Parigi, sono ancora sotto assedio.

Che effetto avrà tutto ciò sul voto del 23 aprile? È impossibile saperlo e chi si avventura in ipotesi e previsioni finisce per affidarsi al caso, piuttosto che alla riflessione.

Quello che si può fare è invece un punto complessivo sulla campagna elettorale e poi collegare la stessa all’ultimo evento.

Ebbene la campagna per il voto presidenziale del 2017 è stata una pessima campagna. Non nel senso che i toni siano stati alti e il dibattito incivile. Da questo punto di vista ci si è mossi nella norma. La campagna elettorale è stata pessima perché non ha avuto uno o più temi trainanti. I candidati con possibilità di raggiungere il ballottaggio, quindi sostanzialmente cinque (anche se Hamon si è ben presto staccato dai primi quattro, almeno secondo i sondaggi) non si sono impegnati in un’operazione di organica spiegazione ed illustrazione di una piattaforma coerente di risoluzione dei principali mali di cui soffre, oggettivamente, il Paese. In fondo i quattro grandi mali francesi sono noti oramai da un trentennio. Disoccupazione cronica, spesa pubblica fuori controllo unita ad un elevato prelievo fiscale, fallimento dei meccanismi di integrazione e crisi identitaria, soprattutto legata alla collocazione del Paese nello spazio comunitario risalgono ai primi anni Novanta del secolo passato. I principali candidati qualche volta li hanno affrontati, ma selettivamente e in maniera episodica e senza offrire all’opinione pubblica ricette per risolverli, ma soprattutto non facendo lo sforzo di far prendere coscienza, ai propri cittadini, di quanto profonde siano tali criticità.

Che cosa si è fatto in sostituzione? In larga parte - lo hanno fatto senza dubbio Macron, Marine Le Pen e Mélenchon, ma in parte anche Fillon e Hamon - , ci si è presentati come candidati anti-sistema. Macron ha costruito tutta la campagna elettorale sulla necessità di scardinare la logica sinistra/destra, esplicitamente creando un nuovo “movimento” e non un partito e proponendo una nuova (davvero nuova?) divaricazione tra “innovatori” e “frenatori”, tra progressisti e conservatori, tra mondialisti/europeisti e localisti/nazionalisti.

Marine Le Pen ha riproposto un mix tra il poujadismo anni Cinquanta e il neo-trumpismo del XXI secolo, sfruttando le fratture tra la cosiddetta Francia metropolitana e quella periurbana.

Mélenchon si è scrollato di dosso l’immagine del candidato dell’ultra-sinistra per presentarsi come il tribuno rifondatore di una fantomatica VI Repubblica, in grado di ricreare i legami con la Francia delle origini: egualitaria, laica e fraterna.

Fillon e Hamon sono diventati dei bersagli facili, chiari rappresentanti di quella tradizione bipolare e quinto repubblicana da scardinare. Hamon vi è rimasto completamente schiacciato. Fillon, travolto da ben altri scandali, ha risposto con un mix tra desiderio di riformare il sistema e capacità di garantire professionalità e competenza grazie alla sua lunga carriera di ministro e ai cinque anni come Primo ministro. E per questo, oltre che per un’indubbia tenacia (e ambizione), non è stato travolto dall’onda mediatica successiva al cosiddetto Penelope gate.

Il tema terrorismo, paradossalmente ma fino ad un certo punto, era quasi stato marginalizzato dalla campagna elettorale. Uscito dalla porta, esso è rientrato drammaticamente dalla finestra. Chi favorirà? Chi penalizzerà? Impossibile dirlo. Un elemento certo però esiste: questo caso, si spera isolato, di risorgenza della minaccia terroristica riporta al centro dell’attenzione alcune caratteristiche peculiari della Quinta Repubblica e in particolare dei poteri del suo presidente, il régalien e il domaine réservé, la gestione dello stato d’emergenza e della proiezione di politica internazionale del Paese nella grande crisi del terrorismo internazionale.

In questo senso si può senza dubbio affermare che la logica anti-sistemica esce penalizzata. In una congiuntura di oggettiva minaccia, che senso ha scardinare il sistema? Se il nemico è esterno e la sua minaccia è mortale, ha senso dividersi e rimettere in discussione i fondamenti stessi del sistema?

Secondo questa logica i due candidati più penalizzati dovrebbero essere il “tribuno” e fautore della VI Repubblica, Mélenchon, e il “novizio”, colui che fa della sua mancanza di esperienza politica un vanto. Macron stesso potrebbe in parte surrogare questa sua oggettiva scarsa esperienza, ricordando il suo “mentore” della prima ora, François Hollande. Parlando di  “presidente protettore”, subito dopo l’attacco sugli Champs Elysées, Macron sembrava parafrasare Hollande. Peraltro proprio i quattro anni scarsi trascorsi accanto ad Hollande all’Eliseo e poi al governo, costituiscono la sola “educazione politica” che Macron possa vantare. In questo modo la sua candidatura, almeno in parte, si normalizzerebbe e potrebbe tranquillizzare quell’elettorato che dubita sul suo essere “all’altezza del ruolo”. D’altra parte, però, potrebbe infastidire chi lo sta sostenendo in quanto “volto presentabile” della logica anti-sistema.

Mélenchon è di certo colui che più ha da perdere dal ritorno in auge del cosiddetto monarca repubblicano. Come potrebbe “difendere il suo popolo” senza rimettere mano ad una complessiva riforma delle istituzioni? Ma tutto ciò è praticabile considerate le minacce in atto?

Quelli al contrario più favoriti dovrebbero essere invece Marine Le Pen e François Fillon.

Marine Le Pen resta, per la maggioranza dei francesi, l’anti-sistema per antonomasia ma non abbastanza presentabile (almeno secondo i sondaggi) per conquistare l’Eliseo. L’ennesimo atto terroristico può far aumentare le sue possibilità? Difficile dirlo. Quello che è certo è un altro dato: il suo punto di vista politico-culturale sulla complessiva crisi terroristica (frontiere, migrazioni, crisi sociale) trova nuova linfa dopo un atto terroristico. Attenzione però: l’attentato di giovedì sera  e quelli che, in maniera un po’ maldestra, ha affermato la leder del FN potrebbero aversi nelle prossime ore, potrebbero anche avere  effetti non del tutto positivi per la leader del Fn. È vero che Marine Le Pen denuncia da anni le carenze del sistema di sicurezza e quelle del modello di integrazione. Ma allo stesso tempo l’impressione è che non la si ritenga politicamente abbastanza credibile per governare, a maggior ragione in una congiuntura così critica.

Resta François Fillon che non a caso ha, immediatamente dopo il nuovo attentato, ricordato la lunga militanza ministeriale e i cinque anni trascorsi a Matignon. Chi meglio di lui potrebbe avere le competenze per ridare solidità e capacità operativa agli apparati di sicurezza e prevenzione, così come per integrare piano della politica estera, piano della politica europea e piano della politica interna? Questa è la carta che Fillon ha deciso di giocarsi.  

Nonostante tutte queste speculazioni i quattro candidati, almeno secondo l’ultimo sondaggio, oscillano tra il 23% di Macron e il 18% di Mélenchon, con in mezzo il 22% di Marine Le Pen e il 21% di Fillon.

La campagna della sfiducia e del trionfo dell’anti-sistema si è trovata costretta ad affrontare il demone del nostro tempo: il terrorismo di matrice islamica.  La campagna da pessima si tramuta, inevitabilmente, in drammatica.