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27 marzo 2024
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Macron presidente: quattro mesi e luna di miele finita?

Michele Marchi - 06.09.2017
Emmanuel Macron

Non si è ancora concluso il primo “quadrimestre”ed Emmanuel Macron è già crollato nel gradimento dei francesi. O almeno così recitano i sondaggi che hanno accompagnato la rentrée 2017. Sembrano un lontano ricordo, le luci del Carousel du Louvre della sera del 7 maggio scorso, ma anche il 64% di gradimento del dopo elezioni legislative. In due mesi esatti Macron ha battuto entrambi i suoi due predecessori. A fine agosto 2007 Sarkozy poteva vantare ancora un invidiabile 69% di gradimento. Mentre Hollande nel 2012 navigava attorno al 54%. Come spiegare il 40% di gradimento del giovane presidente? Commentatori e sondaggisti si stanno accanendo in mille elucubrazioni. Le motivazioni più citate riguardano errori di comunicazione e scarsa azione pedagogica nello spiegare le riforme che l’esecutivo ha avviato. In molti puntano poi il dito contro la cosiddetta “dittatura dell’urgenza”, in base alla quale un’opinione pubblica sempre più informata ma anche sempre più disincantata, pretenderebbe soluzioni rapide per problemi in realtà complessi e stratificati. Insomma, secondo la logica dei rapidi entusiasmi, seguiti da altrettanto veloci disillusioni. Tutto plausibile, ma forse qualche indicazione sistemica in più il “crollo” di gradimento la offre.

Prima di tutto si è parlato molto, nel corso della lunga sequenza elettorale francese, di superamento del clivage sinistra/destra e della capacità di Macron di proporre un discorso politico in grado di travalicare tale logica. La forza del candidato En Marche! è stata proprio quella di presentarsi di volta in volta come “né di destra, né di sinistra” o “sia di destra, sia di sinistra”. In molti hanno parlato di un recupero di quella ricetta così cara a Valéry Giscard d’Estaing, proposta proprio nel momento in cui il Paese si trovava ad affrontare la prima grande crisi di crescita, a metà anni Settanta. VGE dimostrò che si poteva governare “al centro” e anche riformare governando “al centro”. La sua mancata rielezione nel 1981 provò però che i francesi, tendenzialmente, non volevano essere governati “dal centro” e i suoi fallimentari tentativi successivi lo confermarono. L’impressione è che Macron si stia confrontando con una difficoltà simile. Proprio nel suo andare “oltre la destra e la sinistra” finisce per coagulare da un lato le opposizioni estreme (frontisti e France Insoumise) ma anche quelle “classiche” di destra (repubblicana) e sinistra (socialista). Che queste opposizioni non abbiano corrispondenza a livello parlamentare è noto ed è in larga parte dovuto all’ottimo funzionamento del sistema elettorale per le legislative. Che tutto ciò finisca però per riflettersi sui sondaggi, che registrano gli umori dell’opinione pubblica, è altrettanto evidente e scontato. Bisognerà vedere se il presidente avrà la forza per procedere spedito nell’attuare il suo programma. Solo in questo modo potrà forse riuscire a completare la scomposizione dei tradizionali blocchi politico-culturali, per poi crearsi uno strutturato blocco di consenso, ben più solido di quello raccolto al primo turno delle presidenziali.

Vi è poi una seconda questione, meno politica e più istituzionale, già evidente nel corso di questi primi quattro mesi di presidenza. Ha davvero senso, in regime di quinquennato e con le elezioni legislative collocate dopo il voto presidenziale, l’esecutivo bicefalo? Il binomio Presidente/Primo ministro non finisce per essere deleterio o quanto meno ridondante? Senza dilungarsi sulle ragioni storiche alla base della scelta semipresidenziale, le due presidenze Sarkozy e Hollande e questi primi passi di quella Macron sembrano confermare tutte le perplessità che non pochi osservatori da tempo sottolineano. Peraltro la contraddizione è duplice. La riduzione del mandato presidenziale richiede un attivismo e una sovra-esposizione del Presidente anche sulla cosiddetta “politica corrente” che finisce per rendere superfluo o comunque difficilmente collocabile l’operato del Primo ministro. E anche il tentativo di tornare ad una declinazione “monarchica” del ruolo dell’inquilino dell’Eliseo così come voluto da Macron, sembra avere un senso solo se concepito nei tempi lunghi del settennato. Delle due l’una: il quinquennato richiede l’iper-presidente? Allora a cosa serve il Primo ministro? Il semi-presidenzialismo alla francese prevede il presidente monarca? Allora bisogna riconsegnargli la durata e contemporaneamente ridare al Primo ministro il doppio ruolo di esecutore della politica corrente e di parafulmini del presidente.

L’altra grande questione sul terreno è quella della riforma del diritto del lavoro, concretizzatasi con le ordonnances di fine agosto, ora in attesa dei decreti attuativi. Occorre prima di tutto sgomberare il campo da possibili critiche di metodo. Il governo ha ottenuto dall’Assemblea nazionale il via libera a procedere utilizzando l’agile strumento dell’ordinanza e nello specifico l’estate ha visto una lunga e approfondita concertazione tra tutte le parti sociali (sindacati ed imprese in testa).

La riforma del lavoro è “la madre di tutte le battaglie” per due ragioni principali. Da una parte rappresenta una vera e propria “rivoluzione sociale”, nel senso che chiude la lunga parentesi del dominio dell’Etat Providence, finanziato dalla tassazione sul lavoro e governato sostanzialmente dalle parti sociali e apre un’era nuova, un mix di contratti di categoria e d’impresa, tutti discussi e negoziati a livello locale, privilegiando la prossimità e la territorialità. Il tutto unito alla creazione di un nuovo modello di welfare improntato sulla solidarietà gestita a livello nazionale e centralizzato. In definitiva Macron sta cercando di unire la ricetta applicata da Schroeder alla Germania di inizio XXI secolo al welfare alla scandinava. La legge sul lavoro dovrebbe essere da un lato l’“ariete” in grado di scardinare il sistema. Dall’altro dovrebbe costituire il primo tassello, fondamentale, di una sequenza complessiva, che prevede altri tre decisivi passaggi: la riforma dei sussidi di disoccupazione, quella delle pensioni e quella della formazione professionale.

Da un punto di vista politico la sfida di Macron sembra quasi troppo semplice. L’opposizione ha un solo volto, quello di Mélenchon e della manifestazione organizzata dalla France Insoumise il prossimo 23 settembre. Sul fronte sindacale le notizie sono buone. La mobilitazione convocata dalla CGT per il 13 settembre ha già visto sfilarsi le altre due maggiori centrali, FO e CFDT con quest’ultima, seppur in parte critica sulla riforma, già concentrata sulla prossima concertazione, quella relativa alla riforma sui sussidi di disoccupazione.

La vera sfida è allora quella di consolidare ma soprattutto allargare il blocco di consenso attorno al suo operato, solo in questo modo Macron riuscirà a sottrarsi, almeno in parte, alla “dittatura del sondaggio”. Come riuscire in questa impresa? Frenando o rilanciando? In uno dei suoi primi interventi in occasione della rentrée, il presidente ha lucidamente affermato: “I francesi non vogliono riforme, ma rivoluzioni”. Il libro-manifesto di Macron candidato alla presidenza si intitola Révolution (Edition XO, novembre 2016). Il volume, dopo aver venduto 150 mila copie solo in Francia, è stato ripubblicato, a metà maggio, in oltre 100 mila esemplari nella versione tascabile. Ricominciare da lì, può non essere una cattiva idea.