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Renzi dopo le primarie

Paolo Pombeni - 08.03.2016
Primarie PD Roma 2016

L’interpretazione delle primarie è una doppia cabala. Misurare tutto in rapporto al numero di partecipanti che si erano presentati nella precedente occasione non è troppo utile. Gli umori dell’opinione pubblica dipendono da molti fattori volatili e non c’è certezza che i dati precedenti rispecchiassero una realtà più “solida” di quella con cui ci si confronta oggi. Dunque su quel terreno è meglio avventurarsi con cautela.

Interpretare i risultati è altrettanto complicato, ma qualche tentativo si può fare. Almeno a livello di impressione è che in questa tornata abbia dominato la forza della residua organizzazione del PD. Per la verità lo si era già visto nelle primarie per le elezioni regionali in Emilia Romagna dove la “macchina” del partito aveva vinto col risultato poi di un flop di partecipazione alle elezioni vere, compensato dal fatto che il candidato scelto aveva comunque vinto ed al partito questo bastava. Anche in questa tornata l’impressione è che ovunque abbiano vinto i candidati sostenuti dall’apparato dominante, da Milano fino ai centri minori. Se ne deduce che la struttura del PD è ormai fortemente “renziana” (magari con qualche correntina interna al raggruppamento) e che la vecchia guardia non risale la china.

Ciò sembra particolarmente evidente a Roma, nonostante le grandi traversie del PD in quella città. Il candidato della minoranza dem non è andato oltre un risultato discreto, persino meno bene di come era andata a Milano. A Napoli la questione è meno chiara, perché la vittoria della candidata renziana contro Bassolino si è realizzata per una manciata di voti, ma Bassolino non era il candidato della minoranza dem (e infatti è riuscito a portare un bel po’ di gente alle urne …).

Dunque Renzi ha segnato un altro punto a suo favore? Sì e no. Sì, se si considera che la domanda della sua opposizione interna di sfidarlo ad un congresso non sembra partorita sotto auspici favorevoli. La “macchina”, come è inevitabile, segue il capo, magari con qualche salto trasformistico (altrimenti che “ditta” sarebbe?). La minoranza potrà anche guadagnarsi la garanzia di qualche riserva indiana per sé, ma sarà costretta a trasformarsi in opposizione di sua maestà o a sparire.

No, se si considera che la vera sfida che attende Renzi è quella col corpo elettorale, non col partito. Qui infatti le cose sono più complicate, perché c’è la necessità di costruire e mettere alla prova quel bacino di consenso di tipo nuovo che viene impropriamente chiamato “partito della nazione”. Si tratta cioè di verificare se davvero sarà possibile rimescolare le carte delle vecchie appartenenze ideologiche, abbandonando gli storici steccati che ci portiamo dietro dai tempi della guerra fredda.

La vera scommessa di Renzi è che il paese non possa più vivere cercando le risposte ai problemi del XXI secolo nel recinto delle ideologie elaborate durante il XX. Ovviamente si tratta di una intuizione, come è tipico dei leader politici, piuttosto che di una capacità di elaborazione di una matura nuova prospettiva ideologica. Non può stupire, perché nella storia è accaduto altre volte, che il leader politico sia poco interessato a far crescere questa elaborazione, accontentandosi del fatto che l’opinione pubblica ormai abbia anch’essa intuito la declinante plausibilità di quelle posizioni. La debolezza sta nel fatto che se si rimane nel campo delle “intuizioni” è poi difficile governare come si canalizzeranno. Per dirla in maniera brutale: il grillismo si basa sulla stessa intuizione del renzismo ed è rischioso fare una battaglia solo contando su chi avrà più fascino nel proporre la propria “narrazione” della crisi in corso.

Al momento sembra che Renzi privilegi due direttrici. La prima è concentrare tutto sul livello nazionale dove non ha al momento rivali in termini di capacità di leadership. Scelta rischiosa, perché il terreno è meno solido di quel che suppone visti gli scogli che si trova davanti, dalla crisi libica a quella del sistema bancario da riformare. Due casi in cui i problemi di scontro con consolidati poteri delle classi dirigenti non sono né pochi né piccoli. La seconda è accontentarsi di avere a livello locale dirigenti disposti a servire sotto le sue bandiere, senza preoccuparsi troppo delle loro capacità di leadership. Anche qui sottovalutando il fatto che per “tenere insieme” un sistema c’è tanto bisogno di controllo sugli snodi della sua governabilità quanto necessità che questo si inquadri in maniera dinamica nella produzione di un rinnovato contesto di costruzione del consenso politico.

Perciò sarebbe bene che il premier/segretario non snobbasse la prossima tornata di elezioni amministrative. Nella storia italiana queste sono state spesso le antesignane delle svolte nella determinazione degli equilibri politici del paese ed i laboratori per verificarne la possibile tenuta. Non lasci che a rendersene conto sia solo la opposizione alla sua sinistra che proprio per questo lavora alacremente per rendere quell’esito impossibile, anche se è così cieca da non capire che se riesce a far crollare l’edificio del renzismo sotto quelle macerie finirà sepolta anche lei.