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Quando manca un timoniere

Paolo Pombeni - 18.02.2016
Senato - ddl Unioni Civili

La vicenda del rinvio di una settimana del dibattito in Senato sul ddl Cirinnà dimostra una cosa che tutti sapevano già: impossibile arrivare ad una legge decente in una materia difficile se non la si è preparata nel paese e se non c’è un timoniere che guidi la nave nei marosi della politica attuale.

Il primo aspetto dovrebbe indurre a riflessioni più generali, ovverosia a chiedersi se si possa andare avanti con una politica che su aspetti molto delicati lascia tutto in mano alle piazze guidate dai pasdaran di opposte fazioni nonché alla spettacolarizzazione dei dibattiti nei talk show televisivi dove si fa a gara a scavalcarsi in estremismo. Perché esattamente questo è quanto è accaduto e continua ad accadere sulla delicata questione delle unioni civili.

Solo una classe politica superficiale poteva immaginarsi che regolamentare un cambiamento di costumi che tocca impostazioni secolari potesse essere una passeggiata. Ammettiamo pure che sia difficile capire in questo momento dove penda la bilancia della pubblica opinione, ma che questa bilancia oscilli pericolosamente è cosa certa. Di conseguenza non ci voleva molto a capire che i partiti si sarebbero buttati a corpo morto alla ricerca del “trofeo” da esibire ai loro elettorati, vuoi intestandosi la promozione della legge “attesa da anni”, vuoi gloriandosi di averla bloccata, vuoi facendo i pesci in barile cercando di dare il classico colpo al cerchio e l’altrettanto classico colpo alla botte.

Quel che forse è stato completamente sottovalutato è che in questi casi la teatralizzazione dello scontro porta ad inchiodare tutti nei ruoli che la rappresentazione assegna a ciascuno, per cui viene a mancare quella flessibilità di posizioni che è tanto necessaria nella costruzione del consenso parlamentare. Che poi tutto sia complicato da un deteriorarsi dei costumi comunicativi e dalla presenza di una classe politica in gran parte educata più al tifo da stadio che alla politica è un’aggravante.

In queste condizioni sarebbe stato più che necessario disporre di un timoniere, anzi di una squadra di timonieri che potessero guidare la barca nella tempesta ampiamente prevedibile. Qui è da chiedersi se un simile ruolo possa essere lasciato a coloro che sulla carta lo dovrebbero normalmente ricoprire, cioè ai capigruppo dei diversi schieramenti. Se esprimiamo dubbi su questa soluzione non è per mancanza di fiducia nelle persone: più di un capogruppo è una persona sperimentata, capace di muoversi nei meandri del sistema parlamentare, realista al punto da sapere che a fare a cornate si rischia solo di spaccarsi la testa. Il fatto è che oggi ai capigruppo mancano gli strumenti per mantenere il controllo sulle loro truppe. La politica è diventata troppo una questione di show personali, di rincorsa a foto e citazioni sui giornali, di gomitate per guadagnarsi comparsate nei vari programmi televisivi.

Non è solo questione di desiderio di protagonismo, è consapevolezza che in una fase fluida e volatile della politica come quella attuale chi non appare scompare. Di qui un gioco al massacro che brucia i vari senatori e deputati e che li spinge non a cooperare perché si trovino soluzioni, ma a lavorare per promuovere la propria immagine a danno di quella dei concorrenti. Le varie lobby esterne al parlamento, come i vari moderni “Mangiafuoco” che allestiscono la politica spettacolo, lo sanno benissimo e lavorano per sfruttare un simile contesto.

Purtroppo in questa fase l’unica arma che si è mostrata efficace per introdurre un minimo di ordine razionale è stata il sistematico ricorso del governo alla fiducia e la conseguente minaccia di fine della legislatura se questa non fosse stata ottenuta. Naturalmente tutti si lamentano e gridano allo scandalo quando si scende su quel terreno, ma è l’unico che funziona.

Nel caso del ddl Cirinnà il premier ha voluto tenersi sull’uscio. Dire che si è tenuto fuori sarebbe infatti inesatto, perché ha fatto sapere ai quattro venti che l’approvazione di una legge sulle unioni civili coglieva un obiettivo storico il cui conseguimento andava imputato alla novità positiva della sua guida politica. Dire che si è fatto coinvolgere in prima persona sarebbe altrettanto inesatto perché ha sottolineato in tutti i modi che quella era una “questione parlamentare”. Lo ha fatto per non mettere a rischio la sua coalizione, ma resta che lo ha fatto.

Ora però è chiaro che così non si può andare avanti. C’è da un lato la necessità di trovare una via d’uscita positiva, perché un ennesimo fallimento nella predisposizione di una legge su un fenomeno ampiamente presente sarebbe un duro colpo alla credibilità complessiva delle istituzioni. Dal lato opposto si dovrebbe averla senza che ci siano troppo chiaramente vincitori e vinti, perché altrimenti si aprirà la lotta per il cambiamento degli equilibri politici senza che peraltro si capisca chi se ne potrà giovare.

Davvero non è una bella situazione, ma è inutile girarci intorno: se non si trova un ragionevole punto di equilibrio (che è altra cosa dai banali “compromessi” della solita politica) che smorzi contemporaneamente le tensioni presenti nel paese (e il ricorso ad un referendum abrogativo è un rischio da non sottovalutare) e la brama di prova di forza che attanaglia troppi strateghi (modesti) dell’agguato parlamentare non c’è da aspettarsi nulla di buono per i prossimi mesi.