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27 marzo 2024
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Renzi e il problema del partito

Paolo Pombeni - 15.03.2017
Maurice Duverger

Ci sono modi diversi di analizzare la situazione attuale in cui versa Matteo Renzi, ma di conseguenza in cui versano anche i suoi avversari. A noi sembra si stia sottovalutando la questione del partito, che non può essere ridotta al folklore degli scontri mediatici.

Nell’analisi della politologia tradizionale, quella che per intenderci faceva capo a Maurice Duverger, c’erano classificazioni canoniche: i partiti si distinguevano in partiti di massa e partiti di quadri, mentre la cerchia di chi faceva riferimento ad un partito era distinta in elettori (coloro che si limitavano a votarlo), simpatizzanti (coloro che dichiaravano pubblicamente la propria scelta elettorale) e militanti (coloro che iscrivendosi formalmente al partito partecipavano alla formazione della sua volontà politica).

Basta ripercorrere queste classificazioni per capire come sia mutata la “forma partito” con cui Renzi deve fare i conti. Innanzitutto il PD secondo un approccio tradizionale dovrebbe essere considerato un partito di massa, mentre ci pare abbastanza evidente che sia ormai un partito di quadri. I nostalgici della “ditta” non si arrendono ed evocano “il nostro popolo” che fa volontariato alle feste di partito, ma ci vuole fantasia per considerare questa pur apprezzabilissima componente come una “massa”, soprattutto con una massa a cui si indirizzano e in cui si immergono i dirigenti per sostenere una elaborazione politica. Piuttosto il PD è un partito di quadri, in parte allevati in quel che era sopravvissuto degli antichi partiti fra prima e seconda repubblica, in parte cooptati da ceti dirigenti interessati a mettersi in gioco sul terreno politico (che è ancora dominante per tanta parte del nostro universo economico e sociale).

Quanto ai gradi di adesione ad un partito ormai la confusione è somma. L’introduzione del meccanismo delle “primarie” ha depotenziato il peso dei militanti, peraltro con notevoli difficoltà ad “incidere” anche a prescindere da queste. Gli elettori sono stati promossi a categoria dominante di riferimento, ma non si sa bene come identificarli: di nuovo le “primarie” sono meccanismi basati sull’autocertificazione di chi vi partecipa, con tutte le possibilità di inquinamento che abbiamo visto. I simpatizzanti non si sa bene come possano essere definiti, se si eccettua per coloro i quali possono far pesare il proprio “endorsment” nel circo mediatico.

Renzi si trova a fare i conti con questo panorama e prova a dargli forma. Da un lato non può fare a meno né del partito di quadri né del peso dei simpatizzanti-elettori. Dal lato opposto sa che né l’uno né l’altro sono veramente determinanti per consentirgli di vincere la battaglia decisiva, che è quella delle urne, dove il successo può venire solo dalla capacità di andare oltre le due cerchie di cui sopra.

Certo si può ammirare la abilità del leader nell’inventare slogan non privi di fondamento: un partito che sia di eredi (di una grande tradizione) e non di reduci (delle passate forme organizzative); un partito che non sia né “pesante”, né “leggero”, ma “pensante”; un partito i cui “circoli” siano sportelli per il sostegno e l’organizzazione delle necessità sociali;  e via di questo passo. Tuttavia ci si chiede quanto ciò possa bastare, perché la questione è un’altra: nel momento in cui tutto tende a non incentrarsi più sull’inquadramento più o meno ideologico delle componenti sociali, inevitabilmente il compito fondamentale di un partito diventa quello di essere una macchina elettorale per la conquista del governo.

E’ questa nuova prospettiva che cambia la richiesta di leadership, tanto più in presenza di un orizzonte in cui agiranno sistemi elettorali pasticciati che sosterranno le pulsioni alla frammentazione della rappresentanza sociale. La sfida che ha di fronte il PD è quella che viene dal M5S che si candida a risolvere la crisi italiana facendo tabula rasa dei riferimenti ai tradizionali circuiti delle elite politico-sociali: non si può sottovalutare che più o meno furbescamente qualche componente di quelle elite cominci ad accarezzare l’idea di scommettere sulla forza di quel terremoto sociale.

Se il PD vuole sopravvivere non può sottrarsi dall’accettare la posizione che gli è assegnata in questo momento di transizione: riuscire a diventare il regista e il principale attore della stabilizzazione del sistema italiano facendo perno sul ruolo che può esercitare al governo. Certo questo ha dei costi non lievi. Deve accettare di lasciarsi alle spalle le fantasie passatiste e nostalgiche, ma deve anche trovare la forza per lanciare nuovi orizzonti identitari, gli unici che possano prosciugare l’acqua in cui nuotano i pesci dei vari reducismi. Questo impone un’opera di rifondazione culturale e morale che segni con forza il distacco dal modo di gestione della politica italiana che è divenuto tradizionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando ci si illuse che quella fosse la via per ricomporre una volta per tutte la frattura con la generazione che alla fine degli anni Sessanta entrava sulla scena pubblica.

E’ una scelta tutt’altro che facile, perché entra in conflitto col “partito di quadri”, perché richiede strumenti di socializzazione del percorso morale e culturale che oggi non ci sono, perché richiede il coraggio di affrontare di petto la sfida populista, non solo fuori, ma anche dentro la cerchia dei militanti-simpatizzanti.