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20 aprile 2024
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Regno Unito: una democrazia parlamentare, dove l’aggettivo è più importante del sostantivo.

Perché la Brexit può rientrare.

Ciro Sbailò * - 13.07.2016
Bernard-Henri Lévy

Per un approccio meno drammatico al tema della sovranità popolare

 

Il referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno è senza dubbio una buona occasione per riflettere su “democrazia”, “populismo” o “crisi della rappresentanza”, in maniera tutt’altro che astratta. Esso ci aiuta a inquadrare il problema delle prospettive politiche dell’Unione europea. Si veda, a tale riguardo, il dibattito apertosi sul ruolo del Parlamento europeo e sui limiti dell’approccio “intergovernativo” difeso a oltranza dal governo tedesco: lo scossone del voto britannico sembrerebbe porre gli europei di fronte all’aut aut tra il big bang e la federazione. Ma ci spinge anche a inquadrare in una chiave “sistemica” le più recenti dinamiche politiche italiane. Ad esempio, si considerino le polemiche sorte intorno alle ipotesi di revisione dell’attuale sistema elettorale: in caso di ballottaggio elettorale nazionale, il Movimento 5 stelle avrebbe buone probabilità di prevalere sul PD e, forte di una maggioranza parlamentare blindata, di ambire legittimamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ciò sarebbe coerente con il principio della sovranità popolare, ma non si può negare come questa prospettiva rappresenti un incubo per gran parte della classe politica, perché il suo concretarsi innescherebbe una crisi di sistema dagli esiti imprevedibili. Analogamente, è del tutto coerente con il principio della sovranità popolare che gli elettori austriaci scelgano quale presidente un leader “populista”  e “nazionalista” o che i cittadini ungheresi, cechi e slovacchi si pronuncino, via referendum, contro la politica europea sull’immigrazione. Non possiamo nasconderci il fatto che le prospettive sopra descritte stiano turbando i sogni dei leader europei.

Il voto sulla Brexit, però, può essere anche un’occasione per sdrammatizzare un po’ il problema della sovranità popolare, essendo questa diventata – negli ultimi tempi – una specie di totem, da venerare o da abbattere, mentre proprio l’esperienza britannica dimostra la possibilità di un approccio ad essa estremamente pragmatico e, paradossalmente, proprio per questo, coerente con le nostre tradizioni costituzionali. Opportunamente, Giorgio Napolitano, sul Sole 24 Ore dei domenica 7 luglio, stigmatizzava le due opposte posizioni assunte, sul punto, da Bernard-Henri Lévy e da Ernesto Galli della Loggia. Il primo ha impresso il marchio infamante del “populismo” al pronunciamento pro-Brexit dei cittadini della più antica democrazia parlamentare. Il secondo, nel rivendicare il diritto del «popolo» di avere l’«ultima parola» su tutto, trascura il fatto che le democrazie moderne non hanno carattere plebiscitario, bensì parlamentare e costituzionale, altrimenti la Costituzione italiana non vieterebbe di fare referendum sui trattati internazionale o in materia tributaria (art. 75) e non riconoscerebbe l’esistenza di invalicabili limiti al legislatore, anche costituente, sui diritti inviolabili dell’uomo (art. 2).

                A farci comprendere meglio l’opportunità di riflessione politica e costituzionale offerta dal referendum sulla Brexit potrà, forse, contribuire la diffusione della notizia circa l’iniziativa avviata dallo studio legale londinese Mishcon de Reya, in favore di un gruppo di clienti anonimi, contro la prospettiva di una decisione governativa di una richiesta d’uscita dall’Unione Europea assunta senza la preventiva autorizzazione del Parlamento. Al momento si dispone della notizia diffusa dallo stesso studio legale e non ancora delle carte, che ci riserviamo di approfondire, una volta rese note. Ci pare, tuttavia, degno di nota il fatto che trattatasi non di una sorta di sindacato costituzionale, come purtroppo è stato fatto intendere dalla stampa italiana, bensì di un’azione legale preventiva. Si tratta, nella sostanza, di una messa in mora nei confronti del Governo, sulle conseguenze che la Brexit potrebbe avere sulle relazioni politiche ed economiche tra il Regno Unito, la UE e i suoi 27 stati membri e, dunque, sugli interessi o i diritti vincolati a tali relazioni. È come se si dicesse al governo inglese: attenzione, se date il via alla fuoriuscita dalla UE senza l’autorizzazione del Parlamento, dopo potreste essere trascinati in tribunale da quanti, a vario titolo, si reputino danneggiati dalla vostra decisione, chiedano l’annullamento di essa e il risarcimento dei danni subiti. Non si tratterebbe, ove l’azione legale avesse successo, di un’”intromissione” del potere giudiziario nella vita politica, come forse si direbbe in Italia, bensì di un atto volto a tutelare i diritti dei cittadini attraverso il ripristino della sovranità del Parlamento.

