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L’Italia non è più un paese per Enrico Mattei? Alcune considerazioni sul Referendum del 17 aprile “No-Triv”

Massimo Bucarelli * - 17.03.2016
No-Triv

L’importanza di Enrico Mattei nella storia politica ed economica del nostro paese è ben chiara e nota a molti, se non a tutti. Mattei ebbe l’intuito imprenditoriale e soprattutto la capacità politica di non liquidare l’AGIP, considerata un’inutile eredità del regime fascista. Ne rilanciò, anzi, le attività di perforazione del territorio nazionale e ne fece l’asse portante dell’ENI, l’ente di Stato istituito nel 1953 su sua proposta per provvedere al fabbisogno energetico nazionale. Grazie alle iniziative di Mattei e dei suoi successori, l’ENI è riuscito a inserirsi in breve tempo nel mercato mondiale degli idrocarburi, diventando una delle maggiori multinazionali nel settore energetico (attualmente il sesto gruppo petrolifero al mondo) e la prima azienda italiana per fatturato.

L’azione di Mattei ebbe l’appoggio dei politici, che avevano le maggiori responsabilità di governo, e il consenso dell’opinione pubblica, interessata a recuperare il gap economico e sociale con gli altri paesi industrializzati. Pur essendo arduo fare comparazioni e confronti tra la classe dirigente e la società civile dell’epoca e quelle attuali, per la diversità del contesto politico, delle situazioni economiche e dello sviluppo tecnologico, forse non sarebbe azzardato affermare che nell’Italia del dopoguerra, che si avviava a vivere la stagione del miracolo economico, maggiore sembrava essere la consapevolezza di quali fossero le priorità del paese. Al contrario, nell’Italia attuale sembra essersi smarrita la capacità di discutere sui fatti, entrare nel merito delle questioni e ragionare sul funzionamento complessivo del sistema paese, preferendo che a dominare il dibattito pubblico siano la contrapposizione di posizioni aprioristiche e non negoziabili, la delegittimazione costante della controparte e la difesa di interessi esclusivamente locali.

Caso tipico sembra essere il Referendum del prossimo 17 aprile sul rinnovo delle concessioni estrattive per i giacimenti di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa italiana. Si tratta del cosiddetto referendum “No-Triv”, una consultazione che è stata richiesta dalle Assemblee regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise, e che tende ad essere presentata dai promotori come una chiamata alle armi contro un’attività accusata di provocare quotidianamente danni irrimediabili al nostro territorio, con ripercussioni drammatiche sulla pesca, il turismo e l’agricoltura, senza vantaggi per le popolazioni locali e il paese tutto, e a esclusivo beneficio di multinazionali straniere.

Tuttavia, se si ragiona sulla base dei fatti e dei dati, il quadro sembrerebbe diverso. Il Referendum non riguarda il rilascio di nuove concessioni entro le 12 miglia marine, perché è già stato vietato dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, denominato “Norme in materia ambientale”. Agli elettori si chiede, invece, di abrogare una parte di quella stessa legge, il comma 17 dell’art. 6 per la precisione, che permette alle aziende già impegnate nella produzione offshore di idrocarburi – quasi tutte italiane e controllate dall’ENI[1] - di rinnovare le concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti. Si chiede, in buona sostanza, di fermare definitivamente attività estrattive che sono in essere da anni nei nostri mari, in alcuni casi da decenni, senza che si siano verificati disastri ambientali, che il turismo di massa lungo le coste adriatiche da Rimini a Santa Maria di Leuca ne abbia risentito in alcun modo, che la pesca sia stata danneggiata.

Finora, invece, sembra che gli impianti delle 21 concessioni esistenti, attivi soprattutto in Adriatico e in misura minore in Basilicata e in Sicilia, abbiano portato alcuni importanti vantaggi. Oltre a impiegare più di centomila lavoratori e a creare un indotto significativo, le attività estrattive offshore hanno grandemente contribuito ad assicurare al paese il 10 per cento del fabbisogno nazionale di gas metano, dato che 4/5 di tutto il gas prodotto in Italia viene estratto dal mare. Assai minore, invece, è la quota del greggio prodotto offshore, dato che costituisce solo un quarto di tutto il petrolio estratto in Italia, i cui giacimenti più importanti si trovano a terra, soprattutto in Basilicata. In estrema sintesi, quindi, il Referendum è diretto soprattutto a porre fine alla produzione del gas ricavato dai mari italiani, vale a dire del combustibile fossile meno inquinante e più sicuro dal punto di vista ambientale, essendo quello a più bassa emissione di anidride carbonica, individuato generalmente come la principale fonte energetica nella transizione verso l'uso esclusivo delle rinnovabili.

È necessario, quindi, essere consapevoli delle conseguenze del Referendum. In caso di mancato rinnovo delle concessioni offshore, sarà smantellato un settore industriale attivo e ben funzionate da tempo, si perderanno posti di lavoro, si porrà un problema ambientale non di poco conto, causato dall’abbandono di giacimenti sfruttati solo in parte e dal deterioramento degli impianti eventualmente chiusi; ma sopra ogni cosa aumenterà la dipendenza energetica da forniture straniere e da variabili economiche e politiche internazionali, difficilmente controllabili e prevedibili, perché quella quota, tutt’altro che insignificante, di fabbisogno energetico nazionale, assicurata dalla produzione interna di gas, dovrà essere sostituita, almeno nel breve e medio termine, con importazioni dall’estero. Tutto ciò in attesa che le rinnovabili conoscano uno sviluppo tecnologico tale da garantire ciò che finora non sono state in grado di assicurare, a causa della loro aleatorietà: stabilità e continuità dell’approvvigionamento energetico. Le rinnovabili sono senz’altro il futuro, ma non ancora il presente, per cui occorre un congruo periodo di transizione, che va gestito e pianificato, senza affondare immediatamente il sistema gas in assenza di una valida alternativa non solo economica, ma anche ambientale; non si comprende, infatti, come l’ampiamento degli impianti eolici e fotovoltaici, la realizzazione di nuovi invasi artificiali per l’idroelettrico (in realtà ormai saturo in Italia), o la costruzione di inceneritori per la termovalorizzazione dei rifiuti (che, tra l’altro, quasi nessuno vuole all’interno del proprio comune) possano essere considerati meno impattanti sull’ambiente e il paesaggio delle piattaforme in mezzo al mare.

Su questo si dovrebbe ragionare e di questo bisognerebbe parlare, indicando alternative efficaci ed efficienti in tempi utili e certi. Chi, invece, promuove e sostiene legittimamente le regioni del Referendum sembrerebbe essere impegnato a parlare di tutt’altro: di ciò che finora, in realtà, non è mai avvenuto, i disastri ambientali, presentati però come incombenti; di ciò che non sta avvenendo, l’estrazione di petrolio, mentre è il gas che viene prodotto in mare; di ciò che non avverrà, l’aumento sregolato ed esponenziale delle concessioni offshore, cosa impossibile perché vietata dalla normativa vigente. Di fronte a un dibattito pubblico incapace di fornire agli elettori elementi per valutare e decidere, ma diretto solo a suggestionare le menti ed eccitare gli animi, sorge concretamente il dubbio che la visione strategica e l’intuito imprenditoriale di un altro Mattei possano avere di nuovo successo.

 

 

 

 

* Docente di Storia delle Relazioni Internazionali. Università del Salento


[1] http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/strutturemarine/piattaforme.pdf