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13 aprile 2024
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Presidenziali USA. Cosa cambia dopo le convention?

Gianluca Pastori * - 07.09.2016
Donald Trump e Hillary Clinton

Nel mese di luglio, le convention nazionali dei due partiti maggiori hanno aperto la fase finale della corsa per l’elezione del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Da copione, Hillary Clinton da una parte, Donald Trump dall’altra hanno ottenuto (pur con qualche malcontento) la nomination nei rispettivi partiti. Più articolata è stata la scelta dei candidati alla vicepresidenza (i c.d. ‘ticket’). In entrambi i casi, i nomi emersi (Mike Pence, governatore dell’Indiana, per Donald Trump, Tim Kaine, senatore della Virginia, per Hillary Clinton) hanno colto di sorpresa gli osservatori. Le logiche sottese a queste scelte sono molto diverse. Il moderato – e finora poco conosciuto -- Pence dovrebbe in qualche modo ‘smussare’ le asperità più evidenti di Trump rimanendo, al contempo, una figura abbastanza lontana dall’establishment di partito da non entrare in contrasto con la sua campagna ‘anti-casta’. Tim Kaine, al contrario, rappresenta una figura bene inserita dentro alla ‘macchina’ democratica, da cui Hillary Clinton trae buona parte del proprio sostegno. La scelta come ‘running mate’ di quello che è percepito come un ‘mainstream Democrat’ chiude, quindi, la porta alle speculazioni a suo tempo circolate intorno a un possibile spostamento ‘a sinistra’ dell’ex Segretario di Stato nel tentativo di intercettare i voti lasciti liberi dal ritiro dell’ex sfidante Bernie Sanders. In questo senso, la scelta di Kaine finisce per rafforzare la percezione di Hillary Clinton come candidato ‘centrista’, capace di andare incontro ai timori sia di quanti, nel Partito democratico, hanno vissuto con disagio gli anni dell’amministrazione Obama, sia di quanti, sul fronte repubblicano guardano con timore alle ‘intemperanze’ del loro candidato di bandiera.

Questa strategia è stata pagante? Secondo gli ultimi sondaggi, il vantaggio del candidato democratico si attesta oggi, in media, sui sei punti percentuali, con una forchetta che va dalla sostanziale parità delle rilevazioni del Los Angeles Times e della USC - University of South California ai dieci punti di quelle dall’Università di Quinnipiac (Connecticut). Soprattutto, in questa fase di campagna elettorale vera e propria, la postura ‘aggressiva’ di Donald Trump sembra pagare meno – in termini di consenso – rispetto a quella delle primarie; a conferma di come larga parte dei consensi raccolti nei mesi scorsi si legasse soprattutto all’insoddisfazione del voto repubblicano verso la leadership e la politica del Grand Old Party. Dopo il mancato endorsement da parte di Ted Cruz, che tante tensioni ha sollevato al meeting di Cleveland, le divergenze di posizione con Pence (cui anche il Washington Post ha dato un certo rilievo) sono un altro segnale poco incoraggiante. Di contro, la scarsa popolarità messa in luce dai sondaggi rappresenta, per Hillary Clinton, un handicap non meno importante. Al di là di una robusta fronda interna (che non pare essere stata intaccata dall’endorsement di Sanders né dall’appoggio apertamente fornito da Obama e dal suo entourage), il timore maggiore riguarda la fiducia che il candidato riesce ad ispirare. Secondo le rilevazioni di Quinnipiac, meno del 30% degli intervistati considera, infatti, Hillary Clinton un candidato ‘onesto’, percentuale che raggiunge un (comunque basso) 36% fra gli elettori democratici; la percentuale di quanti considerano la Clinton ‘non onesta’ raggiunge addirittura il 71% fra gli elettori della fascia under 35, quella in cui, d’altro canto, il suo margine di consenso è maggiore (64%).

Non stupisce, quindi che – contro le previsioni della vigilia -- quella dei prossimi mesi si presenti soprattutto come una corsa fra candidati deboli. Se questo fatto era noto nel caso di Donald Trump (anche alla luce dell’ostilità che i vertici del Partito repubblicano hanno sempre espresso nei suoi confronti), in quello di Hillary Clinton risulta più problematico. Nel corso della campagna per le primarie, l’ex Segretario di Stato ha, infatti, consumato un notevole margine di popolarità; ciò non solo a causa del c.d. ‘mailgate’, che pure ha contribuito a danneggiare non poco la sua immagine. A livello politico, la sfida di Bernie Sanders ha messo in luce molti dei limiti della sua offerta. In questo senso è significativo che, proprio nelle settimane decisive della corsa per la nomination, alla fine dello scorso maggio, Hillary Clinton abbia in qualche misura spostato il piano della sfida, suggerendo l’ipotesi di trovare un ruolo in campo economico per il marito Bill all’interno della nuova amministrazione. Al di là delle sue effettive possibilità di realizzazione, questa proposta ha portato, infatti, nel dibattito il peso emotivo di una presidenza vista da molti elettori democratici come una sorta di ‘epoca d’oro’ della recente storia americana. E’ tuttavia difficile dire quanto un simile richiamo possa davvero pagare, in uno scenario polarizzato come l’attuale, fuori dal contesto – per molti aspetti anomalo – della primarie. Sinora, i limiti di Donald Trump agli occhi dei suoi stessi potenziali elettori si sono dimostrati il maggiore punto di forza di Hillary Clinton. Questo, però, non significa che lei stessa sia riuscita ad accrescere davvero i consensi di cui gode. Un fatto poco rassicurante, non solo in vista dell’appuntamento dell’8 novembre ma anche delle sfide che attenderanno, negli anni a venire, il vincitore di tale appuntamento.

 

 

 

 

* Gianluca Pastori è Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa. Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.