Giuridicamente, i fautori del ripensamento possono fare leva sulla combinazione tra le norme del Trattato sull'Unione europea e il diritto costituzionale e amministrativo britannici.

Il meccanismo d’uscita viene, infatti, attivato dalla notifica da parte del Paese che intende recedere, il quale propone anche una propria road map per il divorzio. Il Consiglio dell’UE esamina la proposta e poi, eventualmente, delibera, previa approvazione del Parlamento europeo. La notifica da Londra può arrivare solo con l’assenso del Parlamento. Ma tale assenso non è automatico.

                Benché non codificata, la Costituzione del Regno Unito è una delle più rigide del mondo e il suo fondamento è il seguente: il Parlamento è sovrano assoluto e niente e nessuno può vincolarne le decisioni («Il Parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna», osservava sarcasticamente Jean-Louis de Lolme, giurista svizzero del XVIII secolo, naturalizzato inglese). Quando, ad esempio, nel 1998, Londra adottò la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, furono necessari diversi escamotage giuridici per far sì che i diritti contenuti nella Convenzione venissero incorporati nel sistema britannico, senza che ciò menomasse la sovranità del Parlamento stesso (in pratica, i giudici vennero invitati a interpretare gli Acts  parlamentari in coerenza con la Convenzione). A differenza di quel che accade negli Stati Uniti e in altre democrazie occidentali, non è possibile il controllo giurisdizionale sulle leggi varate dal Parlamento, salvo che queste non siano in contrasto con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Ma il diritto amministrativo inglese consente la supervisione dell’esercizio del potere pubblico. I giudici possono intervenire per costringere l’autorità a fare il proprio dovere o per impedirgli di agire in maniera illegale. A meno che l’azione contestata non sia stata compiuta in forza di un atto parlamentare.

 

Perché in UK non ci sono state le rivoluzioni

 

                La peculiarità britannica, sopra descritta, è difficile da capire da parte continentale, perché da quest’altra parte della Manica, il parlamentarismo s’è affermato, sostanzialmente, come uno strumento di realizzazione degli ideali democratici. Questo paradigma deriva sostanzialmente dalla Rivoluzione francese, nel corso della quale s’afferma il primato dell’Assemblea rappresentativa, in quanto espressione della volontà popolare. In verità, la fase immediatamente successiva della storia costituzionale europea è caratterizzata da vari tentativi di razionalizzare e mitigare la spinta democratico-popolare, (lo stesso Statuto Albertino, a dispetto della data, 1848, è figlio della Costituzione ultramoderata belga del 1830), anche facendo leva sul bicameralismo (le Seconde Camere non erano elettive). Ma dalla seconda metà del XIX secolo, la forze legittimante della “volontà popolare” non fa che crescere, fino ad arrivare alle battaglie per il suffragio universale e per il voto proporzionale, ai primi del Novecento, e alla formazione dei grandi partiti di massa. Tutte le ideologie politiche novecentesche, ivi comprese quelle di natura reazionaria e fascista, fanno leva sulla volontà popolare, come strumento di legittimazione. E la lotta per i sistemi parlamentari è, in fondo, una lotta per il rispetto della volontà popolare. Dopo la Seconda Guerra mondiale si fa strada l’idea che un sistema costituzionale debba basarsi non solo sul rispetto della volontà popolare, bensì anche sull’incatenamento di questa (significativamente, è proprio nella Costituzione del’Italia e nella Legge fondamentale della Germania – ovvero, nei due paesi dell’”Asse” nazi-fascista –  che questi limiti sono più visibili e quasi enfatizzati) ai principi del costituzionalismo.

