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Un governo di transizione?

Paolo Pombeni - 14.12.2016
Renzi e Gentiloni

E’ troppo semplicistico liquidare il governo Gentiloni come “fotocopia” o come “avatar” di quello Renzi. La situazione è ben più complessa e proviamo ad analizzarla.

Il primo dato è prendere consapevolezza che è stata rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche qualsiasi ipotesi di un governo istituzionale di tregua. Basandosi su una analisi tutta da verificare, quella che vorrebbe interpretare il risultato referendario come bocciatura irreversibile del renzismo, coloro che più o meno apertamente si sono intestati quel risultato hanno ritenuto che fosse conveniente costringere la compagine renziana a continuare a logorarsi al governo. Di qui la sostanziale preclusione ad avere una soluzione che consegnasse il passato alla storia varando una compagine che apparisse e possibilmente fosse al di sopra dei conflitti politici attuali,  in attesa che fossero le urne a decidere la nuova geografia politica del potere. Aggiungiamoci subito che questa soluzione non andava bene neppure al premier disarcionato malamente dal risultato referendario.

Si doveva di conseguenza varare un governo politico che avesse a sostegno una maggioranza parlamentare: impresa molto complicata quando si era in presenza del partito di maggioranza relativa dilaniato da lotte interne e perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.

Al tempo stesso questo governo doveva apparire come una costruzione solida e non come un tappabuchi tanto per far passare il tempo necessario per tornare alle urne. La velocità, per non dire la fretta con cui si è dovuto chiudere la crisi di governo testimonia come non ci si potesse permettere di lasciare che il nostro paese fosse preda della convinzione internazionale di avere a che fare con una palude da cui non ci si può attendere nulla di buono. La vicenda niente affatto secondaria del Monte dei Paschi di Siena è lì a testimoniare che quel rischio non è una invenzione di coloro che vorrebbero tenere tutto fermo evitando il ricorso immediato alle urne.

Come si poteva risolvere questo rebus, che, immaginiamo, era perfettamente presente al Presidente Mattarella ed al suo staff? La prima esigenza era quella di non certificare davanti all’opinione pubblica internazionale l’immagine di un paese che era stato per tre anni nelle mani di un bulletto che aveva molto predicato e poco combinato. Tutti gli analisti responsabili, anche quelli che hanno poca o nulla simpatia per Renzi, riconoscono che quel governo ha fatto molte cose buone rimettendo in moto una situazione che pareva incancrenita. Di qui la necessità di confermare per quanto possibile il personale politico di quel governo, la cui sostituzione sarebbe suonata come una sconfessione delle politiche seguite. Questo fino al punto di confermare qualche ministro che non era proprio considerato la scelta migliore, ma la cui sostituzione avrebbe potuto essere letta come una sconfessione della sua politica.

In fondo l’unica eccezione da questo punto di vista è stata la rimozione della ministro Giannini, ma lei ha pagato non solo una politica scolastica mal gestita, ma anche un giudizio di inadeguatezza che negli ambienti della ricerca e dell’università era molto diffuso. Aggiungiamoci che il suo disinvolto passaggio da Scelta Civica al PD non è stato esattamente interpretato come una grande conversione sulla via di Damasco, ma come qualcosa mosso da elementi molto più terreni.

Questo elemento “confermativo” di quanto si è costruito negli anni del governo Renzi doveva però saldarsi con la costruzione di una situazione parlamentare che desse al nuovo governo qualche garanzia di tenuta. Ciò è stato raggiunto creando un esecutivo che letteralmente costringesse il PD a sostenerlo. La scelta per una maggioranza risicata al Senato con il rifiuto della stampella del gruppo di Verdini non è dovuta solo al calcolo di non appesantire la propria immagine col ricorso al sostegno di un gruppo non proprio caratterizzato da una luminosa immagine di progettualità politica. Certo c’era anche quello, perché si trattava di privare di un facile argomento polemico gli oppositori, specie quelli della sinistra interna ed esterna al PD, ma non bastava (e poi vedremo se quel che si è negato oggi non rientrerà con la solita fiera dei sottosegretari).

La ragione fondamentale è, a nostro giudizio, costringere il PD nel suo complesso a scoprire il suo gioco, impedendo che una sua parte possa “distinguersi” dall’esecutivo post-renziano senza pagare il pegno della crisi di governo. Con i numeri attuali quel giochetto è praticamente impossibile e Bersani si illude quando pensa di avere ancora quel colpo in canna: se farà cadere il governo Gentiloni bocciandogli qualche legge si caricherà di una responsabilità in grado di travolgerlo.

Certo quanto abbiamo detto non nega che ci troviamo davanti ad un classico governo di transizione, o, come lo ha pudicamente definito il premier Gentiloni, “di responsabilità”. Ha dovuto pagare dei prezzi alla necessità di tenere insieme il partito di maggioranza relativa e i suoi alleati minori, ma si vedrà quanto sono salati. Se disponessimo nella classe politica, anche in quella più giovane e “nuova”, di una qualche cultura tipo quella di chi accetta di essere “riserva della Repubblica” andrebbe meglio. Ma è una qualità che rischia di fare il paio con il coraggio di don Abbondio: se uno/a non ce l’ha non se la può dare. Più ottimisticamente si potrebbe sperare che la acquisisca maturando col tempo. In fondo è successo anche nella storia personale di Paolo Gentiloni.