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27 marzo 2024
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La riforma del mercato del lavoro del Governo Renzi

Edmondo Montali * - 13.12.2014
Riforma lavoro Matteo Renzi

Circa quindici mesi dopo la Riforma Fornero, il Governo italiano, con una nuova guida politica, ha deciso di riscrivere le regole del mercato del lavoro.

La velocità con la quale si è tornati ad intervenire sul tema apre qualche interrogativo: o la precedente riforma non si è dimostrata all’altezza delle aspettative; o è stata giudicata insufficiente se non proprio sbagliata; infine, potrebbe adombrare l’ipotesi di un protagonismo dell’esecutivo che serva, se non proprio a intervenire per  convinte necessità politiche, a mostrare all’Unione Europea che l’Italia sta mettendo in campo gli sforzi necessari su quella strada delle riforme che sembra non avere fine.  In ogni caso, la ratio della riforma Renzi sul mercato del lavoro appare abbastanza coerente con la precedente anche se manca il testo definitivo in attesa che la norma venga completata dai decreti attuativi.

Il Governo vara una riforma del mercato del lavoro sostituendo al principio delle tutele crescenti quello dei risarcimenti crescenti. Il lavoratore, a seconda dell’anzianità di servizio, vedrà crescere progressivamente il corrispettivo economico che gli spetterebbe in caso di licenziamento. Annullate le garanzie di conservare il posto di lavoro anche di fronte a licenziamenti privi di giusta causa. E’ di tutta evidenza che una legge che consente i licenziamenti senza giusta causa toglie qualsiasi imprenditori dalla, eventuale, spiacevole tentazione di voler licenziare per motivi discriminatori. Certo, bisogna convenire con molti imprenditori: un lavoratore produttivo che si comporta bene resta un valore per l’azienda che, quindi, non avrà nessun motivo di licenziarlo. Ma questa giusta considerazione non esaurisce l’argomento. Piuttosto, bisogna riflettere sulla discrezionalità del potere imprenditoriale: è la possibilità di licenziare senza giusta causa che suona un po’ stridente con il tentativo di fare dei luoghi di lavoro qualcosa di diverso da isole di sospensione delle garanzie costituzionali. L’atto concreto del licenziare è solo l’ultima manifestazione di un  potere che, in verità, consiste nel poterlo fare  arbitrariamente anche senza validi motivi.

Siamo, quindi, di fronte a una sostanziale libertà di licenziare mitigata dall’indennizzo monetario e dalla parificazione dei diritti al primo gradino della contrattazione sempre che gli incentivi fiscali governativi favoriscano davvero la diffusione del contratto a tempo indeterminato per la quale sarebbe stata auspicabile una radicale semplificazione di quella vera e propria “giungla” contrattuale che caratterizza il nostro mercato del lavoro. Vale la pena considerare un mero calcolo economico sottolineato dal Servizio politiche territoriali della Uil e ripreso dal giornale La Repubblica: un lavoratore assunto con le nuove regole e licenziato dopo un anno porterebbe, grazie agli sgravi contributivi e al taglio dell’IRAP, un guadagno per l’imprenditore variabile tra i 2.800 e i 6.628 euro. Dopo tre anni il saldo per le imprese potrebbe arrivare a 19.000 euro. E’ solo un calcolo di scuola ma se il lavoro ha una valenza meramente contabile ed economica varrebbe la pena prenderlo molto seriamente. 

La scelta di fondo del Governo è chiara: monetizzare il lavoro lasciandolo, gradualmente e parzialmente, fuoriuscire dalla sfera della protezione del diritto. La tendenza è che il lavoro torni ad essere una merce scambiata sul mercato e soggetto esclusivamente alle sue regole. Non più un diritto della “parte debole” che il legislatore difende pur entro i vincoli della necessità produttive. La Costituzione sembra aver intrapreso un percorso a ritroso per uscire nuovamente dai cancelli delle fabbriche perché, in fin dei conti, il cittadino che entra nel campo di un rinnovato e rafforzato arbitrio padronale torna a veder confinato il proprio diritto di libertà esclusivamente nel momento contrattuale, che il giuslavorismo ci insegna essere una fittizia parificazione di condizioni iniziali tra datore di lavoro e lavoratore. Non si tutela più il lavoratore come persona; si interpreta il lavoro come merce. La differenza è abbastanza considerevole.

Naturalmente, la scelta non è dovuta ad un ingiustificato arbitrio di una classe dirigente insensibile e reazionaria. Esistono motivazioni solide a una riforma che allarghi i confini della precarietà e riduca il ruolo delle garanzie: competitività, produttività, adeguamento alle dinamiche dei nuovi mercati internazionali, paradigma della crescita legato alla valorizzazione e alla dis-integrazione del lavoro, scomposizione e ricomposizione delle dinamiche produttive in ambiti globali che recidono i vincoli della sovranità nazionale.

Sono motivi che non vanno banalizzati nascondendosi dietro alle vecchie dicotomie che dividono le scelte politiche tra buone o cattive, progressiste e reazionarie, sociali o antisociali e così via. Sono ragioni solide che investono il tipo di sviluppo più funzionale nell’economia mondiale. Tutti i governi occidentali varano riforme di questo tipo e la discussione non può ridursi o semplificarsi in una sorta di referendum ad personam contro o pro Renzi (il discorso diventa un po’ più complesso quando le riforme italiane non sono accompagnate, come sembra, né da politiche di piena occupazione né dall’implementazione dei meccanismi di Welfare che sono i due strumenti con i quali di solito si tenta di mitigare o accompagnare scelte di precarizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro).

E’ proprio lo sviluppo che vediamo crescere sotto i nostri occhi che lascia intimoriti di fronte a una regressione pericolosa. Oggi, la crescita attraverso la competitività è sicuramente una priorità oltre che l’indubbio presupposto per far uscire il Paese dalle secche della crisi. Molto meno scontata è l’idea dell’esistenza di un solo paradigma, imposto peraltro da dinamiche di sviluppo che si vogliono far passare come “neutre”, per realizzarla. Il rischio è di ricadere nelle stesse logiche di rigidità concettuale che si dice di voler disarticolare, soltanto partendo da presupposti opposti e non certo convincenti. In questo caso il presupposto è un pensiero dogmatico, e chiaramente funzionale a certi interessi, che esalta aprioristicamente una progressiva deregolamentazione del  mercato ritenendo che la politica debba fare solo scelte funzionali, abbandonando ogni velleità di guidare uno sviluppo di cui non prefigura i connotati e non definisce i contorni. Non solo a livello decisionale ma anche ridistributivo dal momento che anche la ripartizione della ricchezza deve rimanere coerente con i presupposti imposti dall’economia. Mi sembra di tutta evidenza che, con tale premessa, alla gestione della res pubblica non servano più i filosofi di Platone quanto solidi e preparati tecnici.

Strano paradosso. Queste dinamiche ruotano tutte intorno a termini come liberalismo, liberismo, liberalizzazione. Eppure, proprio le riflessioni sul concetto di libertà avevano aperto le società occidentali europee nel secondo dopoguerra alla valorizzazione del diritto del lavoro come precondizione indispensabile alla realizzazione e all’esercizio della libertà stessa dell’individuo.

Sembra solo una stravaganza semantica  ma nasconde un ripensamento del ruolo dei diritti civili e sociali di enorme portata.

 

 

 

* Edmondo Montali, ricercatore della Fondazione Giuseppe di Vittorio ed esperto di storia del movimento sindacale.