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17 aprile 2024
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La politica e il "consumismo mediatico"

Luca Tentoni - 19.11.2016
TV vecchio stile

Il dibattito sui cambiamenti d'orientamento dell'elettorato si è fin qui incentrato sulla definizione di "populismo". Spesso, dunque, si è data una connotazione (positiva o, più spesso, negativa) ad un fenomeno che invece, a nostro avviso, può essere studiato anche da punti di osservazione diversi. Uno di questi riguarda la "società della comunicazione". La caratteristica del nostro tempo è la velocità, ben rappresentata dall'esigenza di avere connessioni internet sempre più rapide e potenti. L'elettorato - sia quello che partecipa, sia quello che non va alle urne - sembra accomunato dalla necessità di ottenere dalla politica risposte veloci e possibilmente (almeno all'apparenza) efficaci. Questa esigenza mette in difficoltà tutte quelle forze politiche che non riescono a semplificare il proprio messaggio, a competere su un piano comunicativo che è fatto spesso di sintesi estreme, di slogan. La critica nei confronti delle élites e delle elaborazioni ideologiche tradizionali sembra far rimarcare la distanza fra il tempo e lo spazio argomentativo necessario ad elaborare e illustrare un progetto sociale e culturale e la necessità di una politica prêt-à-porter. Da un lato, non si ha una prospettiva seria se non c'è una "visione" del futuro traducibile in proposte concrete, dettagliate e realizzabili, perchè non basta chiedere all'elettore una fiducia pressochè "in bianco" (cioè basata su poche indicazioni sufficientemente vaghe per poter contemporaneamente ottenere vasto consenso e non doversi poi impegnare più di tanto nel dettaglio) ma, dall’altro lato, non si può neppure pensare che il linguaggio politico e la comunicazione possano tornare agli anni Sessanta o Settanta. Il problema della democrazia decidente, dunque, passa per un corretto rapporto fra ideologia, prassi, comunicazione, ascolto dell'elettorato e un adeguato feedback. I soggetti politici e sociali che sono percepiti come "lenti", cioè in contrasto con la fame di risposte rapide (una sorta di consumismo mediatico) espressa da gran parte del corpo elettorale, rischiano di finire nel mirino dell'opinione pubblica, cioè di apparire un freno al cambiamento e alla soluzione dei problemi di un paese. Di qui l'accusa - talvolta formulata in modo aggressivo - ad un'élite che "non sale sugli autobus e non frequenta i bar", perciò non capisce i veri umori della gente. Il tentativo di accomunare, generalizzando, intere categorie, riconducendole alla frase attribuita erroneamente a Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena ("S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche") è funzionale a distruggere quanto resta (non molto, sovente) della credibilità delle classi dirigenti. Nonostante queste accuse e la fine dei tradizionali modelli di partito (basati sulle sezioni, sulla presenza sia sul territorio, sia nei luoghi di lavoro), esistono ancora – nel campo occidentale - soggetti culturali e politici che potrebbero e forse dovrebbero ritrovare la voglia e la capacità di mettersi in contatto con la società per cercare di rispondere ai bisogni collettivi e settoriali. Il problema è che taluni sanno come comunicare le proprie ricette e altri no. Inoltre, la distanza fisiologica che certi leader scontano (per caratteristiche personali o per la loro storia politica pregressa) è accentuata e resa più devastante sul piano elettorale dal fatto che il loro linguaggio (anche non verbale) è o appare lontano da quello corrente. Così si crea il solco che li rende “altro” rispetto agli avversari, i quali possono sfruttare agevolmente questo vantaggio competitivo. Poichè all'"elettore-consumatore" giunge solo il "prodotto finale" (la proposta politica) spesso il fruitore non può ponderare con calma la fattibilità dei programmi, cioè la bontà degli ingredienti, ma ha bisogno di consumare il prodotto senza indugio. Eppure, ogni progetto politico, dal più semplice al più articolato, ha pregi e difetti: bisognerebbe avere tempo e modo di "leggere le controindicazioni", ma l'attenzione dura poco e si preferisce fare affidamento sull’”appetibilità” del messaggio. Basterebbe rifarsi ad alcuni episodi tratti dalla storia delle campagne elettorali della Seconda Repubblica per capire come siamo giunti, in Italia, alla situazione che ormai è comune a gran parte del mondo occidentale. Bossi, nel 1994-'96, sosteneva che la risposta alla "questione