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24 aprile 2024
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Memorie schizofreniche. L’eco (paradossale) del centenario di Verdun e il silenzio (di tomba) sulla Strafexpedition

Novello Monelli * - 08.06.2016
Strafexpedition 1916

Il paradosso mediatico della memoria

 

Tra i tanti fantasmi che si aggirano per l’Europa, quello del provincialismo memoriale è forse il meno percettibile (e per la maggioranza di coloro che leggono, il più trascurabile), ma non è certo il meno insidioso. Il Centenario della Grande Guerra ce ne fornisce prove abbondanti pressoché costantemente. L’ultima pochi giorni orsono, in occasione delle quasi simultanee commemorazioni delle battaglie di Verdun e della (cosiddetta) Strafexpedition. La commemorazione congiunta di Angela Merkel e Jean François Hollande all’Ossario di Douaumont, il 29 maggio, ha ricevuto una straordinaria copertura mediatica anche in Italia; la quasi contemporanea visita tributata dal presidente Mattarella ad Asiago il 24 maggio, una certa attenzione da parte di alcuni media italiani, disinvoltamente distratti a proposito della ragione commemorativa del viaggio e attenti solo a carpire, nelle righe del discorso ufficiale, spunti di analisi per la situazione interna.

Per forza, si dirà. La battaglia di Verdun (o, meglio, la campagna di Verdun, visto che si trattò di una serie ininterrotta di assalti e contrassalti che seminarono morte e distruzione dal febbraio al dicembre 1916) fu una delle maggiori carneficine di quell’immenso carnaio che fu la Grande Guerra. Con i suoi 300mila morti da ambo le parti e la sua stupefacente inutilità (nessuno dei presupposti strategici e tattici ipotizzati dallo Stato Maggiore tedesco si realizzò), Verdun, «il mattatoio del mondo, è l’evento-simbolo per eccellenza della guerra moderna (come l’ha definito Paul Jankowsky nella sua brillantissima ricostruzione), forse in competizione solo con la Somme che di vittime ne fece (pare) mezzo milione. Quando, trentadue anni fa, François Mitterand e Helmut Kohl si ritrovarono per la prima volta in raccoglimento nello stesso luogo, il simbolo della resistenza francese («courage, on les aura!», l’incitamento lanciato dal generale Pétain nell’assumere il comando, è una delle poche frasi storiche che gli studenti francesi sanno ancora a memoria), il loro tenersi mano nella mano davanti al grottescamente piccolo sacrario segnò veramente la fine dei nazionalismi europei. Che senso ha, di fronte al peso simbolico dei morti di Verdun, soffermarsi troppo a riflettere sulla grande battaglia degli Altipiani che, nella primavera-estate del 1916, fece solo (si fa per dire) 30mila morti (accertati)?

 

Di cosa stiamo parlando? Se il giornalismo non sa raccontare la storia.

 

Il punto è che il 1916, «l’anno delle grandi battaglie», fu dovunque in Europa la scoperta della dimensione totale della guerra moderna, e l’Italia non fece eccezioni. Il 15 maggio 1916, quando il generale Conrad von Hötzendorf lanciò le sue divisioni all’assalto sugli Altipiani, con la missione di impadronirsi della montagna vicentina e di marciare su Venezia, fu esattamente l’aspetto meno gradevole della Grande Guerra che si palesò improvvisamente agli italiani. Le truppe di Cadorna, vennero colte di sorpresa, abbandonarono i pochi chilometri quadrati di cui si erano impadronite in un anno di offensiva, persero Asiago (che fu pressoché rasa al suolo nel corso dei combattimenti) e nell’arco di pochi giorni si ritrovarono a difendersi aggrappate disperatamente al ciglione meridionale dell’Altipiano. Ma la conseguenza mediaticamente più importante della cosiddetta Strafexpedition (una denominazione mai esistita, peraltro) fu un’altra: la guerra piombò nelle case degli italiani. Oltre 70mila civili residenti nella zona di guerra vennero evacuati a forza dall’esercito e sparpagliati, più nolenti che volenti, in tutta la Penisola: furono i primi profughi del conflitto (ma non gli ultimi), e una spiacevole testimonianza vivente per tutti gli italiani che la guerra non era quell’oleografica e colorita rappresentazione che riviste e cinema stavano propinando al pubblico. Sarebbe bello poter dire che questa ondata di rifugiati, miserabili e terrorizzati, furono accolti a braccia aperte dai propri connazionali, ma non fu così. I più fortunati furono trattati con freddezza e sopravvissero malamente grazie a sussidi di stato da fame. I meno fortunati (tra cui alcune migliaia di trentini appena «redenti») vennero considerati intrusi che rubavano le poche risorse a disposizione, stranieri dalla lingua incomprensibile e dai costumi estranei: nemici, o traditori. Ecco, di tutto questo un giornalista avrebbe potuto parlare nei (pochi) minuti di diretta concessa ai telegiornali durante la visita del Presidente, che ad Asiago è salito per commemorare anche questa pagina alquanto buia (ma fondamentale) della storia nazionale. Se tele-giornalisti e cronisti avessero immaginato che il pellegrinaggio del 24 maggio del capo dello Stato non era stata pensato solo come reminder al pubblico sulla data dell’ingresso in guerra (ricordato solennemente un anno fa), ma come occasione per riflettere più ampiamente sul senso di una guerra che nel 1916 cessò definitivamente di essere una romantica passeggiata e divenne, per tutti, una discesa agli inferi. Se, appunto. Ma la competenza, o semplicemente il desiderio, di confrontarsi con la storia vera, quella fatta di date, numeri, eventi, critica e fonti (e non solo di lacrimucce sparse) manca alla maggioranza degli operatori del nostro sistema mass-mediatico. Peccato, perché il pubblico lo richiederebbe a gran voce, come ampiamente dimostrato dal successo di audience dei (pochi) programmi dedicati al tema.

 

 

 

 

* Professore a contratto Università di Padova