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L’impasse della politica

Paolo Pombeni - 13.11.2014
Jobs Act

Renzi vuole chiudere entro tempi relativamente brevi l’iter di almeno una parte delle riforme su cui ha scommesso per il successo della sua “svolta”, ma la partita si annuncia più difficile del previsto (e già nessuno l’aveva data per facile …). Al momento però sembra che l’orizzonte vada caricandosi di nubi più che di presagi di rasserenamento.

Non si capisce bene quanto fondamento abbiano i rumors su una crisi imminente della finanza pubblica per via del debito rilevante che grava sull’Italia, debito che, si sussurra, gli investitori internazionali non sarebbero più disponibili a sostenere. Al momento se ne parla a mezza bocca, a parte quelli che ci speculano sopra e che si lanciano volentieri in profezie catastrofiche, le quali però sembra lascino il tempo che trovano.

Al netto di questa incognita, rimane però il fatto che si scontrano tre fattori: la necessità di portare a termine due riforme improrogabili (la legge di stabilità, senza la quale si andrebbe all’esercizio provvisorio, prospettiva destabilizzante, e la legge sul lavoro), lo scoglio della riforma elettorale, l’improvvida apertura semi-ufficiale della campagna per la successione a Napolitano.

Legge di stabilità e Jobs Act confliggono con la riforma elettorale perché si sovrappongono in questo ultimo scorcio d’anno. Si tenga conto che in una politica ormai usa ai ricatti reciproci, avere tre leggi così importanti che vanno in parallelo significa esporsi a condizionamenti incrociati continui. L’opposizione di centro-destra ha buon gioco a dire che la legge di stabilità è centrale per la ripresa economica tanto da far posporre quella riforma elettorale di cui invece Renzi ha bisogno per tenere sotto controllo la situazione. Non si tratta tanto per lui di disporre dell’arma per andare a breve ad elezioni anticipate (poco gli gioverebbero col Senato non ancora riformato), quanto di poter contare sull’effetto “tranquillizzante” che produrrebbe la conoscenza delle future regole del gioco.

Vediamo di spiegarci. Se il progetto che sembra avere in mente il premier si realizza, avremo dinnanzi questo quadro. 1) Grazie al problema del premio alla lista che raggiunge il 40% dei voti al primo turno o a quella fra le due meglio piazzate che lo vince al ballottaggio, ha la fondata speranza di ottenere per sé la maggioranza dei seggi in palio. 2) Grazie ad una soglia di accesso ragionevole, probabilmente alla fine attorno al 4%, si ottiene un parlamento sufficientemente frammentato da non avere una opposizione compatta che potrebbe sempre fare davvero politica. Un certo numero di partiti relativamente piccoli consentirebbero un gioco di rincorsa alle varie lobby e gruppi di interesse in modo da contenere le spinte contrastanti che potrebbero esprimersi nel partito vincitore del premio di maggioranza.

L’incognita è ovviamente data dal sistema delle preferenze, che pare inevitabile introdurre a questo punto. Lasciamo perdere le motivazioni populiste di chi dice che così si ridà libertà di scelta ai cittadini: si sa bene che l’esercizio della preferenza non è molto sviluppato, sicché alla fine è l’ordine di lista quello che porta al risultato. La banale realtà è che da un lato le preferenze sono richieste dalle minoranze interne ai grandi partiti, perché  queste minoranze possono contare su un appoggio di militanza più determinato e quindi di elettori che usano l’opportunità offerta da questo strumento (così i “minoritari” interni si legittimano, certificano il loro peso, e qualche volta scalano posizioni). Dal lato opposto i vertici dei partiti non vogliono però perdere l’opportunità di blindare uomini a loro fedeli, ma soprattutto vogliono conservare il potere di assegnare le prebende, senza il quale si avrebbero leadership ammaccate.

Come si comporranno queste due esigenze, se davvero con liste mezzo bloccate e mezzo aperte alle scelte di preferenza, lo vedremo, ma intanto questa battaglia porta benzina al rogo che si sta per accendere attorno alla questione della successione a Napolitano.

Si tratta di una faccenda estremamente delicata, perché stiamo parlando di quella che è vissuta a livello internazionale come la vera istituzione di garanzia in un momento di grande turbolenza politica ed economica, non fosse altro per la sua durata di un settennato. Ebbene, il clima che si respira non è improntato alla coscienza di questa delicatezza. Anche lasciando perdere la ridda di “maschere” che si mettono in campo, non si sa bene a vantaggio di cosa, è piuttosto evidente che troppi percepiscono il passaggio dell’elezione del futuro Presidente della Repubblica come una buona occasione per “farsi valere” (e non diciamo di peggio).

In un contesto come quello attuale dove allignano già le male piante dei miti antipolitici (“Re Giorgio”; “il colpo di stato del presidente”; “la monarchia assoluta” e via elencando), trasformare quel passaggio, che prima o poi è inevitabile, in una sfida all’ultimo sangue fra le troppe tribù che sono individuabili nel parlamento è l’ultima cosa che serve al nostro paese nella difficile congiuntura internazionale in cui ci troviamo.

L’abbiamo già visto, ma allora c’era davvero una “riserva della repubblica”, mentre ora sarà quantomeno assai difficile ricorrere a qualcosa di simile.