settentrionale" era la secessione del Nord: una soluzione semplice e d'effetto, sicuramente più accattivante rispetto a ragionamenti e a progetti politici più complessi. Non valutiamo qui il merito delle proposte, ma la loro "presa" sull'elettorato. Anni dopo, durante un importante dibattito televisivo pre-elettorale fra Prodi e Berlusconi, alla vigilia delle "politiche" 2006, il Professore parlò della riduzione del cuneo fiscale (cioè di un'espressione sconosciuta alla gran parte della popolazione) mentre il Cavaliere centrò il bersaglio semplicemente dicendo che avrebbe abolito l'imposta sulla prima casa (ben più nota). Anche i comportamenti hanno una valenza e un'efficacia politica: lo stesso Berlusconi, per mobilitare il suo elettorato alla vigilia delle elezioni del 2013 e dimostrare la "diversità antropologica" rispetto agli avversari politici, spolverò con un fazzoletto la sedia sulla quale stava per accomodarsi e dove era stato seduto fino a poco prima il giornalista Travaglio, quasi per "mondarla" dopo il passaggio del "nemico". Un gesto di grande effetto, una sorta di appello al popolo di centrodestra perchè tenesse presente il rischio della vittoria del temibile “virus” del centrosinistra e si mobilitasse per cercare di scongiurarlo. Nel contempo, era la mano del leader che interveniva, riconducendo al gesto e - in modo figurato - alla sua azione politica e al suo progetto, la possibilità di conquistare la "salvezza". Una rappresentazione, dunque, insieme simbolica, di facile comprensione, di impatto emotivo. Si potrebbe pensare, giunti a questo punto, che nelle democrazie contemporanee i partiti più "tradizionali" debbano scendere sullo stesso terreno di quelli "nuovi e veloci". Il punto, però, non è questo: non è utilizzando lo stile dell'avversario o copiandolo che si vince (anzi: talvolta è proprio l'errore fatale, perchè si va su un terreno dove il competitore si muove certamente meglio, essendo abituato a un certo registro comunicativo). Quindi il compito delle forze che aspirano a governare è quello di saper agire su tre fronti: il primo, mantenere sempre un rapporto col territorio e con l'opinione pubblica, al livello più capillare possibile (saper ascoltare); il secondo, essere in grado di elaborare soluzioni complesse ed efficaci (saper ragionare e filtrare); il terzo, comunicare con semplicità ed efficacia senza diventare banali (saper "tenere il ritmo" del tempo) utilizzando gli strumenti della sintesi e del marketing elettorale. Chi saprà far percepire non solo di essere in grado di rispondere "velocemente" ma di avere delle solide e credibili basi sotto la propria proposta politica, potrà competere efficacemente. In caso contrario, lo spazio politico sarà a lungo egemonizzato dalle forze che sanno imporre le proprie issues. Così fu per il federalismo: alla fine degli anni Novanta centrodestra e centrosinistra non facevano che parlarne favorevolmente, per accattivarsi le simpatie della Lega e di un elettorato che, in ampie zone del Nord, vedeva un diverso rapporto fra Stato e territori come il principale modo per risolvere i problemi del Paese e dei singoli ambiti territoriali. Il centrosinistra arrivò a modificare la Costituzione (il Titolo V) su quella spinta che potremmo definire culturale ma che forse era molto più politica, col risultato di riconoscere, quindici anni dopo, di aver compiuto uno sbaglio (a tal punto che la revisione costituzionale sottoposta al voto degli italiani il prossimo 4 dicembre – promossa proprio dal centrosinistra - vorrebbe abolire la legislazione concorrente e rivedere la ripartizione delle materie fra Stato e regioni). Fino agli anni Novanta, la nostra democrazia era considerata "imperfetta" perchè mancava la possibilità dell'alternativa di governo, ma ora, di fronte all'avvento di un linguaggio comunicativo che esclude sempre di più le formazioni che non riescono ad adattarsi ai nuovi stilemi, si rischia di restare nell'incompiutezza. La democrazia, infatti, funziona se i soggetti politici sono in grado di competere ad armi pari e con una possibilità di successo non pregiudicata prima della competizione. Chi "detta i temi" delle priorità in agenda vince, ma anche chi sceglie l'arma del duello. Perchè vi sia una vera competizione occorre un riequilibrio di entrambi gli aspetti. Ad oggi, tuttavia, le forze politiche "tradizionali" non sembrano ancora in grado (per mancanza di capacità o di volontà) di riuscire a portare a compimento questo sforzo, necessario non tanto per la loro sopravvivenza ma per il futuro della democrazia (che è competitiva o non è).