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La lunga marcia?

Paolo Pombeni - 14.09.2016
Matteo Renzi dialogante

Solo una decina di giorni fa tutti commentavano la nuova versione di Renzi passato da rottamatore a dialogante. Ora, dopo l’intervento di domenica, sembra che il presidente/segretario abbia ripreso pieno possesso delle armi della polemica politica. E’ una semplice oscillazione che risponde alle platee con cui si ha a che fare, per cui si fa polemica quando si devono scaldare le folle e si fa dialogo quando si deve acquisire credibilità davanti ai ceti sociali dirigenti?

Una spiegazione di questo tipo non è infondata, ma non dice tutta la verità. In un contesto in continuo movimento, la tentazione di inseguire le onde mutevoli della pubblica opinione è molto forte per qualsiasi leader politico. Aggiungiamoci che quando quel movimento è difficile da interpretare i leader cadono spesso prigionieri di schiere di cortigiani (pardon: adesso si chiamano spin doctor) che si contendono fra di loro i favori del capo criticando a vicenda i consigli dei loro concorrenti.

Adesso sembra dunque che prevalgano quelli che suggeriscono al premier che la battaglia per l’affermazione politica non si può vincere senza tornare a farne una questione di scelta fra angeli e diavoli. Renzi ha trovato in D’Alema la perfetta incarnazione per portare avanti questa dicotomia e non mancano quelli che intendono questa tattica come di derivazione berlusconiana. Ovviamente si tratta di memoria corta: qualcuno che legge qualche libro di storia ricorderà le dicotomie De Gasperi versus Togliatti. Si potrebbe dire che la differenza sta nel fatto che ora la dicotomia è interna al partito di maggioranza, ma anche qui qualche parallelo c’è, ricordiamo De Gasperi versus Dossetti, oppure Fanfani versus Moro (così, tanto per citare).

Il fatto è che questa tattica nasce da una constatazione: gli avversari di Renzi, dentro e fuori il suo partito, non rinunciano ad attacchi personalizzati che sfociano nel catastrofismo, sicché si suggerisce al premier che non rispondere a questi attacchi sarebbe un segno di debolezza. Ormai a dominare la visione degli strateghi politici (termine eccessivo, ma tanto per intenderci) è l’idea che sia tutta una questione di lotta fra pasdaran, fra fazioni che tutto cercano fuorché un’intesa. Dunque l’unica prospettiva possibile è alzare i toni in modo da convincere un po’ di persone che si ha la vittoria in mano, per cui non conviene schierarsi con il proprio avversario. La gran massa della gente starà a guardare.

Purtroppo è una visione largamente condivisa. Lo si è visto in modo quasi plateale sulla questione della riforma della legge elettorale, che sembrava una richiesta seria della minoranza dem e di tanti osservatori esterni. Renzi si è detto disposto a discuterne, giustamente osservando che poi bisognava trovare una maggioranza parlamentare per far approvare le modifiche. Bersani e tutti i suoi oppositori interni hanno ritenuto di essere semplicemente in presenza di “segnali di fumo”.

E’ proprio così? Un atteggiamento maturo avrebbe richiesto che si chiedesse prima di vedere le carte e di confrontarsi su quali proposte di accordo fosse possibile avanzare con qualche chance di poterle vedere approvate in parlamento. Siccome però tutti sanno che in questo momento, finché non si vedrà come finisce col referendum, le prospettive di trovare una qualche tipo di intesa sono pressoché nulle, si continua nel braccio di ferro assurdo. Non è difficile capire che dopo aver detto che la riforma costituzionale è un disastro per il cosiddetto “combinato disposto” con l’Italicum, se questo viene meno si indeboliscono molto le argomentazioni del “no”. Allora da un lato si chiede che la legge elettorale venga cambiata e dall’altro si fa in modo che ciò sia impossibile, perché ciascuno si barrica dietro un suo progetto di riforma incompatibile con gli altri e soprattutto non in grado di raccogliere alcuna maggioranza parlamentare.

In queste condizioni Renzi è spinto ad accentuare i toni della contrapposizione polemica, nella convinzione che alla fine il problema vero non sia riconquistare il consenso all’interno del suo partito, ma sfondare presso una opinione pubblica che è preoccupata per una situazione economica e sociale ancora in difficoltà. Anche qui sulla carta il calcolo è saggio, ma nella realtà non si riesce a capire quanto la gente colga una connessione fra il partecipare al referendum e promuovere una ripresa della stabilità politica che è condizione determinante per rimettere finalmente in moto il ciclo degli investimenti e della ripresa economica.

In realtà siamo in  presenza di quella che si annuncia come una lunga marcia: lunga anche se al referendum mancano solo pochi mesi, perché si tratterà di una specie di guerriglia combattuta casa per casa (e non è una bella cosa). Ma lunga anche perché comunque vada ci sarà un “dopo” da gestire: e non sarà una passeggiata. Se vincerà il sì, perché ci sarà da mettere a regime un sistema con moltissime novità (e ricordiamoci che con la Costituzione del 1948 ci volle più di un decennio per andare a regime); se vince il no perché si dovrà inventarsi un nuovo equilibrio politico.