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La trasformazione della politica

Paolo Pombeni - 15.03.2016
Trasformazione della politica

Più che guardare ai trasformismi dei voltagabbana, che sono un fenomeno più o meno stabile della politica specie quando questa si professionalizza molto, varrebbe la pena di prendere in seria considerazione la trasformazione della sfera politica senza farsi condizionare dai guardiani delle vecchie ortodossie. Anche quello è un fenomeno stabile che si ripresenta in ogni trasformazione.

Oggi il tema sul tappeto è duplice: da un lato la difficoltà di marginalizzare la centralità del governo tornando a promuovere la centralità del parlamento; dal lato opposto la domanda di una ideologia che compatti il corpo sociale nell’analisi della transizione in corso senza buttare tutto nel canale di scarico del populismo.

Difficile non vedere oggi l’enorme trasformazione che è iniziata. Proprio oggi una collega economista ci ricordava che un analista americano ha previsto che in un lasso di tempo non ampio cesseranno di esistere il 47% dei mestieri oggi praticati. Giorni fa qualcuno ricordava in TV che tra alcuni decenni si prevede che le migrazioni fuori dall’Africa supereranno i 200 milioni di individui. Non siamo certo in grado di certificare l’attendibilità scientifica di queste previsioni (la storia è piena dell’annuncio di catastrofi che poi non si sono verificate o non almeno nelle proporzioni previste), ma rimane il fatto che c’è una fortissima attesa di cambiamenti radicali.

Del resto una attesa di questo tipo è psicologicamente uno strumento di difesa dalle paure che inducono i cambiamenti già in corso: attendendosi il peggio, si sopporta meglio il male che si ha di fronte. In politica si tratta di un fattore volatile e capace di produrre mutamenti da non sottovalutare: la vicenda tedesca di questi giorni insegna, anche se non c’è da credere che un successo in un momento di tensione preluda alla sua stabilizzazione nel tempo.

E’ questo contesto che produce le due tematiche che abbiamo appena esposto. La centralità del governo in queste condizioni nasce da una considerazione ovvia: la gente chiede che ci sia un «potere» in grado di fronteggiare questa emergenza strisciante che si riflette, seppure in misura diversa, nei più diversi ambiti. Vista in termini più specifici è la vittoria del «decreto» sulla «legge», cioè la supremazia dell’atto concreto e relativamente rapido volto a risolvere una situazione specifica e particolare rispetto ad una normativa che generalizza i problemi, si dovrebbe applicare in maniera indifferenziata e dovrebbe nascere da una riflessione capace di affrontare tematiche di carattere idealtipico. Per questo il governo è in condizioni più favorevoli rispetto al parlamento, anche per il fatto di poter ricorrere alla «fiducia», cioè di porre un termine a confronti dialettici (si fa per dire) che non hanno mai tempi brevi  negli attuali parlamenti frammentati non solo dalle divisioni partitiche, ma ancor più dalla ricerca di visibilità per ogni membro imposta da competizioni elettorali in cui sono venute meno le potenzialità di disciplinamento ideologico che un tempo erano la regola.

Qui entriamo nel secondo tema. A fronte della grande trasformazione con cui dobbiamo confrontarci le ideologie politiche tradizionali hanno perso la loro capacità di richiamo. Termini come lavoro, capitale, diritti, doveri, morale, solidarietà e via elencando faticano ad essere ricondotti agli archetipi che avevano sostanziato le ideologie tipiche del XX secolo. Centrali di elaborazione ideologica ne esistono poche, a voler essere ottimisti. Certamente non stanno più nei partiti, che di una seria riflessione teorica non sanno che farsene in tempi di raccolta del consenso a base di battute, campagne di stampa fondate addirittura sul «privato» dei candidati, comparsate televisive di ogni genere.

Le ideologie nascono da riflessioni che prendono sul serio la complessità dei fenomeni, che non rifuggono dal ricorso al dubbio e alla cautela nelle valutazioni, che sono abituate a discutere a fondo le ragioni contrarie. Tutte cose che, diciamoci la verità, non sono molto gradite in tempi aspri. Qualcuno ricorderà la stupida battuta che si fa circolare in questi casi: quando una casa brucia non si sta a discutere sulla qualità della sua architettura, ma si lavora a spegnere il fuoco. Una sciocchezza che non tiene conto che anche per contenere per quel che è possibile la forza distruttiva di un incendio giova e non poco conoscere le leggi della statica, sapere come e con che materiali è stata costruita la casa, ecc. ecc.

La psicologia diciamo così istintiva predilige però, per continuare nella metafora, chi davanti all’incendio si scalmana a prendere secchi d’acqua e a gettarli a casaccio, perché sembra che «faccia qualcosa» invece di star lì a pensarci sopra. La forza del populismo è proprio nello sfruttamento di questa istintualità, illudendo la gente che i problemi in fondo sono facilmente risolvibili basta rimboccarsi le maniche e fare la prima cosa che verrebbe in mente.

La politica e i partiti si misurano oggi, e non solo in Italia, con queste dinamiche. Da un certo punto di vista è naturale. Quello che lo è assai meno è che non si riesca a veder sorgere dei leader capaci di dominare queste dinamiche che lasciate senza disciplinamento porteranno ad una crisi da cui poi sarà assai difficile liberarsi. Vale per l’Italia e vale per l’Europa, tanto per limitarci ai nostri scenari.