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20 aprile 2024
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Le crisi dell’Europa, l’assenza della storia e degli storici

Massimo Piermattei * - 04.02.2016
Manifesto Amnesty International

Nel dibattito pubblico europeo e in quello interno ai ventotto Stati membri è ormai da più di un anno che si discute, con (incauta) superficialità di mettere fine all’Euro, di estromettere la Grecia dall’Eurogruppo, di uno scenario che vede l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Un dibattito che sui migranti e sul trattato di Schengen continua a scrivere nuove tragiche pagine. Il tutto in un contesto che, dall’Ucraina al Medio Oriente, appare sempre più teso e pone all’Ue sfide non ulteriormente rinviabili (ancor più dopo gli attentati di Parigi e nell’ottica delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti).

Gran parte delle responsabilità delle molteplici crisi che attraversano l’Europa (e dell’imbarbarimento del dibattito sul processo d’integrazione) ricade sulle spalle delle classi dirigenti nazionali, preoccupate “più dalle urne che dai libri di storia” - per riprendere lo slogan di un azzeccato manifesto lanciato da Amnesty International. Tuttavia, se la fine dell’integrazione europea, o l’ipotesi di un suo drastico ridimensionamento, sono diventati ormai un tema su cui confrontarsi, un’opzione possibile tra le tante sul tavolo, attribuire le responsabilità esclusivamente agli Stati membri e alle storiche contraddizioni irrisolte della costruzione europea sarebbe riduttivo, per quanto corretto. Così come sarebbe riduttivo limitarsi a denunciare la scarsa competenza con la quale i mass media si occupano dell’Ue e delle sue crisi.

Nonostante queste due attenuanti, il segnale più preoccupante dell’impoverimento del dibattito è l’assenza degli accademici, sia dai mezzi di comunicazione, sia dai forum della politica e della società civile. Attenzione: non si vuole qui perorare un ritorno a una pedagogia retorica sull’integrazione europea; un’opzione che, anzi, comporterebbe dei rischi politici, sociali e intellettuali non dissimili da quelli generati dalla leggerezza sopra descritta. Si tratta piuttosto di capire perché proprio quando l’Europa è divenuta oggetto di una crescente conflittualità economica, sociale e politica, gli accademici sono stati soppiantati da altri maitre à penser – attori, giornalisti, cantautori, scrittori, blogger – lasciando spazio a semplificazioni e scorciatoie che sviliscono ulteriormente il dibattito, essendo concepite per canali comunicativi che certo non incentivano elaborazioni raffinate e approfondite – riflessione valida soprattutto per i dibattiti pubblici e mediatici di alto livello, laddove non va invece trascurato il cruciale lavoro che molti studiosi fanno nei territori, con associazioni e partiti, scuole, aziende e istituzioni locali.

Nel generalizzato silenzio degli intellettuali, spicca ancor di più l’assenza dalla scena pubblica della storia e degli storici dell’integrazione europea. Anche qui, è bene precisare come non si voglia portare avanti una rivendicazione settaria, dettata magari dall’“invidia” per la visibilità mediatica di cui altri godono. L’intento è di porre l’accento, più in generale, sull’assenza della riflessione storica da un dibattito che invece dimostra quotidianamente di averne un disperato bisogno, per scongiurare il rischio che le criticità congiunturali portino le classi dirigenti a cestinare con miopia tutto lo sforzo che è alla base della costruzione europea. Uno sforzo che affonda le radici nel contesto unico e complesso che seguì la conclusione del secondo conflitto mondiale. Il drammatico risorgere dei nazionalismi, e della paura nei confronti dei migranti, viene troppo spesso letto in modo fuorviante (con i relativi schieramenti pro o contro sulla base di argomentazioni dettate dalla pancia più che dalla testa): ecco che ricordare i danni creati dai nazionalismi in Europa, gli effetti causati dalle paure e da chi ha saputo cavalcarle nel corso del ‘900, gli sforzi fatti per superare le divisioni del passato e per creare il primo nucleo della Casa comune europea potrebbe aiutare a non gettare via con le contraddizioni dell’Unione europea anche il processo d’integrazione tout court.

Anche partendo da queste riflessioni a fine maggio si realizzerà a Forlì un seminario sulla storiografia italiana e la storia dell’Europa e del suo processo d’integrazione: una sorta di stati generali che, oltre ad affrontare le problematiche legate alla produzione scientifica esistente, e all’insegnamento negli atenei italiani, si interrogherà su come colmare l’assenza di storia dal dibattito pubblico, a partire dalla realtà italiana.

“La storia accelera - dichiarò accorato Delors rintuzzando i tentativi della Thatcher di ridimensionare la valenza storica e politica del processo d’integrazione - dobbiamo accelerare anche noi”. Queste parole pronunciate dall’allora presidente della Commissione europea pochi giorni dopo il crollo del Muro di Berlino, sembrano indicare lo spirito necessario per coniugare l’eredità del passato e la complessità del presente, così da costruire meglio il futuro. La storia sta indubbiamente accelerando: il suo peso e la sua eredità non possono essere lasciati fuori dal dibattito sul futuro dell’Ue e dell’Europa nel suo insieme.

 

 

 

 

Professore a contratto Università della Tuscia