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17 aprile 2024
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Renzi, la destra e la sinistra

Paolo Pombeni - 20.10.2015
Matteo Renzi e Beppe Grillo

Chissà se la sinistra dem considera anche Deng Xiaoping poco di sinistra. Probabilmente sì, visto che l’uomo che andò al timone della Cina dopo la liquidazione della rivoluzione culturale e la fine della banda dei quattro non era solo quello che sosteneva che il capitalismo non era incompatibile col comunismo, ma anche quello che affermava che non importava se i gatti erano rossi o neri, l’importante era che pigliassero i topi.

Non stiamo buttando lì battute, perché la questione è piuttosto seria. Alla obiezione che diminuire le tasse non sarebbe di sinistra, Renzi ha risposto, come era prevedibile, che non si trattava di fare una cosa di destra o di sinistra, ma di fare la cosa giusta. Risposta dialetticamente forte e adatta al grande pubblico, ma che non affronta appieno la questione del perché in Italia stiamo ancora a giocare la partita politica con queste battaglie sull’ortodossia ideologica delle scelte anziché ragionare su cosa serva veramente ad un paese come il nostro che ogni giorno mette a nudo sempre di più la disastrata situazione delle sue strutture.

A stare a quanto appassiona una parte della classe politica del PD la questione fondamentale sarebbe decidere se sia meglio tornare ad una prospettiva “ulivista” o se valga la pena di andare avanti nella linea della creazione del “partito della nazione”. A ben guardare, in sé sono due etichette vuote che servono a nascondere, sia una lotta di potere fra classi dirigenti vecchie e nuove, sia una incapacità di valutare il cambiamento di orizzonte politico che si sta realizzando.

La prospettiva “ulivista” è un modo gentile per propagandare l’idea del ritorno come macchina elettorale alla grande coalizione di sinistra. Che abbia funzionato piuttosto male anche ai bei tempi sembra un fatto dimenticato. Almeno però sarebbe da ricordare che quella scelta era basata sulla presunzione che si potesse aggregare un “fronte progressista” dove mettere insieme le tradizioni riformatrici italiane, da quelle cattoliche a quelle della nuova sinistra ( e si discuteva se a tenerle insieme servisse una egemonia degli eredi del PCI o il “papa straniero” Romano Prodi). Sulla omogeneità, o almeno sulla omogeneazzibilità di quelle forze allora si fecero poche riflessioni e a posteriori non ci si vuole ritornare sopra. Resta il fatto che furono esperienze fallite perché non riuscirono a durare abbastanza nel tempo per poter incidere e lasciare il segno.

Lo slogan del “partito della nazione” è una brillante invenzione lessicale per dire che in una fase apparentemente post-ideologica c’è spazio per tornare al vecchio “partito pigliatutto” che teneva insieme destra e sinistra, imprenditori e sindacati, progressisti e conservatori. I modelli erano i partiti democratico-cristiani europei (non solo quello italiano). Anche in questo caso si evita l’imbarazzante questione del perché quei partiti non esistano più da nessuna parte con quella tipologia, essendo stati costretti, dove sopravvivono, a settorializzare la loro raccolta del consenso.

Oggi entrambe le soluzioni appaiono piuttosto impraticabili, almeno in Italia. Il partito “ulivista” poteva proporsi sulla base della divisione del paese fra berlusconiani e antiberlusconiani. Era un opzione relativa ad un sistema di bipartitismo imperfetto, per riprendere una vecchia formula. Oggi quel dualismo non esiste più, sia perché i due campi sono abbondantemente divisi al loro interno, sia perché è arrivato il terzo incomodo, il Movimento Cinque Stelle, che ripropone la via di fuga dalle difficoltà attuali con l’assunzione al potere dell’utopia (ed ha gran successo, bisogna tenerne conto).

Il “partito della nazione” avrebbe bisogno per esistere di una idea di nazione, di una identificazione abbastanza larga con una “comunità nazionale” coi suoi valori e le sue regole condivise. Vederla in un paese percorso da lotte tribali, sfascio delle amministrazioni pubbliche, discredito delle classi politiche, è impresa ardua.

Quello che Renzi sta cercando di mettere in piedi è un classico partito di raccolta del consenso per obiettivi, senza chiedersi troppo in quale ideologia essi possano essere incasellati. In un certo senso è una prospettiva limitata del ruolo della politica che si pone più il tema di risolvere i problemi di un presente complicato che non quello di programmare gli sviluppi del futuro che rimane avvolto nelle nebbie. Per questo si lascia alle spalle i dilemmi fra destra e sinistra e punta invece alla raccolta del consenso più largo possibile, perché ritiene che solo con un consenso largo, alla cui acquisizione qualche prezzo bisogna pur pagarlo, si possa forzare il superamento delle vischiosità e feudalizzazioni che abbiamo ereditato da un passato di crisi profonda del nostro sistema politico e sociale.

E’ per questa prospettiva che il dualismo si sta profilando come uno scontro fra la proposta di Renzi e quella di Grillo. Entrambi condividono l’analisi, magari rozza ma intuitivamente forte, che bisogna portare il paese fuori dalle paludi in cui è finito. Il primo suppone di poterlo fare legando progressivamente a se tutti i “rottamatori” per necessità o per interesse, il secondo chiamando al suo seguito tutti quelli che credono che la salvezza sia possibile solo in una palingenesi totale.