                In Inghilterra, prima, e nel Regno Unito, poi, le cose vanno diversamente. Il parlamentarismo si forma ben prima della nascita degli ideali democratici. Le origini sono nel Medio Evo inglese, nel corso del quale si istituzionalizza il principio per cui non esiste decisione legittima, se non condivisa, in qualche modo, con chi ne debba poi scontare le conseguenze. A sua volta questo principio si fonda sull’idea che nessun potere è legittimo se non è, in qualche modo, limitato da un altro potere – idea, secondo alcuni, di origine teologica cristiana e, secondo altri, riconducibile alle tradizioni culturali locali. Fatto sta che è in questa chiave che si sviluppa il sistema politico inglese, al centro del quale, già alla metà del XVI secolo si colloca il Parlamento. Questo resta di formazione sostanzialmente notabiliare, ma, in quanto limita il potere della Corona (che – comunque – parte anch’essa del Parlamento) ed esercita il controllo sui governi di Sua maestà, “rappresenta” il Regno e legittima l’intero sistema dei pubblici poteri. Nell’”età vittoriana”, la classe dirigente inglese, sia conservatrice sia liberale, promuove profonde riforme politiche, per rafforzare la legittimità del Parlamento e, di conseguenza, dell’intero sistema. Ad esempio, viene varata una distribuzione dei collegi elettorali più rispondente alla realtà demografica di una nascente potenza industriale, per cui si cerca di fare in modo che la popolazione operaia dei grandi centri urbani abbia un adeguato numero di rappresentanti in Parlamento. Questo contribuisce a spiegare perché nel Regno Unito non ci sono stati, nel corso dei secoli XIX e XX, moti rivoluzionari paragonabili a quelli scoppiati, nello stesso periodo, sul continente.

                Per sintetizzare il discorso fatto fin qui, potremmo dire che, mentre in Europa, il parlamentarismo è uno strumento al servizio della democrazia, nel Regno Unito, viceversa, la democrazia è uno strumento di legittimazione del parlamentarismo. Per essere ancora più sintetici: il Regno Unito è una democrazia parlamentare, dove però l’aggettivo è più importante del sostantivo. Questo non vuol dire che la sovranità popolare, da quelle parti, non sia importante. È esattamente il contrario. Ma è una sovranità che nasce e si forma dentro un forte contesto “sistemico” e, proprio per questo, difficilmente dà luogo a fenomeni plebiscitari o tirannici.

 

La partita è ancora aperta

 

                Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, perché il referendum nel Regno Unito non può essere una fonte primaria, attivabile dai cittadini, come accade invece in Italia a determinate condizioni (raccolta di firme, materia trattata, formulazione dei quesiti ecc.). Una consultazione referendaria può risultare giuridicamente vincolante solo se è il Parlamento stesso a decidere in tal senso. Nel 2011, nel Regno Unito, si tenne un referendum sulla riforma elettorale e il Parlamento dovette mettere per iscritto che si sarebbe dovuto legiferare in coerenza con il risultato del voto. Nulla del genere c’è nella legislazione sul referendum del 23 giugno, che a tutti gli effetti si presenta come un referendum consultivo. Theresa May, la nuova leader dei conservatori, ha detto che la Brexit sarà un “successo”, spiegando che i mercati non possono permettersi incertezze. Tuttavia, una volta nominata premier, Mrs. May non potrà attivare la Brexit subito, ma dovrà innanzitutto cercarsi i voti a Westminster e non è detto che li trovi. Alla Camera dei Comuni si registrano divisioni interne sia al partito conservatore (330 seggi su 650) sia a quello laburista (229 seggi). In più, c’è da tenere presente tutti gli altri gruppi, tra i quali spicca quello dei parlamentari scozzesi (una sessantina): la premier scozzese Sturgeon ha già detto che la Scozia vuole restare nella UE e che i parlamentari scozzesi a Westminster si opporranno alla Brexit. Non si può escludere, inoltre, che entri in gioco anche la Camera dei Lord, la quale non può vincolare il Governo, ma può farsi sentire e chiedere spiegazioni, contribuendo, così, a rendere più accidentato il percorso del Premier.

                Non è detto, pertanto, che non venga data agli elettori una seconda possibilità, come del resto gran parte dell’opinione pubblica britannica (specie giovanile) chiede. Grazie a Dio, il sistema britannico è troppo complicato per restare vittima di una visione “totemica” della sovranità popolare. Ma qualcosa del genere può dirsi anche dell’Europa. La storia dell’integrazione è fatta di continui ripensamenti, anche via referendum. Gli elettori della Danimarca, nel giugno del 1992, votarono no all’adesione al trattato di Maastricht. Esattamente un anno dopo ci ripensarono. Qualcosa di molto simile accadde in Irlanda, tra il 2008 e il 2009. Il perno di un eventuale ripensamento britannico resta, in ogni caso, il Parlamento. In definitiva, la partita della Brexit resta interamente politica e ci sono ampi spazi di manovra, sia per le istituzioni della UE sia per il Governo e il Parlamento del Regno Unito.

 

 

 

 

* Professore di Diritto pubblico comparato – Unikore, Enna