Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Le scelte di Renzi, il referendum costituzionale e il cupo insegnamento dell’uomo falena

Omar Bellicini * - 16.07.2016
Maria Elena Boschi

«Nell’ANPI ci sono molti partigiani che hanno combattuto la Resistenza e che voteranno sì». Le parole del ministro per le riforme, Maria Elena Boschi, risuonano ancora. Era il 22 Maggio, e con un anticipo sorprendente per i tempi del giornalismo e della politica annunciata, partiva la volata al referendum di Ottobre (o di Novembre). A qualcuno è parso un affondo, ad altri un inciampo, ma la longevità di quella frase rivela qualcosa che va oltre le ordinarie strategie comunicative: la battaglia per la revisione della Costituzione è prima di tutto una lotta interna alla sinistra. Per meglio dire, al PD. Certo, la personalizzazione a corrente alternata del voto, messa in campo da un presidente del Consiglio, Matteo Renzi, oscillante fra il «se perdo il referendum vado a casa» e un alquanto contraddittorio «personalizzare lo scontro non è il mio obiettivo», ha via via ingolosito le opposizioni, dalla Lega di Salvini al Movimento 5 Stelle: infliggere un colpo mortale alla Maggioranza di governo è parso possibile. I tentennamenti, alimentati dagli ultimi sondaggi, vengono interpretati come un segnale di debolezza del renzismo. Si prepara dunque il fuoco di fila esterno contro la riforma. Ma ciò non muta il quadro di fondo: la vittoria del “sì”, e la conseguente stabilizzazione di questa stagione politica a guida Renzi, dipende in buona misura dalla compattezza con cui il Pd si presenterà alle urne. Il guaio, per l’ex sindaco di Firenze, è che si tratta proprio del motivo per cui gli oppositori interni affilano le armi. La vecchia guardia, che ancora non ha digerito la prima rottamazione, e intravede ulteriori minacce nel doppio incarico di capo del Governo e segretario del Partito, si è già mossa attraverso gli intellettuali a essa collaterali, cercando di accrescere la presenza e la credibilità del “no” sulla scena pubblica. La carta da giocare è la stessa che affossò l’omologa riforma tentata da Berlusconi: il rischio (paventato) di un’involuzione autoritaria, dovuta a uno squilibrio dei bilanciamenti costituzionali. Oggi, sul banco degli imputati, siede il combinato disposto fra il depotenziamento del Senato e la legge elettorale, che consentirebbe al leader di maggioranza di imporre un proprio candidato al Quirinale e di influenzare sensibilmente la composizione della Corte Costituzionale. Al di là delle argomentazioni, più o meno condivise, lo strumento su cui l’opposizione può far leva è il medesimo di 10 anni fa: il tendenziale conservatorismo di una parte dell’elettorato. Renzi risponde agitando scenari di instabilità non certo infondati e insistendo su un elemento caro ai populismi: la riduzione del numero dei parlamentari e dei relativi costi. Quest’ultimo punto genera consenso, il primo può rilevarsi un’arma a doppio taglio: saldare il destino del Governo a quello della riforma costituzionale può infatti alimentare il fronte del “no”, in forza della ben nota antipatia dei cittadini per chi siede a Palazzo Chigi. Quel che è certo è che sulla partita pesano anche interessi ed equilibri internazionali. La revisione della Carta viene infatti considerata uno dei “compiti a casa” indicati dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel. A Roma, peraltro, è forte la consapevolezza  che per contrastare la politica del rigore, voluta dalla Bundesbank, sia necessario presentarsi in sede europea con dei risultati indiscutibili. Insomma, Matteo Renzi è condannato a vincere. Lo è sempre stato, giacché la sua ascesa è stata favorita da un profilo di novità e freschezza che deve sempre essere rinvigorito da segnali positivi e obiettivi conseguiti. Fin dal suo insediamento, nel febbraio del 2014, il presidente del Consiglio ha cercato di adottare un’immagine vincente, perennemente associata a idee di successo. Ne è conseguita una presa di distanze da ogni episodio avverso, come nel caso della mancata visita di solidarietà a Genova, nel periodo immediatamente successivo all’alluvione dell’ottobre 2014, o in occasione del lungo silenzio sulle difficoltà del PD romano. Si tratta di scelte di comunicazione che hanno suscitato polemiche, ma che rispondono all’esigenza di evitare la “sindrome dell’uomo falena”: leggendaria creatura che si manifesta in concomitanza con le sventure e incarna perciò un disagio che il politico attento ai cambi di percezione deve accuratamente evitare. Unica eccezione, in questo contesto, la recente visita in Puglia a seguito del disastro ferroviario sulla tratta Andria-Corato. La scelta di manifestarsi, nonostante il clima luttuoso, segna indubbiamente un cambio di passo, ma non modifica l’impostazione mediatica del Premier. Almeno per il momento. Il referendum rimane dunque un passaggio fondamentale per l’avvenire politico di Renzi. Un passo falso generico farebbe male. Il “no” al progetto principe di questa prima esperienza governativa potrebbe essere fatale.

 

 

 

 

* Praticante giornalista, ha collaborato con le testate Unimondo.org, con il mensile "Minerva" e con il canale all-news Tgcom24.