Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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La sindrome di Dorian Gray. Come lo smartphone e i social stanno cambiando la nostra vita

Omar Bellicini * - 25.02.2016
Jean Clair - L'inverno della cultura

Secondo la tribù nordamericana degli Hopi, le fotografie possono rubare l’anima. Non è una novità: la credenza è presente in diverse culture, il che è ben noto in Occidente. L’aspetto davvero sorprendente è che gli Hopi hanno ragione. Ovviamente, la questione non riguarda maledizioni o sortilegi, ma il ruolo che ha assunto questa forma d’arte nella società contemporanea. Un ruolo che sta modificando, assai rapidamente, il nostro modo di rapportarci alla realtà. La riflessione prende le mosse da un saggio dello storico dell’arte Jean Clair: “L’inverno della Cultura”, edito in Francia nel 2011. La tesi di Clair è che il processo di desacralizzazione dell’arte che ha caratterizzato il ‘900, dagli orinatoi di Duchamp alla “merda d’artista” di Manzoni, abbia ridotto il consumo culturale a una fenomenologia dell’evento. In altre parole: secondo Clair, la maggior parte delle persone non assiste più a una mostra, a uno spettacolo o a una proiezione, per ammirare delle opere e vivere un’ebrezza intellettuale, quanto per prendere parte a una manifestazione cui partecipano gli altri. Ovverosia per dichiarare, con modalità più o meno esplicite: “C’ero anch’io”. Cos’ha a che vedere tutto questo col vezzo di scattare delle istantanee? È presto detto: la fotografia sta subendo un processo analogo a quello descritto da Clair. Si pensi all’uso che ne viene fatto comunemente: quando ci si trova di fronte a un fatto insolito o a una situazione degna di nota, il primo istinto non è più quello di fermarsi a pensare o ad assaporarne le emozioni, ma quello di ritrarne ogni aspetto attraverso lo smartphone. Ritrarre, per poi condividere. Il termine iniziale di questa trasformazione è riconducibile alle due innovazioni che hanno potenziato, oltre ogni misura, la possibilità di diffondere i propri contenuti: la prima è l’avvento dei social network, le piattaforme di condivisione per eccellenza, la seconda è proprio lo sviluppo del “telefonino intelligente”, che ha reso possibile un uso continuativo di questi strumenti. Uno spartiacque. La fotografia esiste, infatti, da più di un secolo e mezzo, e l’esigenza di raffigurare “scene della vita” è di gran lunga precedente: antica come l’uomo. La differenza fondamentale è che, fino a qualche tempo fa, essa rappresentava un elemento episodico dell’esistenza, un’attività circoscritta ad ambiti specifici: le feste, i viaggi, l’espressione artistica. Ora è onnipresente. In qualche misura, predominante. È dunque lecito interrogarsi sugli effetti che essa esercita sul nostro modo di percepire e di intendere il mondo circostante. Partendo da un presupposto: non siamo preparati a gestire il flussi delle immagini, così come vengono filtrate e sollecitate dai nuovi strumenti della tecnica. Manca infatti una consapevolezza diffusa sulle ragioni e sulle modalità della loro realizzazione, del loro utilizzo, giacché il sistema dell’insegnamento pubblico sembra restio a cogliere il cambio di prospettiva avvenuto in questi anni. Siamo inseriti in una inedita “civiltà delle immagini”, ma la scuola sembra non vedere oltre la tradizionale “civiltà delle parole”. Questo è un ulteriore elemento di preoccupazione. Ma occorre tornare al tema principale: il nostro rapporto con l’immagine. Se è vero, come ha scritto l’iconologo tedesco Erwin Panofsky, che «le immagini sono parte di una cultura nel suo insieme e non possono essere comprese senza un’approfondita conoscenza di quella cultura», deve essere vero, specularmente, che la maniera con cui ci rapportiamo a esse descrive qualcosa del nostro modo di intendere la comunità e financo noi stessi. L’impressione è che la sinergia fra smartphone e social network come Facebook, Instagram e Twitter stia favorendo una forma di trasferimento dell’identità verso le proiezioni virtuali del sé: i profili internet presenti su queste piattaforme. Come se il prototipo umano descritto da Oscar Wilde, quel Dorian Gray posto in un rapporto di dipendenza diretta con la sua raffigurazione, stesse diventando uno scenario realistico, e per giunta collettivo. In questo sviluppo, la condivisione continua di fotografie raffiguranti la propria persona e la propria vita svolge, naturalmente,  un ruolo considerevole, vista la funzione che esse ricoprono nel definire e modellare l’identità di ognuno. Stiamo dunque trasferendo le nostre dinamiche interiori dai territori della psiche a quelli della Rete, dando forma a una realtà virtuale anticipata? Stiamo passando dall’essere protagonisti della nostra vita a esserne i meri testimoni? o per meglio dire: i fotografi ufficiali? Forse è azzardato, e di certo è prematuro. Ma il cambiamento è in atto. Si procede verso una nuova stagione del pensiero, in cui la rappresentazione digitale della vita ricoprirà una posizione di primaria importanza. Fotografia e video, in tutte le loro declinazioni, promettono d’essere il linguaggio prediletto di questa nuova estensione dell’io. Sembra fantascienza, ed è già la realtà. Occorre esserne consapevoli, perché l’alternativa -direbbero gli Hopi- è perdere l’anima.

 

 

 

 

* Praticante giornalista, ha collaborato con le testate Unimondo.org, con il mensile "Minerva" e con il canale all-news Tgcom24.