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Si fa presto a dire: modello tedesco

Paolo Pombeni - 31.05.2017
Legge elettorale modello tedesco

L’accordo piuttosto ampio che sembra si sia trovato su una riforma elettorale che si ispira al modello tedesco riflette al momento una semplice realtà: ciò che interessa ai partiti importanti è contarsi e contenere le fughe degli elettori,  anche marginali, nei partitini, che però complicano qualsiasi ipotesi di ricerca di un possibile assetto di governo. Tutto è naturalmente ancora in fieri e si vedrà come può finire, ma l’orientamento è più o meno questo.

Che non si tratti di importare davvero il modello tedesco è già stato sottolineato da vari osservatori: noi abbiamo un sistema di doppia fiducia (Camera e Senato) che non esiste in Germania; non c’è la sfiducia costruttiva; ma soprattutto non abbiamo il voto disgiunto fra scelta che l’elettore fa per il collegio e scelta per la quota proporzionale. In più c’è, e lo vedremo, il pasticcio di regolamenti parlamentari su cui si possono infrangere molti tentativi di razionalizzazione.

Il punto a nostro giudizio più interessante è la mancanza, almeno nell’attuale bozza di legge, del voto disgiunto fra voto di collegio e voto per il proporzionale. Si dirà che in Germania, dove questa possibilità esiste, in realtà non incide più di tanto, perché non sono molti i casi di elettori che per il collegio votano un candidato che fa riferimento ad un partito diverso da quello per cui si opta nella quota proporzionale. Ci permettiamo di invitare a considerare che in Italia le cose potrebbero essere diverse.

In presenza di partiti che tendono ad imporre semplicemente le loro “nomenklature” sarebbe interessante aprire la possibilità agli elettori di ribellarsi a queste imposizioni. Ciò potrebbe spingere i partiti ad essere più oculati nella scelta dei candidati di collegio e soprattutto potrebbe portare tutti a puntare su personalità in grado di travolgere le ormai obsolete barriere di scelte ideologiche poco significative. Ci sarebbe una qualche spinta a puntare su personalità dal profilo molto presentabile, soprattutto tenendo conto che si tratta di un voto a turno unico e dunque è improbabile il meccanismo del tutti contro il candidato più accreditato come è avvenuto non di rado nei ballottaggi per la scelta dei sindaci.

E’ purtroppo improbabile che questo avvenga, proprio perché tutti i grandi partiti non hanno interesse a questo tipo di competizioni. Avrebbero interesse a farlo i piccoli anziché rincorrere un abbassamento della soglia di ingresso: è con la minaccia di schierare nel collegio una personalità rilevante che il piccolo partito potrebbe mettere in crisi il competitore “grosso” costringendolo a venire ad un negoziato. Ma ci vorrebbero piccoli partiti retti da personalità di qualche rilievo, il che non è.

Il secondo punto da tenere in considerazione è come evitare che la soglia di sbarramento al 5% possa essere ridotta ad una tigre di carta. Sappiamo che per esempio nell’estrema sinistra alcuni hanno visto con favore lo sbarramento ritenendo che questo avrebbe costretto i vari cespuglietti dell’area a coalizzarsi in una sola formazione, in questo caso non avendo probabilmente problemi a superare la soglia. Forse ciò potrebbe funzionare anche coi centristi. Benissimo, perché razionalizzerebbe il sistema, a patto però che non avvenga, come si è visto in passato, che quelli sono i famosi “cartelli di un minuto” (quello elettorale), perché poi in Parlamento la coalizione si ridivide nei vari gruppuscoli e saremmo punto ed a capo. Infatti il tema vero non è quanti “partiti” escono dal calcolo delle urne, ma quanti partiti poi ci saranno in Parlamento. Non vorremmo tornare ai tempi dell’Unione di Prodi, quando i partiti nella coalizione di governo erano 22 per cui per accontentare tutti si dovette fare un esecutivo che fra ministri, sottosegretari ed altro aveva 110 membri.

Quel che tutti temono è che comunque, con quale che sia dei sistemi elettorali oggi possibili, cioè o il “tedesco”, o i moncherini di sistemi lasciatici dalle pronunce della Consulta un po’ rimpannucciate, non si riuscirà ad avere un governo in grado di affrontare i nodi della nostra situazione economica e sociale. Non è una previsione difficile da fare, perché non si potrà prescindere da un governo di coalizione e una coalizione con qualche omogeneità è piuttosto difficile da immaginare. Persino quelle che sulla carta rispondono ai precetti che tanto piacciono ai nostalgici delle vecchie fratture, cioè maggioranze o di centrosinistra o di centrodestra, sarebbero fatte fra gruppi la cui omogeneità è inesistente. Tanto per restare ai casi concreti non si può davvero immaginare che una componente come Mdp che si impunta su una sciocchezza come le modeste norme per regolare un po’ di lavoro marginale (lo 0,2% del complesso dell’impiego!!) giusto per compiacere il vetero sindacalismo dei vertici CGIL possa non creare problemi ad un governo col PD. O che, sull’altro fronte, un governo FI-Lega possa sortire una reale visione comune dei problemi del paese.

Il grande nodo del futuro italiano è in questa difficoltà di costruire una cultura politica di base che offra un orizzonte per affrontare sfide che diventano sempre più complicate (si pensi anche solo a quel che è successo al G7 a Taormina…). Purtroppo nessun sistema elettorale può da solo sciogliere questo nodo.